Documento del Partito comunista dei lavoratori, 9 agosto 2011
La questione del debito pubblico domina lo scenario internazionale
ed europeo. Il clamoroso declassamento del debito americano, in queste
ore, ne è una riprova.
I circoli dominanti e i loro partiti presentano il nodo del debito
come questione tecnica inerente alla oggettività “naturale” delle
leggi economiche. In realtà si tratta di una grande questione sociale
e di classe che svela la totale irrazionalità del capitalismo e
le dinamiche della sua crisi.
Vediamo meglio.
Le origini del debito pubblico negli anni Ottanta
L'esplosione del debito pubblico ha come sfondo l'esaurimento del boom
economico postbellico. Lo sviluppo economico del dopoguerra, trascinato
prima dalla ricostruzione, poi dalle spese militari della guerra fredda,
aveva consentito - sia negli USA, sia in Europa - una progressiva riduzione
del debito pubblico accumulatosi durante la guerra. L'esaurimento del boom
all'inizio degli anni '70 (con la crisi recessiva internazionale del '74-'75)
mutò radicalmente il quadro. Per contrastare la caduta del saggio
di profitto, il governo americano e i governi europei inaugurarono una
politica economica di riduzione progressiva delle tasse sulle voci del
capitale: rendite, profitti, patrimoni. Fu l'epoca del reaganismo e del
thatcherismo. Ovunque le classi dirigenti furono alleviate degli oneri
di “responsabilità sociale”. Ovunque le classi subalterne pagarono
di tasca propria il beneficio dei possidenti, con una prima compressione
delle protezioni sociali acquisite, in varie forme, nel ciclo precedente.
Queste politiche capitaliste furono del tutto incapaci di rilanciare una
vera crescita economica capitalista. Ma furono capaci di concorrere al
dissesto dei bilanci pubblici, che non a caso videro dagli anni '80 una
diffusa impennata del debito.
Le banche investono nel debito pubblico
Come finanziare l'erario pubblico, nel momento in cui si dispensavano
sempre più i capitalisti dallo spiacevole onere di pagare le tasse?
In parte, come s'è detto, aggravando la pressione (anche fiscale)
sul lavoro dipendente. In parte - ecco il punto - indebitandosi sul mercato
finanziario. Cioè mettendo in vendita titoli di Stato a un determinato
tasso di interesse e relativamente appetibili (anche per i benefici fiscali
spesso concessi ai compratori). Chi erano i compratori dei titoli di Stato?
Certo anche piccolo borghesi, pensionati, fasce di lavoratori, che ancora
disponevano negli anni '80 e nei primissimi anni '90 di un qualche risparmio
da investire. Ma i maggiori compratori divennero sempre più, a partire
dalla metà degli anni '90, i cosiddetti investitori istituzionali:
grandi banche (private e pubbliche), compagnie di assicurazione, imprese
industriali, cordate finanziarie. Dentro un mercato finanziario sempre
più allargato su scala planetaria dal crollo del Muro di Berlino,
dinamicizzato dalle nuove tecnologie informatiche, sospinto dal quadro
di perdurante stagnazione economica produttiva. Proprio così: contrariamente
al diffuso luogo comune riformista che dipinge il liberismo e la finanziarizzazione
come progressiva emarginazione dello Stato dall'economia, fu proprio il
mercato dei titoli di Stato a contribuire significativamente all'espansione
del capitale finanziario negli ultimi vent'anni. E con esso del debito
pubblico.
Lo Stato paga i banchieri
Debito di chi verso chi, dunque? Questo è il punto rimosso,
significativamente, dal dibattito pubblico. Eppure è il punto decisivo.
Se è vero, come è vero, che gli acquirenti dei titoli di
Stato sono sempre più i grandi potentati industriali e finanziari,
il pagamento del debito pubblico si riduce al pagamento degli interessi
alle banche, alle assicurazioni, ai capitalisti. La crescita del debito
pubblico è solo la crescita del versamento di denaro pubblico nelle
tasche delle classi sociali dominanti. Che per di più sono quelle
già sgravate progressivamente dal pagamento delle tasse e dunque
responsabili del dissesto dei bilanci statali. E chi paga, dunque, il pagamento
del debito pubblico? Naturalmente le classi subalterne, quelle già
gravate dal grosso del carico fiscale, con un nuovo carico di sacrifici.
Crisi capitalistica e debito sovrano. Cresce la rapina al servizio
delle banche
Questo meccanismo infernale ha ricevuto una spinta ulteriore e abnorme
proprio dalla grande crisi capitalistica internazionale iniziata nel 2007.
Cos'è successo? E' successo che la crisi di sovraproduzione
mondiale e il crollo della piramide finanziaria hanno scosso alle fondamenta
il sistema bancario internazionale, a partire dagli USA. Gli stessi Stati
e governi che per anni avevano cantato ipocritamente le lodi del liberismo
quando dovevano giustificare tagli sociali alla povera gente, sono accorsi
precipitosamente al capezzale delle banche versando loro una massa gigantesca
di risorse pubbliche, pagate da un nuovo e più pesante attacco a
sanità, pensioni, istruzione, lavoro, ma anche da una crescita enorme
del debito pubblico. Cioè da un nuovo massiccio indebitamento dello
Stato presso banchieri e capitalisti. E qui viene il bello: larga parte
dei soldi regalati dallo Stato a capitalisti e banchieri sono stati da
questi investiti non in produzione e lavoro (data anche la crisi di sovraproduzione),
ma nell'ennesimo acquisto di titoli di Stato, cioè nel debito pubblico.
Ecco allora la contraddizione esplosiva: da un lato i bilanci pubblici
sono sempre più dissestati dall'aiuto statale ai banchieri; dall'altro
i banchieri, acquirenti dei titoli di Stato (coi soldi regalati dallo Stato)
pretendono da quest'ultimo assoluta certezza di pagamento degli interessi
pattuiti. E dunque una politica di maggiore “rigore” della finanza pubblica.
Ecco ciò che si chiama “solvibilità dello Stato”: l'affidabilità
dello Stato nel pagamento dei banchieri. E come fa lo Stato a conquistarsi
tale affidabilità? Approfondendo sempre più la rapina sociale
commissionata dalle banche contro i lavoratori e la maggioranza della società.
Una rapina che oggi conosce, in America come in Europa, una drammatica
intensificazione. Sotto i governi di ogni colore e con un'ampia corresponsabilità
bipartisan.
Debito pubblico e Unione Europea
La crisi del debito sovrano investe in particolare l'Unione Europea.
Perché qui la crisi economica si somma con la crisi politica dell'Unione.
E' vero: il debito pubblico europeo è mediamente minore, non
maggiore, di quello americano o giapponese. Ma a differenza degli USA o
del Giappone, che dispongono di un'unità statale e di una banca
centrale di garanzia, la UE versa in una situazione esattamente opposta.
E la contraddizione tra una moneta unica e l'assenza di un unico Stato
genera un quadro caotico proprio sul terreno finanziario. Tanto più
sullo sfondo di una divaricazione strutturale progressiva tra gli Stati
capitalistici centrali dell'Unione (in particolare la Germania) e gli Stati
periferici mediterranei.
Il caso Grecia ha semplicemente fatto da detonatore di questa contraddizione
esplosiva. Non solo e non tanto per l'insolvibilità di fatto del
debito greco presso le banche francesi e tedesche, grandi acquirenti dei
titoli ellenici. Ma per l'assenza, che quel caso ha evocato, di un meccanismo
generale di garanzia dei titoli di Stato in Europa e dunque per le banche
che li possiedono.
Il cosiddetto fondo europeo salva-Stati (cioè salva-banche)
che formalmente è stato predisposto (dopo un estenuante contenzioso
interno), non solo non ha risolto il problema, ma l'ha riproposto al massimo
grado. Sia per i tempi lunghi della sua operatività, sia per l'esiguità
dei fondi a disposizione, sia per la discrezionalità dell'eventuale
intervento (chi decide?), sia per il (parziale) coinvolgimento nel salvataggio
delle stesse banche private acquirenti dei titoli. Ciò ha spinto
e spinge una parte consistente di istituti finanziari internazionali (anche
europei) a disfarsi dei titoli di Stato europei, per ripiegare altrove.
E questo fatto genera due fenomeni complementari. Da un lato, un calo di
valore dei titoli statali, e quindi del patrimonio delle banche che li
possiedono, con una ricaduta restrittiva sul credito alla produzione; dall'altro
una crescita dei loro rendimenti, cioè dei tassi d'interesse a cui
sono venduti: perché aumentando il rischio dell'insolvibilità
del venditore (lo Stato), il compratore (la banca) pretende un maggiore
guadagno.
Crescita dei rendimenti e pratica legale dell'usura
Come si vede, la pratica criminale dell'usura è moneta corrente
delle relazioni economiche capitaliste. Non solo non è condannata
dalla morale dominante, men che meno dalla legge, ma viene addirittura
elevata a legge naturale dell'economia e dunque a ragione della rapina
antipopolare. Quante volte sentiamo ripetere in Italia che il rialzo dei
rendimenti dei “nostri” titoli di Stato costringe a un più virtuoso
“rigore” (contro i lavoratori)? Il fatto che magari il rialzo dei rendimenti
sia dovuto a vendite massicce dei titoli italiani da parte della Deutsche
Bank viene accuratamente rimosso. Meglio accusare ignoti e fantomatici
“speculatori”, o l'impersonalità dei mercati, piuttosto che il cuore
di quella fraterna Unione per cui si chiedono tanti sacrifici agli operai.
Resta il fatto che in tutta Europa il pagamento del debito alle banche
strozzine è diventata la bandiera di una nuova mostruosa rapina.
L'unica unione che i capitalisti europei e i loro Stati hanno saputo realizzare
è quella contro il proletariato continentale al servizio delle proprie
banche.
Debito pubblico e capitalismo italiano
La crisi finanziaria in Italia è figlia della crisi europea.
Certo, la questione del debito pubblico in Italia ha radici specifiche
e lontane, connesse con la storia dell'unificazione nazionale, col particolare
retaggio del parassitismo clientelar-burocratico della prima Repubblica,
con i privilegi secolari del Vaticano (anche in fatto di esenzione fiscale),
col carattere patologico dell'evasione fiscale delle classi proprietarie.
Ma queste antiche radici - anch'esse peraltro legate alle caratteristiche
strutturali del regime borghese, e alla sua particolare conformazione nazionale
- non possono cancellare l'attuale natura prevalente del debito pubblico
italiano, un debito sospinto e riprodotto negli ultimi vent'anni dalla
dipendenza crescente dello Stato verso il capitale finanziario, interno
e internazionale. Un debito dominato dalle banche.
La propaganda dominante che attribuisce il debito pubblico all'eccesso
di concessioni ai lavoratori e agli strati popolari (“siete vissuti al
di sopra delle vostre possibilità”) non solo è totalmente
falsa ma capovolge esattamente i termini della questione. E' stata proprio
la progressiva defiscalizzazione delle classi proprietarie, pagata dal
peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, ad accompagnare
strutturalmente la crescita del debito pubblico. Basta guardare l'evoluzione
del regime fiscale in Italia negli ultimi vent'anni e la parallela redistribuzione
della ricchezza a vantaggio di rendite, profitti, patrimoni. Detassazione
delle classi proprietarie, aumento del prelievo fiscale sul lavoro dipendente,
espansione della grande ricchezza immobiliare e finanziaria e sua concentrazione
in poche mani: questi sono i dati che hanno accompagnato la crescita del
debito pubblico. Perché? Perché il vuoto dei conti pubblici
(nazionali e locali) aperto dalla detassazione del capitale è stato
compensato dal ricorso sempre più largo dello Stato all'indebitamento
verso le banche. Le quali, prima beneficiate dai tagli fiscali, poi beneficiate
dal pagamento degli interessi sui titoli, hanno anche per questo allargato
la propria presa sul grosso della società italiana e dei suoi gangli
vitali, allargando il processo di accumulazione di ricchezza. La struttura
“bancocentrica” del capitalismo italiano è oggi riconosciuta dalla
stessa stampa borghese.
Chi possiede il debito pubblico italiano? Le banche
Chi possiede oggi il debito pubblico italiano? Per il 50% banche, imprese
e istituti finanziari stranieri. Per l'altra parte banche, imprese, e assicurazioni
italiane. Fuori da questi pacchetti proprietari, restano davvero pochi
spiccioli. Basta questo dato, pubblicamente riconosciuto, per capire chi
intasca ogni anno gli ottanta miliardi di interessi versati dallo Stato
italiano sui propri titoli. Anche in questo caso è la detassazione
del capitale ad aver finanziato il debito pubblico, persino in forma diretta:
i guadagni ricavati dal capitale grazie alle mille regalie fiscali dei
governi di centrosinistra e centrodestra (basti pensare all'enorme riduzione
della tassa sui profitti industriali e bancari - dal 34% al 27% - realizzata
dall'ultimo governo Prodi) sono finiti in parte nell'acquisto di nuovi
titoli statali, e dunque nell'accaparramento di nuove risorse pubbliche.
Il beneficio di classe ha finanziato la rapina di classe.
E lo stesso è avvenuto a livello di amministrazioni locali,
dove il taglio massiccio di trasferimenti pubblici dello Stato (connessi
al processo del cosiddetto federalismo) e l'esenzione fiscale delle classi
proprietarie (vedi per ultima l'esenzione dall'ICI per le stesse abitazioni
di lusso da parte del governo Berlusconi), hanno spinto i governi locali
all'indebitamento sul mercato finanziario, sino a determinare la somma
complessiva di circa settanta miliardi di interessi annuali da versare
alle banche. Una somma quasi pari a quella versata dallo Stato centrale.
E pagata, com'è noto - anche qui - dal taglio sistematico dei servizi
(scuola, asili, trasporti locali...) oltre che dall'aumento di rette, tasse,
tariffe.
Le ragioni della crisi attuale del debito italiano
Perché oggi il debito sovrano italiano è entrato in crisi?
Perché i “nostri” titoli di Stato sono investiti dalla bufera finanziaria
internazionale? Per un insieme di ragioni di fondo. Tutte riconducibili,
in ultima analisi, alla presenza del terzo debito pubblico del mondo (120%
del PIL), ma non riducibili a questo solo dato.
Il nuovo patto di stabilità europeo concordato nel marzo 2011
prescrive per l'Italia non solo il pareggio di bilancio entro il 2014 (oggi
anticipato), ma l'abbattimento di novecento miliardi di debito pubblico
nei prossimi vent'anni ai fini del raggiungimento del 60% del PIL: significa
fare ogni anno un'operazione finanziaria di cinquanta miliardi, al netto
del pagamento degli interessi sul debito. Questa operazione enorme di macelleria
è già di per sé un'impresa titanica. Ma tanto più
lo è in un quadro di particolare stagnazione produttiva (l'economia
capitalistica italiana è la più stagnante delle grandi economie
europee) e alla vigilia di un possibile terremoto politico istituzionale
interno (connesso alla crisi della seconda Repubblica).
A ciò si aggiunge un particolare decisivo: a differenza della
Grecia, del Portogallo o dell'Irlanda, che contano, dopotutto, una massa
debitoria relativamente modesta, e sono quindi passibili di “aiuto”, l'Italia
registra un debito pubblico enorme in cifra assoluta (1800 miliardi a fronte
dei 350 della Grecia), e un suo salvataggio sarebbe economicamente improponibile.
Ma al tempo stesso un default dell'Italia - cioè della settima economia
capitalistica mondiale - trascinerebbe con sé il crollo dell'Unione
e dell'euro, con un effetto domino sul sistema bancario internazionale.
Tutto questo eleva enormemente il rischio dei titoli italiani sul mercato
finanziario. E dunque la pretesa di un rendimento più alto da parte
delle banche strozzine creditrici. Ciò che determina a sua volta
un ulteriore aumento del debito e del relativo “rischio”. Questa è
la spirale che sta avvolgendo l'economia italiana.
Crisi del debito pubblico e crisi dei titoli bancari
C'è di più. E' vero che le banche italiane sono state
meno esposte di altre sul mercato mondiale dei titoli tossici, e non sono
coinvolte direttamente in bolle immobiliari esplosive come quelle spagnole.
Ma è vero anche che sono molto esposte sul versante dei titoli di
Stato, di cui sono grandi acquirenti. Questo significa che un calo di valore
dei titoli italiani si traduce direttamente in un calo patrimoniale delle
banche. Mentre la crescita dei rendimenti dei titoli di Stato costringe
le banche, per ragioni di concorrenza, ad alzare i rendimenti delle proprie
obbligazioni, fonte primaria del loro autofinanziamento. Il che significa
una loro maggiore spesa di interessi proprio nel momento del loro indebolimento
patrimoniale. La conseguenza di tutto questo è molto semplice: la
crisi del debito sovrano trascina con sé la crisi dei titoli bancari
italiani (non a caso i più penalizzati dalle Borse). E la crisi
dei titoli bancari si traduce a sua volta in un indebolimento del capitalismo
italiano e della credibilità finanziaria dei suoi titoli di Stato
sul mercato internazionale.
L'unità nazionale a sostegno delle banche e della loro rapina
Ecco dunque la risultante d'insieme: i titoli di Stato italiani tendono
a valere sempre meno e dunque a costare sempre di più alle banche
acquirenti. E le banche, interne ed estere, pretendono come garanzia del
loro rischio, cioè della solvibilità dell'Italia, una politica
di massacro sociale ancor più severa e convincente. Tutta la drammatica
stretta sociale e finanziaria di queste settimane (prima una finanziaria
di quaranta miliardi, poi il suo raddoppio di fatto in dieci giorni, poi
l'anticipo del pareggio di bilancio deciso su pressione della BCE in ventiquattro
ore, poi ancora l'annuncio di nuove misure di rapina contro lavoro e pensioni...)
sono solo l'affannosa rincorsa del ricatto usuraio delle banche e dei loro
portavoce istituzionali, oltre che un cedimento alle pressioni dirette
della BCE e dei governi francese e tedesco, le cui banche sono molto esposte
sui titoli italiani.
Il fatto che su questo signorsì ai banchieri sia scattata una
grande unità nazionale tra governo e opposizioni liberali, e persino
tra industriali e burocrazia CGIL (sino alla scena umiliante di una Camusso
rappresentata dalla Marcegaglia al tavolo col governo), misura solamente
la comune subordinazione di tutti gli attori in commedia allo spartito
del capitalismo italiano ed europeo. Il che non elimina contraddizioni
interne e neppure possibili rotture tattiche (anche per via del nodo politico
irrisolto di Berlusconi). Ma chiarisce in modo definitivo che il pagamento
del debito pubblico ai banchieri è la bussola attorno a cui ruota
tutto l'universo politico dominante, al di là di ogni confine di
schieramento.
Abolire il debito verso le banche: l'unica alternativa reale
Proprio per questo è necessario e urgente contrapporre alla
bussola dominante un'altra bussola. Quella di un piano anticapitalista
per uscire dalla crisi, che risponda unicamente alle esigenze del lavoro,
contro gli interessi di Confindustria e banche. Un piano che chiami ad
una straordinaria mobilitazione di massa la classe operaia, le giovani
generazioni, tutti i movimenti di lotta. Un piano che abbia una radicalità
uguale e contraria a quella dei piani padronali. Un piano che proprio per
questo parta dalla rivendicazione elementare e unificante imposta dalla
crisi: l'abolizione del debito pubblico verso le banche, interne e internazionali,
sia a livello statale, sia a livello delle amministrazioni locali. In altri
termini, il rifiuto di pagare gli interessi sul debito agli strozzini.
Non c'è altra soluzione. I capitalisti, i loro partiti, i loro
governi, vogliono costringere alla bancarotta i lavoratori e i servizi
sociali, per cercare di evitare la bancarotta del proprio sistema di sfruttamento.
I lavoratori possono e debbono rivendicare la bancarotta dello Stato (cioè
il rifiuto di pagare gli usurai), per tutelare la propria condizione sociale
e i propri diritti più elementari. Nessuna difesa del lavoro, della
sanità, della scuola pubblica, della previdenza; a maggior ragione
nessuna rinascita sociale sarà realisticamente possibile senza troncare
il nodo scorsoio del debito pubblico, cioè la dipendenza dalle banche.
Solo questa misura potrà liberare una massa enorme di risorse pubbliche
da investire nei beni comuni e in un grande piano del lavoro.
“Ma come faranno le banche a sopravvivere sul mercato di fronte all'insolvenza
dello Stato?" Risposta: le banche dovranno essere nazionalizzate, senza
indennizzo, e sotto controllo dei lavoratori, proprio per sottrarle alla
logica del mercato, per unificarle in un'unica banca pubblica sotto controllo
sociale, che provveda al sostegno dei lavoratori secondo l'interesse pubblico,
non alla loro rapina secondo l'interesse privato.
"Ma cosa ne sarebbe dei piccoli risparmiatori?" I piccoli risparmiatori
sarebbero integralmente salvaguardati dalla banca pubblica, proprio all'opposto
di quanto avviene oggi, dove la speculazione dei banchieri spesso travolge
in primo luogo proprio i piccoli risparmiatori, più volte oggetto
di truffe criminali (Parmalat, Cirio, bond argentini) da parte dei grandi
azionisti delle banche private.
“Ma l'annullamento del debito pubblico e la nazionalizzazione delle
banche non sono possibili nell'Unione Europea”. Se è per questo
nell'Unione Europea dei capitalisti e dei banchieri non è “possibile”
nemmeno tutelare il lavoro, la previdenza pubblica, i diritti sociali,
come mostra l'esperienza pratica di ogni Paese. La verità è
che solo il rifiuto dell'Unione Europea delle banche e delle sue leggi
può liberare le classi lavoratrici dalla dittatura del capitale
finanziario e aprire una prospettiva nuova. Il rifiuto del debito pubblico
e la nazionalizzazione delle banche vanno esattamente in questa direzione,
quella di un'Europa dei lavoratori. Del resto, è un caso che questa
rivendicazione cominci ad affiorare in settori d'avanguardia del movimento
operaio europeo o nel movimento degli "indignados" spagnoli?
Governino i lavoratori, non i banchieri. In Italia, in Europa, nel
mondo
Il punto decisivo è un altro. L'abolizione del debito pubblico
verso le banche e la loro nazionalizzazione sono incompatibili con la struttura
capitalistica della società, con la natura dei governi borghesi
di ogni colore, con le loro istituzioni internazionali, con la stessa natura
attuale dello Stato. Non possono essere realizzate per via di una semplice
pressione di movimento sui partiti dominanti, tutti legati a doppio filo
al mondo degli industriali e delle banche (e spesso presenti non a caso
sui loro libri paga). Possono essere realizzate sino in fondo solo da un
governo dei lavoratori, che ponga i lavoratori al posto di comando. Da
un governo che rovesci l'attuale dittatura degli industriali e dei banchieri
per rivoltare da cima a fondo l'intero ordine della società capitalista
e costruire una società socialista. Una società che possa
realmente decidere il proprio destino, senza dipendere dal gioco d'azzardo
delle Borse, dall'anarchia del mercato, dalla legge del profitto.
Il nuovo acutizzarsi della crisi capitalistica nel mondo, in Europa,
in Italia, ripropone questa prospettiva rivoluzionaria come unica possibile
via d'uscita.
Costruire in ogni lotta parziale il senso di questa prospettiva generale
è il lavoro del Partito Comunista dei Lavoratori.