SI e NO

di Andrea Parola

Antonio è un giovane operario metalmeccanico che lavora nel settore auto, ha 36 anni, abita a Torino con moglie e due figli, monoreddito. Fa l’operaio dal ’93 e non ha mai avuto tanta paura di perdere il lavoro come ha oggi. Quando a Mirafiori ha vinto il “SI”, racconta, per lui è stato un respiro di sollievo, perché ci aveva sperato tanto. Non ha dormito quella notte, non ci riusciva. Guardava nella penombra la moglie che dormiva e si sentiva attraversare il viso da una lacrima. Aveva il terrore di non poter più mantenere la sua famiglia, di non poter più crescere i suoi figli come avrebbe voluto, un po’ di sport, gli studi, un cinema ogni tanto e magari anche una pizza al mese tutti insieme, perché no. In quel momento così triste, avrebbe voluto stringerli a se e abbracciarli, ma non poteva farlo, non poteva inquietare anche la sua famiglia.

Ha vinto il “SI”, ma lui non si sente tranquillo, l’insicurezza del posto di lavoro gli ha pervaso la vita, lo fa vivere male e adesso ha anche paura di non riuscire più a tenerlo nascosto, di coinvolgere in questo suo malessere i suoi familiari. Lui che ogni mattina si alzava molto presto, pieno di orgoglio e fiero di se, per andare in fabbrica a fare la sua parte. Non riesce più a provare quei bei sentimenti di una volta, l’attaccamento al lavoro, la gioia di incontrare i colleghi, il forte senso di appartenenza alla squadra che i suoi vecchi capi gli avevano trasmesso e che lui aveva fatto suo.



Fortunatamente ha ancora il suo posto, si alza presto al mattino, finge fierezza, vigore, saluta la moglie riuscendo anche a sorridere un po’. Ma adesso tutto è diverso, nulla è più come prima. Non c’è più l’entusiasmo di una volta, non c’è più quella partecipazione emotiva che fa di ogni lavoratore un buon lavoratore. Il referendum ha spaccato la città in due e delinea una situazione di precarietà insopportabile per lui. Antonio si sente sospeso ad un filo sottile, che può spezzarsi da un momento all’altro.

Antonio legge i giornali, ascolta le notizie alla radio e alla televisione, ma ogni volta che sente una notizia che si riferisce a Marchionne lui ha un sussulto, un brivido gli passa sulla schiena. Continua a chiedersi se la fabbrica di Mirafiori rimarrà aperta, se esporterà veramente il quartier generale di Fiat in America e che cosa vorrà dire per noi lavoratori e per la città di Torino.

E’ mai possibile, pensa, che una persona, giusto o sbagliato che sia ciò che fa o dice, possa tenere nell’incertezza migliaia di lavoratori? Che possa esercitare una sorta di ricatto di queste dimensioni? Dov’è il nostro Governo? Hanno capito a Roma la situazione in cui ci troviamo? Cosa stanno facendo? Qui non vediamo nessuno e ci sentiamo abbandonati, dice. Poi si lascia andare in una imprecazione “mannaggia alla globalizzazione”.

Antonio ha già fatto molti mesi di cassa integrazione, ha sofferto non solo economicamente, dice di aver già fatto la sua parte, di aver già pagato il suo prezzo, rischiando anche di mandare all’aria l’unione con la sua famiglia. E’ preoccupato che manchi il lavoro per lui, per i suoi colleghi ed è ben consapevole che se oggi perdi il lavoro non ne trovi un altro.

E’ andata bene, dice, poteva vincere il “NO” e le cose sarebbero sicuramente andate peggio. Almeno un accordo c’è e se non è il massimo si potrà sempre cambiarlo, migliorarlo. Se perdi il lavoro non puoi fare più nulla. Non possiamo mica mandare tutto all’aria solo per la riduzione delle pause di lavoro o per i 18 turni! E poi lavorare il sabato permette di guadagnare qualcosa di più.

E poi, anche la Nissan, in Spagna, ha chiesto sacrifici in cambio di investimenti per la produzione di nuovi modelli e gli operai hanno approvato con larga maggioranza la riduzione dei loro compensi. Si, dice alla fine, risoluto e convinto. Va bene così, si potranno sempre fare accordi migliori e poi Marchionne ha detto che costruirà più macchine in Italia. La perdita del lavoro sarebbe un dramma, specialmente per quelli che hanno una famiglia da mandare avanti.



Domenico ha 53 anni, fa l’operaio metalmeccanico e lavora nel settore auto dal ’75, abita a Orbassano, nell’hinterland torinese ed è anche lui padre di famiglia, con tre figli a carico. E’ stupito da come sia cambiato il mondo del lavoro e da quanto poco tempo ci sia voluto per mandare in fumo ciò che, con grande fatica, anche lui ha contribuito a costruire, insieme ai tantissimi altri colleghi, in tanti anni di sacrifici.

Anche lui, come Antonio, non ha dormito quella notte maledetta, dice, ma per la paura opposta, cioè la paura che vincesse il “SI”. Per Domenico è già una sconfitta il referendum stesso, una sconfitta per la dignità di lavoratore. Le sue preoccupazioni sono tante, ma quello che non gli va giù è che non si voglia più applicare il contratto collettivo, che ritiene costituisca ancora, nonostante tutto, un pilastro e una garanzia per i diritti dei lavoratori.

Il contratto nazionale è vecchio e avrebbe bisogno di una bella rinfrescata, dice, perché non rappresenti più solo una tutela per chi non se la merita. Ma per quale motivo sostituirlo con uno costruito ad hoc e che sancisce la fine di quello collettivo. Perché fare un contratto di lavoro del settore auto?

Domenico è seriamente allarmato, non per la riduzione delle pause di lavoro o per i turni di 10 ore, quelle sono richieste alle quali ogni lavoratore deve dare risposta se vuole che la propria azienda resti competitiva. Lui è spaventato perché è convinto che questo sistema, se non lo si ferma oggi, si possa allargare a macchia d’olio e che tutti gli imprenditori, un giorno, rivendichino il diritto di adottarlo per costruirsi un contratto specifico per la propria azienda, in barba a quanto conquistato in anni di lotte. Ecco perché lui ha votato “NO”. Ha votato “NO” per mantenere il diritto di sciopero e perché i delegati sindacali continuino ad essere votati dai lavoratori. Domenico non vuole fare la fine dei colleghi americani dell’impiego pubblico del Wisconsin, che, proprio in questi giorni, si vedono i diritti sindacali azzerati, i salari congelati ed i sindacati delegittimati da una legge-killer che abolisce il contratto collettivo.

Domenico dice che da un governo come quello che abbiamo non possiamo aspettarci di meglio. Mai si è sentito così solo e abbandonato come lavoratore, in tanti anni di carriera. Il nostro Presidente del Consiglio ha fatto giusto una comparsa recentemente al Lingotto per dimostrare che è attento alla questione Fiat, una “toccata e fuga” che ha lasciato il tempo che ha trovato, ma che probabilmente gli ha fatto guadagnare qualche punto per le future elezioni.

Domenico non ha paura per se stesso, lui ormai è arrivato, come si dice. Ha paura per i suoi figli, per il loro futuro lavorativo. Il mondo del lavoro che troveranno non sarà più quello che lui ha trovato trentacinque anni fa. Sarà un mondo caratterizzato soprattutto dalla precarietà e dall’insicurezza.

(27 Febbraio 2011)
© Copyright Alteritalia