ECONOMIA & LAVORO



GLOBALIZZAZIONE DI RITORNO
di Giuseppe Bonaldo

Negli ultimi anni il mondo del lavoro è stato messo sotto forte pressione dal fenomeno globalizzazione, bruttissimo termine con il quale si vuole identificare la crescita economica dei paesi fino a ieri definiti emergenti, che ha reso conveniente lo spostamento di lavoro e del capitale dai paesi ricchi a quelli poveri. Questi ultimi hanno adottato il modello economico occidentale per sviluppare le loro economie, con la prospettiva di raggiungere lo stesso livello di benessere. Il fenomeno non è partito dal basso. La globalizzazione non è stata innescata dalla volontà dei paesi poveri, pur essendo ansiosi di migliorare le loro condizioni, bensì dalla necessità (ma soprattutto dalla cupidigia) delle aziende dei paesi ricchi di trovare altri mercati dove produrre a costo più basso i loro prodotti, e aumentare la loro redditività.
Gli economisti che parlano della globalizzazione come di un “fenomeno naturale”, o non sono in buona fede oppure hanno una deformazione di pensiero causata dal loro punto di osservazione, la cattedra, che li allontana dalla realtà. La globalizzazione è la gigantesca mistificazione di una necessità reale: migliorare le condizioni di vita di un numero sempre maggiore di persone nel mondo. E’ l’esportazione su scala globale del capitalismo, un modello economico fin qui vincente che in occidente ha portato sviluppo, allungamento della vita, diffusione del benessere e della qualità della vita, ha ridotto la fatica di vivere a milioni di persone e reso possibile la convivenza pacifica di paesi da sempre in conflitto tra loro, dopo le tragedie delle due guerre mondiali.
La mistificazione nasce dal fatto che il capitalismo è un sistema che produce ingiustizie all’interno del processo di competizione che lo caratterizza. Gli stati tendono a non intervenire nel libero mercato per non condizionarlo e limitarne l’espansione, ma così facendo lasciano in mano ai privati poteri enormi che inevitabilmente fanno emergere gli aspetti peggiori delle persone: egoismo, cupidigia, cinismo, indifferenza per le sorti dei più deboli. Il principio di solidarietà che dovrebbe animare lo stato di diritto è minato dall’avidità dei singoli individui, che si muovono con scaltrezza in un sistema che premia l’aggressività, esattamente come avviene in natura dove vale la legge del più forte, ma in una logica ben diversa.
Da qualche anno le cose sono cambiate in peggio per tutti. C’è stata una erosione lenta ma costante dei diritti acquisiti, considerati un intralcio alla produttività, ma soprattutto alla redditività. La politica ha assecondato questa tendenza, riuscendo nell’operazione di dividere i sindacati e con essi i lavoratori. A questo si aggiunge il progressivo spostamento verso le rendite finanziarie da parte di molti imprenditori, che hanno letteralmente polverizzato aziende manifatturiere con operazioni speculative di natura finanziaria. Il lavoro ha perso progressivamente valore, e di conseguenza i lavoratori sono diventati sempre più costosi, pur guadagnando una miseria. Si è usata la scusa della concorrenza a basso costo dei paesi emergenti, creata ad arte da chi laggiù ha spostato le proprie attività, conservando interessi anche nei paesi d’origine.
Piccole e grandi imprese hanno ovviamente sfruttato questa opportunità di maggior guadagno, spostando nei paesi dell’Est, in Cina, in India e ora anche in Africa le loro attività.
Gli economisti non perdono occasione per dire che la globalizzazione è una opportunità per le aziende italiane, perché in questo modo possono rimanere concorrenziali sul mercato mondiale. Ma il dato di fatto è che le imprese che in Italia producono con elevati standard di qualità e tecnologia, riescono a fare comunque profitto e mantenere alta l’occupazione, mentre quelle che non hanno voluto investire sulla qualità, hanno preferito migrare per non fare i conti con la loro scarsa competitività. Non hanno voluto investire nella ricerca, complice lo stato centrale che nulla ha fatto per favorirli in questo campo, e l’unico modo per continuare a fare grandi profitti è stato quello di emigrare. La cultura del mordi e fuggi in Italia ha dominato per decenni, con la complicità della politica. Si è preferito non investire sulla la ricerca e la qualità perché la competitività era garantita dallo scarso valore della lira e con ripetute svalutazioni quando l’economia entrava in crisi. Peccato che con la nascita dell’Euro questo vantaggio è diventato un boomerang e progressivamente l’Italia è diventata terra di conquista di speculatori e affaristi senza scrupoli, nostrani e stranieri, che compensano la perduta competitività con operazioni finanziarie che hanno arricchito a dismisura alcuni e fermato lo sviluppo del paese.
Ma sta succedendo qualcosa di nuovo e la Fiat è diventata l’apripista di questa novità.
Ha deciso di tornare a lavorare in Italia, con un imponente programma di investimenti, almeno sulla carta. Perché? Cosa spinge Marchionne a fare una scelta che sembra controcorrente, al di la della demagogia degli annunci patriottici e di immagine? Cosa sa questo signore che gli italiani non sanno e che ha fatto diventare nuovamente conveniente investire in Italia? Questa è la domanda che tutti dovrebbero porsi: dov’è la convenienza? Per quale ragione è disposto a mettersi in guerra con i lavoratori, in particolare con il sindacato più importante dei metalmeccanici, la CGIL, (UIL e CISL hanno ormai cambiato vocazione) pur di imporre nuove regole che gli consentano di vincere la campagna d’Italia?
Una prima risposta viene dalla politica. L’aria che tira in Italia è sicuramente favorevole al cambiamento che ha in mente Marchionne. Egli si inserisce in uno spazio lasciato vuoto dalla inconsistenza della politica economica e sociale del governo Berlusconi. Troppo impegnato a difendere gli interessi del premier, l'attuale governo si è dimenticato che l’Italia è un paese fondato sul lavoro, e sta lasciando alla deriva lavoratori e imprese, con il ministero dello sviluppo economico in mano ad un incapace in tutt’altre faccende affaccendato (Scajola), e quando quest'utimo è uscito di scena con le mani nella marmellata, è stato sostituito con nessuno, perché questo è l’interim di Berlusconi in questi ultimi quattro mesi. In pratica la politica industriale italiana la sta facendo Marchionne e ovviamente a modo suo, da amministratore delegato pagato per soddisfare l’azionista di un’azienda privata.
Infatti, sulla scia della Fiat anche l’Indesit ha deciso di investire in Italia, ma a condizione che si chiudano alcuni stabilimenti (?) e si cambino le regole di ingaggio dei lavoratori.
Ma questa ragione da sola non basta a giustificare le mosse di Marchionne. Qualsiasi investimento industriale non può che essere realizzato nella prospettiva di un ritorno economico, possibilmente a breve scadenza, non certo per far girare il denaro. L’Italia quindi è diventata più conveniente di altri paesi? Si è aperta la porta alla globalizzazione di ritorno? Il declino industriale dell’Italia ha già raggiunto quel livello al ribasso che consente questa operazione, facendola passare demagogicamente come una scommessa industriale?
L’accordo separato con Cisl e Uil a fine 2009, gli accordi di Pomigliano, la vicenda di Melfi, dove tre lavoratori reintegrati al lavoro dal giudice non possono lavorare perché la Fiat non glielo permette, sono i segnali evidenti di una vera e propria crociata combattuta da Fiat per demolire le regole esistenti, sfruttando la debolezza di un sistema che non può opporre resistenza, dovendo far fronte alla necessità primaria di lavorare, costi quello che costi. Una scelta cinica, ma si sa, le regole economiche non sono scritte da galantuomini. Marchionne vuole scrivere le regole da solo, sottoporle alla firma dei sindacati senza discussione e poi applicarle trasformando le fabbriche in caserme. Tutto questo con l’avallo tacito di un governo nazionale intenzionalmente assente. E’ ciò che avviene nei paesi come la Cina, che è governato da una dittatura, o nei paesi a scarsa industrializzazione dove la povertà fa chinare la testa alle persone pur di mangiare, o ancora negli Stati Uniti, dove il mercato del lavoro fino a ieri florido, consentiva ad un lavoratore di gestirsi al di fuori di contrattazioni collettive e di cambiare lavoro con sufficiente facilità.
La globalizzazione è anche questo, dice Marchionne, chi non lo capisce è fuori gioco e dal suo punto di vista ha sicuramente ragione. In Italia si può rischiare il conflitto sociale per imporre le nuove regole, perché i sindacati sono stati in gran parte addomesticati e chi è rimasto a lottare per i lavoratori, sostanzialmente solo la Fiom, non ha la forza per contrastare con efficacia il cambiamento. Anche perché sta passando il messaggio che anche le iniziative legali, pur vincenti, non sono efficaci. La legge la fa il più forte. Se questa tendenza sfonderà, sarà sempre più facile demolire le tutele legislative che negli anni sono state conquistate, modificarle senza guardare in faccia nessuno con la giustificazione che o si fa così oppure non solo si perdono i diritti, ma anche il lavoro.
Cosa possono fare i lavoratori per contrastare questa deriva autoritaria? Non possono più contare su sindacati uniti come un tempo. Da paladini dei lavoratori essi si sono trasformati in associazioni politiche autoreferenziali, aggregate al potente di turno, con rare eccezioni, con la scusa che non è possibile contrastare un fenomeno così imponente come la globalizzazione e quindi tanto vale sfruttarne i benefici. Peccato che questi siano ad appannaggio esclusivo di coloro che gli stessi sindacati un tempo contrastavano a difesa dei lavoratori più deboli.
Infatti le lotte per la sopravvivenza sono diventate estreme, spettacolari, drammatiche, allo scopo di attirare l’attenzione e coinvolgere le istituzioni. I sindacati appaiono come comparse, seconde linee pateticamente aggrappate alla loro storia, ma svuotati di qualsiasi autorevolezza e capacità di rappresentanza.
Sostanzialmente i lavoratori sono soli e isolati, nonostante siano numerosissimi e con gli stessi problemi.
Forse solo un fitto scambio di informazioni e opinioni, un forte coinvolgimento dal basso può invertire questa tendenza al fatalismo e alla fuga dalla realtà. Non bisogna aspettare di non aver più nulla da perdere, perché da li in poi la lotta diventa di tutti contro tutti e si sa come va a finire.

(5 Ottobre 2010)
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