IL FIUME CARSICO DELLA VIOLENZA
di Alberto Mannoni
Genova, 12 ottobre 2010. Si deve giocare la partita di calcio Italia-Serbia di qualificazione agli Europei.
Che si trasforma invece nel palcoscenico degli ultras serbi, che lanciano fumogeni verso il campo e verso la gradinata Nord, dove si trovano tifosi italiani. Fanno poi esplodere una bomba carta. Si va avanti tra rinvii, prove di inizio partita e definitivo stop al riprendere dei lanci, con probabile 3-0 a tavolino per l'Italia.
Oltre a chiedersi come fanno 2000 tifosi serbi, quasi tutti ultras, ad arrivare a Genova ed entrare armati di fumogeni e bombe carta nello stadio, senza un adeguato filtro, come si a gestire una partita a rischio come questa senza un adeguato coordinamento tra polizia serba e italiana, e successivi rimpalli di responsabilità, con la vergognosa richiesta della federazione serba di rigiocare la partita perchè la colpa di tutto sarebbe la disorganizzazione italiana -infatti quegli ultras venivano dal Burundi- occorre fare alcuni ragionamenti.
Non è un mistero che da almeno 25 anni le tifoserie più violente in Europa sono brodo di cultura di gruppi estremisti e picchiatori, quasi tutti di destra, con le dovute eccezioni. Nel caso dei tifosi serbi in questione, per la maggior parte provenienti da Belgrado, dove gli ultras delle Stella Rossa sono uno dei serbatoi delle mitiche "Tigri" del comandante Arkan, lo scopo era certamente politico: danneggiare la nazionale e l'immagine della Serbia, mettere in difficoltà il governo di Tadic.
Ma senza arrivare a disegni così articolati, un coerente discorso vale per tutte le frange estreme del tifo europeo. In cui si possono ravvisare dei modelli di "comportamento" analoghi, che possiamo (anche se succintamente) riassumere come segue:
1) sono organizzati in modo paramilitare, con gerarchie definite;
2) l'orientamento politico è di estrema destra, con alcune eccezzioni;
3) il tifo, cioè l'attaccamento alla squadra ed i suoi colori, non è un fatto sportivo, ma identitario; è elemento di riconoscimento nella dinamica "noi" contro di "loro" (tifosi avversari, forze dell'ordine); di modo che nella maggior parte dei casi è tifo contro: non si inneggia alla propria squadra, ma si insulta chiunque in quel momenti sia "dei loro";
4) dato l'orientamento politico, il tifo assume quasi sempre connotati razzisti: ululati verso i giocatori di colore, insulti verso chiunque abbia una diversità che fa comodo, antisemitismo;
5) ricerca dello scontro fisico: con altre tifoserie, con le forze di polizia; spesso fungono da testa d'ariete negli attacchi di gruppi di destra a manifestazioni di opposto colore politico o di evidente diversità (vedi spedizione punitiva al Gay Pride di Belgrado)
A fronte di questo, non c'è da parte dei governi di molti paesi europei (di destra o di sinistra), un'adeguata attenzione al fenomeno, nè si mettono in essere politiche in grado di arginarlo e ridurlo. Per parlare del nostro Paese, a fronte di dichiarazioni del tipo "tanto li conosciamo tutti", "li prendiamo quando vogliamo", "sono solo qualche migliaio di teppisti", il problema rimane lì sul tavolo, e non sono certo strumenti come la tessera del tifoso o gli stadi di proprietà delle squadre, che lo risolveranno.
E' inoltre evidente che se certi personaggi continuano a girare impunemente per gli stadi, e a fare proselitismo, esistono sicuramente delle coperture: per paura, per convenienza o per nascosta simpatia, nelle società di calcio e nelle istituzioni non si fa quanto si deve per isolarli e quando possibile per far sì che non possano più circolare a piede libero.
E non consola il sapere che succede così anche da altre parti.
Quello che è certo è che nella civile Europa Occidentale, che ha eliminato le guerre ufficiali nel suo territorio da sessant'anni (ma ha conosciuto e conosce il terrorismo), la violenza risulta ancora una componente ineliminabile della società. Come un fiume carsico scorre sotto la crosta neanche troppo spessa della contemporaneità, trovando provvisorie valvole di sfogo e incanalandosi in superficiali torrenti dove si creano condizioni favorevoli.
Il calcio, in Italia ma non solo, è purtroppo un ambiente favorevole.
(23 Ottobre 2010)
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