TORINO SETTECENTESCA NEL VIAGGIO IN ITALIA DI DE BROSSES

di Michela Costantini

Magistrato e storico francese settecentesco, Charles De Brosses (1709-1777) non si sottrae alla moda del Grand Tour e compie il suo personale viaggio in Italia a cavallo tra il 1739 e il 1740, all’età di 32 anni. De Brosses affianca alla professione forense interessi per la geografia, per l’antropologia, per la storia antica e per la critica letteraria, nell’ambito della quale collabora ad alcune voci dell’Encyclopedie: questi molteplici interessi trovano eco nelle sue cronache di viaggio, la cui rielaborazione letteraria occupa parecchi anni, tanto che il libro verrà pubblicato postumo nel 1836 nella forma – consueta, come abbiamo precedentemente osservato - della raccolta epistolare.



Le 58 lettere, indirizzate a destinatari diversi, tutti in rapporti di stretta amicizia con Charles, accompagnano il viaggio che, partendo da Digione, tocca le maggiori città italiane in un anello che da Genova raggiunge le città del centro e sud Italia, per tornare in ultimo a Torino. Carlo Levi, cui si deve la prefazione dell’edizione italiana, osserva che questo libro è tra i primi racconti sistematici dei viaggi di scoperta in Italia, una pietra miliare nel suo genere, straordinario affresco della vita e dell’arte di vivere settecentesca raccontata con stile brillante e sagace.

L’ultima lettera, indirizzata al Signor di Neuilly, è Strada da Milano a Torino. Soggiorno a Torino. De Brosses nel 1740 giunge dunque a Torino - città che nel Settecento rappresentava uno dei principali centri della cultura italiana, capoluogo di quel Regno di Sardegna che ambisce a ritagliarsi un posto da protagonista accanto alle maggiori monarchie europee. Con gli occhi ancora intrisi delle suggestioni artistiche di Roma, Firenze, Venezia e Milano, il viaggiatore si accinge a ‘leggere’ la realtà torinese; ma non ci sono che rari confronti con le altre realtà, a sottolineare quello stile oggettivo che era considerato strumento necessario per i resoconti di viaggio ai fini dell’obiettività della descrizione.



L’architettura del capoluogo dello Stato Sabaudo entusiasma De Brosses: “Torino mi sembra la più bella città d’Italia; e forse dell’Europa, per le strade dritte, la regolarità degli edifici e la bellezza delle piazze. La più nuova tra queste è circondata da portici”. De Brosses coglie immediatamente due delle peculiarità urbane: quella del disegno regolare delle facciate e quella della presenza dei portici a coronamento delle piazze, a partire dalla magnifica seicentesca piazza S. Carlo. E, nell’acutezza della sua osservazione, rimarca, ma in senso non negativo, quello che altri hanno giudicato un difetto: “è raro qui quel grande stile architettonico che domina in alcun monumenti di grandi città: ma non vi è neppure il fastidio di vedere delle capanne a fianco dei palazzi”.

Nulla di magnifico, dunque, ma nemmeno uno stridore tra magnificenza e degrado, come era invece la realtà di molte delle maggiori città d’arte italiane ed europee. “Qui niente di estremamente bello, ma tutto uguale e nulla di mediocre; ciò forma un insieme piccolo sì (perché la città è piccola) ma affascinante” chiarisce ancora l’autore. Torino agli occhi del viaggiatore mostra infatti proprio l’immagine che nel Settecento i suoi regnanti vollero darle: quella di una città dal disegno unitario, regolata da un piano di sviluppo e di ampliamento razionale, concepito per renderla degna del ruolo di capitale di uno stato europeo, ancorchè di piccole dimensioni.

De Brosses ammira il Palazzo Reale, del quale però rileva il freddo che vi alberga, e soprattutto il Palazzo Madama con la sua superba facciata barocca juvarriana, che, superiore per bellezza a quella del Palazzo Reale, definisce il principale ornamento della città. Per la famosa scalinata interna, scala senza palazzo di massimo valore, ha parole di vera ammirazione: “una delle scalinate più belle che esistano al mondo, a due rampe, con una bella architettura. La volta che la sorregge è aerea e di disegno perfetto… altro non cercate qui”.



Per la Cappella della Sindone del Guarini, che costituisce tappa irrinunciabile nella visita architettonica della città, non ha altrettante parole di elogio: “questo gusto ha un che di gotico, e l’insieme della cappella, benché abbia una sua nobiltà, è triste e di uno stile che non mi piace”. La Cittadella a quel tempo è ancora perfettamente in uso: la cronaca del francese ne descrive i cinque bastioni e loda l’ingegnoso sistema a due scale del pozzo centrale, realizzate in modo che un cavallo che per l’abbeveraggio discenda girando per una di esse, risalendo per la seconda non incontri quello che scende per la prima. Anche i dispositivi tecnici della città (le opere di urbanizzazione del tempo) incuriosiscono il nostro viaggiatore: nella lettera l’autore descrive l’ingegnoso sistema di sgombero della neve che, mediante l’acqua di scolo proveniente dalla collina e fatta scorrere per le vie cittadine, in due ore ripulisce tutte le strade.

E’ evidente che a quel tempo un nobile viaggiatore – munito delle immancabili lettere di presentazione - potesse facilmente venire introdotto a corte. Ma quella sabauda, in quel momento in lutto per la morte di un parente di una defunta moglie del re, agli occhi di De Brosses appare tutt’altro che sfarzosa e mondana: se il gioco è tra i pochi divertimenti ammessi, ora “non si gioca più per via del lutto, e più ancora per via della quaresima!”. Della regina, Elisabetta Teresa di Lorena, De Brosses laconicamente scrive “…non vi dico nulla, sapete tutto .. ”; ma subito dopo non riesce a fare a meno di descrivere il suo labbro austriaco né il suo poco avvenente aspetto bitorzoluto, quantunque corregga poi il tiro parlando di un aspetto nobile e maestoso. E sulla vita di corte, in cui gli uomini non giocano mai con la regina e le donne al più si trovano per una triste quadriglia, osserva: “immagino che una etichetta così divertente faccia sbadigliare i sovrani non meno dei cortigiani”.



La città è più divertente della corte, annota rinfrancato subito dopo: alla tristezza della corte fa infatti da contraltare il brio della vita cittadina, con le sue signore gentili, il suo ambiente familiare e le sue case con i ricevimenti brillanti e affollati e il faraone, gioco di carte a scommesse evidentemente a lui noto in una versione francese.
Interessanti alcune note di costume. Del piemontese - lingua locale molto più in uso dell’italiano e del francese, che l’autore definisce meschinissima, anche secondo quelli che la parlano – De Brosses confessa di non capire una parola e nei ricevimenti suggerisce – con una nota dai risvolti piuttosto allusivi - di fare attenzione al problema dei cognomi, perché il fatto che “la moglie del signor conte A è la signora marchesa B, potrebbe suscitare da parte delle persone non informate spiacevoli equivoci”.

Come scriveva Roberti nel lontano 1900, il viaggiatore settecentesco “appena s’affacciava alle Alpi … si sentiva come avvolto da quell’onda di armonia che pervadeva da un capo all’altro la penisola, e di città in città, attratto dalla fama dei virtuosi, dal lusso delle rappresentazioni sceniche, dall’eleganza dei teatri, compiva un vero pellegrinaggio musicale”. E’ quanto accade anche a De Brosses, il quale, da fine estimatore dall’arte dei suoni (a Venezia aveva conosciuto personalmente Vivaldi) non perde l’occasione di ascoltarne appena possibile, come del resto già aveva fatto nelle altre città visitate.

Nella dimora del marchese de Senneterre, durante la festa data in onore del cardinale d’Auvergne giunto da poco in città, assiste ad un concerto di squisita qualità, per canto, oboe, violoncello e contrabbasso: “non vi so descrivere il rapimento che dà tutto ciò. Non ho mai provato niente di più fascinoso in tutta la mia vita”. Giorni dopo, con la retorica, convince a suonare per lui il noto violinista Giovanni Lorenzo Somis, in organico nella cappella regia ma noto anche fuori del Piemonte, ma questa volta ne resta deluso: “Io sarei ripartito nella persuasione che egli fosse di prima grandezza, mentre invece lo trovai inferiore a Tartini … e Sammartini. Oh come lo darei volentieri in cambio della sorella, la celeste Vanloo, che nessuna voce udita in Italia è riuscita a farmi dimenticare”.



In realtà qui De Brosses commette una svista: la nota cantante in realtà non è la sorella, ma la figlia di Somis, Christina Antonia, sposata al pittore Carle Van Loo. Racconta poi di aver ascoltato in casa del conte Della Rocca uno dei più famosi castrati del tempo, Ezechiele, e riferisce anche la notizia della costruzione del nuovo Teatro Regio, non ancora in uso. Per l’opera di Torino ha comunque parole di apprezzamento: dicono che abbia sempre ottima musica.

Lasciati da parte i piaceri della vita mondata, De Brosses si dedica della situazione politica, dimostrando notevole acutezza nell’analizzare fatti e personaggi di rilievo. Quando scrive che il re Carlo Emanuele III “ha un aspetto spiacevole… ma è laborioso, intelligente, bravo politico, valoroso nell’arte militare” dimostra di cogliere in lui il degno erede della politica paterna, il condottiero in grado di portare a compimento il progetto già avviato di espansione dello stato tra le potenze europee. De Brosses è ampiamente informato sui fatti sabaudi: conosce anche la poco edificante vicenda dell’imprigionamento dello storico Pietro Giannone che, giunto in Piemonte per chiedere asilo politico dopo le controversie con il Papa in seguito alla pubblicazione della sua Istoria civile del Regno di Napoli, viene dal re inaspettatamente imprigionato per ingraziarsi il papato.

Quando descrive il primo ministro conte d’Ormea fa un’analisi altrettanto lucida dei rapporti tra lui e il re: “è l’unico a godere l’intera fiducia del re… dicono che sia proprio lui a dare il maggiore contributo all’importante ruolo che il suo padrone svolge in Europa”.

Dunque una cronaca a tutto campo: “quadro esatto, brillante, spiritoso e spesso comico dell’Italia del secolo XVIII sono le famose lettere del presidente De Brosses” scriveva a suo tempo Roberti. Concordiamo pienamente con lui: arte, tecnica, musica, costume, politica, quel tanto di gossip che – ora come allora - non guastava per incuriosire il lettore e trasportarlo nel vivo del racconto, fanno del resoconto di viaggio di De Brosses uno straordinario e vivido documento storico che dipinge una realtà non troppo lontana nel tempo meglio e più di tante cronache ‘ufficiali’.

(27 Febbraio 2011)
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