DA PURCELL A DVORÁK:
RITRATTI DI STREGHE IN MUSICA
di Michela Costantini
Il vastissimo panorama delle composizioni musicali annovera un non irrilevante numero di brani ispirati all’occulto, al mistero, a tutto ciò che rappresenta il risvolto inconscio dell’uomo, il suo doppio, la sua ombra e le sue paure. In questo vasto repertorio, che percorre trasversalmente generi musicali e stili, trovano voce gnomi, elfi, diavoli, streghe e stregoni, figure che le varie tradizioni hanno relegato nel regno dell’ombra ma che comunque convivono con l’altra e più rassicurante faccia della realtà, quella della luce.
Con il suo forte potere evocativo – che ha delineato nella tradizione musicale un vero e proprio genere, quello a programma – la musica si adatta magistralmente a rappresentare temi, situazioni, personaggi, ambienti: proprio tra i personaggi ricorre spesso nelle composizioni, sia vocali che strumentali, la sinistra figura della strega, figura pagana della festa di Halloween divenuta ormai personaggio quotidiano anche nella nostra cultura a ridosso della cristiana festività dei morti.
Al mondo del sabba e delle streghe sono state dedicate intere opere liriche o balletti e in altre opere le streghe sono personaggi tutt’altro che secondari. Pensiamo alla vicenda del Noce di Benevento di Franz Xaver Süssmayer, ispirato ad una legenda popolare, ma anche al coro di streghe del Macbeth di Giuseppe Verdi.
Le streghe divengono addirittura personaggi principali, in grado di mutare il corso degli eventi. E’ quello che succede nell’opera in tre atti Dido and Aeneas, su libretto di Nahum Tate, scritta nel 1689 dal compositore inglese Henry Purcell (1659-1695). Qui il drammatico episodio della mitologia greca che culminerà con la morte di Didone è narrato utilizzando motivi irreali e magici e giocando con il continuo contrasto tra luce ed ombra: la sventura della separazione dei due amanti non è attribuita – come vuole la tradizione - al fato o a Zeus, bensì al sortilegio e non stupisce quindi ritrovare tra i personaggi della vicenda due streghe e una maga.
Nella prima scena del secondo atto, ambientata in una grotta, assistiamo al Preludio delle streghe, in cui viene concertato il maleficio che allontanerà per sempre i due amanti. La danza delle streghe vera e propria, momento tutto strumentale, avviene invece nella seconda scena del terzo atto. Notiamo qui improvvisi arresti della musica e rallentando alternati ad accelerazioni di particolare effetto, riscontrabili peraltro anche nell’aria Haste, haste to town intonato dal personaggio di Belinda e dal coro prima dell’arrivo dello spirito della strega e nel coro finale dell’opera, quando si compie il tragico destino di Didone.
Come sono le streghe di Purcell? Certamente non come ce le saremmo immaginate: non sono le creature angoscianti che ci aspetteremmo e la loro descrizione musicale appare alle nostre orecchie – fin troppo abituate ai toni eccessivi e ad una dimestichezza quasi quotidiana con l’eccesso – abbastanza edulcorata.
Più spesso però la rappresentazione della strega – in tutte le sue varianti - è condensata in brevi composizioni, in quadri sonori di limitata durata ma dalla fortissima capacità evocativa.
Nel Settecento incontriamo altre streghe in uno degli Erdody-Quartett op. 76 di Franz Joseph Haydn (1732-1809), sei quartetti per archi commissionati al compositore dal conte Erdody. Il secondo quartetto, in re minore, è noto come Quintenquartett per il frequente ricorso nei vari movimenti all’intervallo di quinta, considerato da alcuni critici una sorta di elemento visionario: proprio il Minuetto di questa composizione è stranamente conosciuto come Hexen, o Nachtwächtermenuett, cioè Minuetto delle streghe.
La composizione ha struttura tripartita: si apre con un canone a due voci tra violini in ottave e viole e violoncelli anch’essi in ottave, quindi con una forma musicale piuttosto semplice, se non addirittura scarna. Segue un trio dall’andamento più mosso e dalla caratterizzazione di danza; ritorna infine il canone iniziale. All’ascolto non sfugge che il materiale musicale sia anche qui assolutamente imprevisto: tutto si potrebbe dire di questa musica tranne che voglia evocare delle streghe. Evidentemente la sensibilità dell’epoca non portava agli eccessi di toni e di caratteri che invece saranno la grande conquista del Romanticismo.
E infatti dobbiamo giungere proprio al Romanticismo per sentire finalmente ‘odore’ di vere streghe: quelle di Paganini. Qui ci riallacciamo all’opera Il noce di Benevento: infatti la sonata per violino e pianoforte Le Streghe in re maggiore op. 8 di Niccolò Paganini (1782-1840) ha come sottotitolo Variazioni su un tema dal balletto. Il noce di Benevento di Franz Xaver Süssmayer. Il titolo è certamente uno dei più noti del catalogo del virtuoso genovese: qui la forma del tema con variazioni offre al compositore la possibilità di spaziare tra tutte le possibilità offerte dal registro del violino, sfruttandone al contempo la tavolozza espressiva e tecnica, dai glissando ai ribattuti alle scale. Più maligne che angoscianti, le streghe paganiniane si presentano in un crescendo di intensità, fino ai toni acuti e striduli delle battute finali.
Una delle streghe più famose, massima rappresentante della categoria, è la Baba Yaga della tradizione russa. La strega ‘su zampe di gallina’ è descritta in musica dal compositore russo Modest Musorgskij (1839-1881), che nel 1874 aveva visitato la mostra postuma dei quadri e degli oggetti dell’amico architetto Viktor Hartmann. La vista dei quadri impressiona Musorgskij a tal punto che di lì a breve realizza la suite pianistica Quadri di una esposizione (Ravel ne fece poi una magistrale versione per orchestra), che – come sottolinea il titolo – è la trasposizione musicale delle sensazioni ricevute dall’osservazione delle tele: dieci quadri musicali collegati da un leit-motiv, la notissima Passeggiata dal metro irregolare. Tra le opere esposte, vi era il disegno di un orologio raffigurante la strega Baba Yaga nella sua tradizionale capanna retta da zampe di gallina.
La musica di Musorgskij è – questa volta sì - poderosa e travolgente, tanto che nella partitura l’autore aggiunge all’iniziale indicazione agogica di Allegro con brio, l’aggettivo feroce: gli intervalli discendenti di settima ci catapultano immediatamente nell’atmosfera violenta del sinistro personaggio, mentre salti in ottava difficilissimi anche per un pianista esperto dipingono con grande efficacia un clima che nessun aggettivo potrebbe descrivere meglio del ‘feroce’ iniziale. Gli accenti fortissimi degli accordi che percorrono tumultuosamente tutta la tastiera accompagnano la cavalcata della strega, scandita da un opportuno metro in due quarti, fino a quando una cascata discendente di note annuncia la sezione centrale, più lenta e di minore intensità.
L’atmosfera ora è solo apparentemente meno angosciante: Musorgskij rende magistralmente per mezzo di un continuo tremolo e di improvvisi guizzi il clima di paura, di attesa, di pericolosa sospensione. Il tema iniziale riappare, ma la sua lentezza è solo tetro presagio, non rassicurazione. E infatti - immancabilmente – nella terza parte ritorna la violenza iniziale: la strega riappare con tutta la sua ‘ferocia’ e con essa i balzi sulla tastiera che la caratterizzano, balzi che andranno a scomparire solo nel successivo e ultimo quadro della suite, la rassicurante Grande Porta di Kiev.
Musorgskij aveva già raccontato le streghe in un’altra celeberrima composizione, il poema sinfonico Una notte sul Monte Calvo, composto in prima versione nel 1867 e successivamente rielaborato. Qui il musicista evoca addirittura un vero e proprio sabba di streghe che, secondo una leggenda slava, era solito svolgersi sul monte Calvo, in Ucraina. Anche questa musica vibra di fortissime visioni, di grandissima intensità: la situazione tumultuosa del sabba è resa con continue scale ascendenti, con continue folate dell’orchestra che accompagnano i temi della danza sfrenata delle streghe. Magistrale il passaggio finale: in un’atmosfera ormai diradata dall’imminente arrivo dell’alba, la congrega delle streghe finalmente si dilegua, messa in fuga dal cadenzato e rassicurante rintocco delle campane, che accompagna il tema iniziale presentato in aumentazione.
Altra strega, altro compositore, sempre di ambito slavo. Questa volta si tratta di Polednice, la strega di mezzodì, del compositore Antonìn Dvoràk (1841-1904), poema sinfonico (recante il numero d’opera 108) composto nel 1896. Questa volta l’ispirazione non è pittorica, bensì poetica: si tratta di una ballata di Karel Jaromìr Erben (1811-1870), archivista ceco che lavorò a Praga ma che è ricordato per aver raccolto e pubblicato importanti raccolte di fiabe e leggende della tradizione popolare ceca e slava.
La ballata racconta la storia di una madre che, sempre più infastidita dai giochi del bimbo, minaccia di consegnarlo alla strega di mezzogiorno: la strega la prende in parola, arriva e compie una danza macabra attorno al bambino. Se ne va soltanto a Mezzogiorno, lasciando la madre svenuta. Quando il padre giunge a casa la sera, la madre riprende i sensi ma i due scoprono il bambino, stretto al petto dalla madre per difenderlo dalla strega, è rimasto soffocato.
Vicenda tragica, dunque. Come la rende Dvoràk in musica? Il compositore accompagna puntualmente con i temi e le sezioni del poema sinfonico lo svolgersi della vicenda. L’Allegretto iniziale evoca il tranquillo giocare del bimbo, mentre qualche tocco di bassotuba suggerisce i rimbrotti della madre; il centrale Allegro descrive l’arrivo di Polednice e il finale Andante dal ritmo sincopato, segnato da un lamentoso ‘pianto’ dei violini, accompagna la tragica scoperta dei genitori.
Polednice emerge in tutta la sua violenza solo in un breve passo della musica ma la cosa che appare più interessante – e, diremmo, inquietante – è che il tema dei rimproveri della madre via via si trasforma nel tema della strega…. Una soluzione che quasi ci proietta in ambito psicanalitico, facendoci intravedere la pericolosa sovrapposizione tra luce ed ombra, il limite fin troppo labile tra bene e male.
(5 Novembre 2010)
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