CIO' DI CUI E' CAPACE UN'IMMAGINE

di Giusi Andreina Perniola

Chi non scatta foto, oggi? Chi può davvero sottrarsi alla contemporanea «frenesia da click»?
Il digitale si presta, anzi ci costringe, alle logiche dell’obiettivo: è sempre più facile “creare”. Così, si perlustra ogni centimetro del reale, si accumulano conoscenze e memorie, si plasma «la propria immagine» e si alimenta la sensazione che la fotografia si limiti alla proliferazione delle immagini. In una sorta di bombardamento mediatico, mostrate senza soluzione di continuità sugli schermi gelidi dei nostri devices, queste foto tuttavia si annullano sequenzialmente le une con le altre – fino al grado zero dell'informazione, all’annullamento della comunicazione, alla soppressione del ricordo.



C’è chi, però, della foto riesce ancora a farne uno strumento durevole; e a raccontare realtà per incidervi in modo indelebile. Lui si chiama JR. È un giovane fotografo, vincitore lo scorso autunno del prestigioso TedPrize per il 2011. Negli ultimi due anni, ha guadagnato spazio in note riviste d’architettura (su Lotus, in copertina). Ma il mondo della fotografia lo scopre quasi agli esordi (il suo primo libro data al 2005) e gli dedica una retrospettiva nel 2007 a Les Rencontres d’Arles, appuntamento fotografico di risonanza mondiale.

Nel 2006, è nelle banlieues parigine con il progetto Portrait of a Generation (video, foto). Nel 2007, in Medio Oriente con Face 2 Face (video). Nel 2008, negli slums africani e sudamericani con Women Are Heroes (video). JR fotografa abitanti di questi luoghi attraversati da conflitti distorcendone l’immagine stereotipata. Le sue foto non raccontano sofferenza diffusa, indistinta e non risolubile, né tanto meno aree urbane dominate da condizioni igieniche disastrate, alti tassi di HIV e criminalità. I suoi scatti danno voce, invece, a volti sconosciuti offrendo loro, da un lato, la possibilità di mostrarsi con fierezza e dignità, dall’altro, d’essere ritratti con fare giocoso, caricaturale, autoironico.

Stampate in formato gigante ed affisse (anche illegalmente) lungo le vie, sui muri, sui tetti e sulle carrozze di treni, tali immagini trasformano le città in un «museo all’aria aperta» e stravolgono i luoghi comuni dell’immaginario urbano. Giovani delle «violente» periferie parigine sorridono, infatti, dai muri dei quartieri alto-borghesi della capitale francese. Facce d’israeliani e palestinesi giocano lanciandosi divertenti smorfie, attaccati come sono lungo il confine che li divide. Limpidi occhi di donna decorano strade e baracche delle favelas in cui vivono.

Questo è solo uno degli esperimenti riusciti. Proprio Les Rencontres d’Arles, nel 2005, ha fatto il punto organizzando un seminario su «La photographie comme lien social». L’antropologo brasiliano Milton Guran vi ha raccontato le esperienze condotte a Rio. Una parte importante della popolazione è sistematicamente esclusa dalla produzione della propria immagine, ha affermato lo studioso. Offrendo un apparecchio fotografico a chi abita le favelas si permette loro di sostituire ai clichè di violenza e povertà, attribuiti a queste aree, altre ritratti. Non si tratta solo di una questione di «diritto all’immagine» ma anche di decostruire percezioni imposte. L’emancipazione estetica è un passo verso l’emancipazione politica. È questa la fotografia che ci piace.

P.S.
Progetti analoghi interessano da qualche tempo anche quartieri dimenticati del Sud Italia. Qui, il progetto fotografico condotto dal fotografo iraniano Reza Deghati sui bambini di un quartiere periferico di Catania, Librino.



(27 Febbraio 2011)
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