EMIGRAZIONE ITALIANA: LA TEMATICA DEL RITORNO
di Alberto Mannoni
Una diaspora: tra il 1870 e il 1970 circa ventisette milioni di italiani lasciarono il nostro Paese per lavorare e vivere all'estero. L'Italia è particamente la sola tra i paesi industrializzati (a parte forse l'Irlanda, con le dovute proporzioni), che ha conosciuto in epoca moderna un'emigrazione di massa.
Per dare un'idea della dimensione assunta dal fenomeno, e dell'impatto sui paesi di arrivo, agli inizi del ventesimo secolo metà della popolazione di São Paulo e più di metà della popolazione di Buenos Aires erano composte da italiani e dai loro figli; New York e Toronto hanno avuto momenti nel corso della storia in cui la popolazione di origine italiana era maggiore di quella di Roma. In Europa, gli immigrati italiani sono stati una componente importante della forza lavoro in Francia, Svizzera e Germania, sia prima sia dopo la Seconda guerra mondiale.
I residenti di origine italiana rappresentano oggi il 10 per cento della popolazione francese, il 20 per cento di quella Argentina e circa il 5 per cento di quella statunitense.
In totale, circa sessanta milioni di persone di origine italiana vivono in paesi extraeuropei e parecchi altri milioni vivono in Europa fuori dai confini italiani: ne consegue che il numero di persone di origine italiana che vive all'estero supera quello dei residenti in Italia!
Siamo un popolo di santi, navigatori, poeti, ma soprattutto di emigranti.
Una vera storia d'Italia degli ultimi due secoli non dovrebbe dunque riguardare solo le vicende di chi è rimasto, ma considerare anche coloro che se ne sono andati. La storia dell'emigrazione dovrebbe essere centrale per comprendere la storia italiana così come lo è la storia dell'immigrazione per paesi come Stati Uniti, Argentina, Brasile, Francia.
Un certo tipo di ricerca storica, così come l'immaginario collettivo arricchito dai film di "genere" hanno favorito il diffondersi dell'idea che l'emigrazione italiana fosse una risposta limitata alle crisi economiche della fine del Diciannovesimo secolo e dell'inizio del Ventesimo, e che costituisse principalmente il riflesso del problema del Mezzogiorno.
In realtà, significativi flussi migratori verso il Sud America e l'Europa precedettero di molto le crisi economiche di fine 1800: circa mezzo milione di italiani viveva già fuori d'Italia all'epoca dell'unificazione. Per tutto l'ottocento, gli emigrati provenienti dall'Italia centrale e settentrionale, le zone economicamente più sviluppate del paese, fecero da pionieri e rimasero anche dopo una ragguardevole minoranza tra gli immigrati in America Latina, così come in Francia, Germania, Svizzera e Austria.
Né l'emigrazione italiana cessò con la Guerra Mondiale: due milioni e mezzo milioni di persone emigrarono tra il 1916 e il 1925 e un milione e mezzo tra il 1926 e il 1935; nei due decenni dopo il 1946 sei milioni di italiani lasciarono il Paese.
Ed è solo dopo la prima Guerra Mondiale che l'emigrazione dal Sud diventa prevalente.
Altro fenomeno di enormi dimensioni (che trova pochi riscontri in altri paesi) è stata l'emigrazione interna, dal Mezzogiorno verso le zone più industrializzate delle paese. Già importante nel ventennio, diviene imponente nel dopoguerra, al tranio di grosse aziende come la Fiat, ma più in generale in tutto il Nord, che nell'era del boom economico richiedeva masse di manodopera via via crescenti.
Fenomeno che trascinava con sé, quasi rete a strascico che raschiava il fondale nudo del paese, effetti e spinte tutt'altro che secondari: spopolamento delle campagne, sradicamento culturale, difficoltà di integrazione, acuendo i sintomi di un'unità nazionale mai veramente compiuta a livello culturale: le nazioni impiegano secoli a costituirsi, così come le lingue nel loro dispiegarsi e distillarsi nei e dai dialetti, in quel reciproco fertilizzarsi che rende il "sapore" di una terra. Non era certo in cento anni che poteva completarsi il percorso.
Ed è forse solo con la nascita della televisione, dalla seconda metà degli anni cinquanta, che comincia a crearsi uno specchio comune in cui il Paese si riflette. (Un altro specchio è per certi versi la cristianità intesa non come credenza religiosa, ma come sostrato di valori minimi condivisi tra laici e credenti che fa o faceva sì che non si potesse non essere cristiani, ma questo è un'altro discorso.)
Non è a mio avviso un fattore secondario, tra i tanti che concorrono all'odierna frantumazione e perdita del senso di collettività, l'irrompere sulla scena delle televisioni private, prima a livello locale, poi a livello nazionale (pur nello strabismo clientelare dell'epoca craxiana che concesse una straordinaria rendita di posizione ad un solo soggetto).
Lo specchio televisivo perde certo quell'ingessatura perbenista, le novità, gli stimoli, la concorrenza, incrementano la creatività, ma il discorso diventa via via sempre più commerciale, trascinando anche le reti pubbliche sempre più lontane dal pubblico servizio, e soprattutto lo specchio diventa multiplo: è sempre più difficile riconoscersi se le prospettive sono diverse, e "misurarsi" se il metro non è unico.
Ma tornando all'emigrazione, in particolare verso l'estero, non ci interessa qui soffermarci più a lungo su aspetti economico-sociali o politici, ma fare qualche riflessione su un aspetto spesso trascurato, che è la tematica del ritorno.
Infatti, la maggior parte degli emigrati italiani non abbandonò per sempre l'Italia, non si staccò una volta per tutte dalla vita italiana. Al contrario, circa la metà tornò di nuovo in patria. E un'ampia, ma difficilmente quantificabile, percentuale di chi rientrò emigrò di nuovo, anche più volte per parecchi decenni nell'arco della vita lavorativa.
È noto che la maggioranza dei cittadini italiani ha legami di amicizia o parentela con gli italiani all'estero e, in qualche regione di
intensa emigrazione questi legami sono perdurati di generazione in generazione, incoraggiando per certi versi una concezione in cui l'emigrazione, e la vita all'estero (o nel Settentrione), rappresentano la normalità, piuttosto che l'eccezionalità: una parte ordinaria della vita quotidiana sociale ed economica.
In questo scenario, il ritorno è un'esperienza che viene vissuta in maniera diversa, così come l'emigrazione in sé, a seconda dei punti di vista: quello dell’emigrato (o dei suoi figli), quello di chi è rimasto e quello del rimpatriato.
Se partiamo dall'emigrato, spesso il viaggio di ritorno è un obbligo "morale", oltre che un evento dato per scontato: esso rappresenta quindi un'esperienza integrante della vita dell’emigrato stesso e per certi versi dei suoi figli, anche perché sotto la pressione di questa
esperienza essi si confrontano con conflitti inattesi e sentimenti complessi sulla propria identità di appartenenza.
Questi conflitti, questi sentimenti, sono tanto più forti quanto più sono rare le "visite" di ritorno, in ragione del tempo che modifica la realtà da entrambi i lati del pendolo.
Immaginiamo che un emigrato torni dall'America con moglie e figli dopo dieci anni.
C'è un periodo iniziale di "luna di miele", in cui tutti sono presi dalla gioia di rivedersi, si fanno grandi pranzi, si vanno a trovare i parenti e gli amici d'infanzia, si passano giorni a raccontare.
Poi la luna di miele finisce, le differenze di stile di vita cominciavano a farsi sentire e a causare difficoltà, l'emigrato comincia ad accorgersi che in realtà non fa più parte del paese, gli anni trascorsi pesano, il paese stesso è "diverso", non è più il "suo" paese: in realtà egli spesso inconsciamente egli non torna, non vuole ritrovare quel "luogo", ma torna, vuole ritrovare quel "tempo".
Quasi un santuario della memoria in cui, nella quotidianità della vita all'estero, costruisce parte della sua identità.
Ed evidentemente un disagio nasce dalla questione dell'identità: all'estero si è considerati e riconosciuti come italiani, e questo costituisce un forte elemento identitario. Al rientro in paese, spesso dopo tanti anni di attesa e nostalgia, al di fuori della stretta cerchia familiare, si affronta la realtà di non essere riconosciuti come italiani, ma -ad esempio- "italo-americani", ed è difficile che venga concesso di riprendere l'identità di prima; a questo contribuiscono vari aspetti, tra cui:
- la lingua, la parola, il suono che ha preso un accento straniero (se anche l'emigrato ha mantenuto l'uso del dialetto, questo viene spesso "sporcato" da un colore inusuale, che acuisce il senso di "stranezza" per chi ascolta);
- la differenza di stile di vita e di metri di valutazione generata da anni di vita all'estero, che finisce per diventare barriera culturale, a volte più alta che tra due stranieri: evidenzia infatti che l'emigrato è "cambiato", non è più in sintonia con il sentire del paese, con la "communitas";
- il diverso concetto dell’emigrazione che chi è partito ha rispetto a quello di parenti e amici rimasti in Italia; chi non è mai emigrato tende a non rendersi conto di quella che è la vita all'estero, i sacrifici fatti, le difficoltà che gli emigrati avevano dovuto superare e e a ritenerli invece fortunati, per aver avuto la possibilità di cercare riscatto e fortuna da un'altra parte, il che viene vissuto come ingiusto da chi è partito, che ritiene non non aver avuto scelta e spesso invidia chi è rimasto.
(1 - continua)
(21 Novembre 2010)
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