"Principe" di Niccolò Machiavelli

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Capitolo XX

An arces et multa alia quae cotidie a principibus fiunt utilia an inutilia sint.
[Se le fortezze e molte altre cose, che ogni giorno si fanno da' principi, sono utili o no]

Alcuni principi, per tenere securamente lo stato, hanno disarmato e' loro sudditi; alcuni altri hanno tenuto divise le terre subiette; alcuni hanno nutrito inimicizie contro a sé medesimi; alcuni altri si sono volti a guadagnarsi quelli che li erano suspetti nel principio del suo stato; alcuni hanno edificato fortezze; alcuni le hanno ruinate e destrutte. E benché di tutte queste cose non vi possa dare determinata sentenzia, se non si viene a' particulari di quelli stati dove si avessi a pigliare alcuna simile deliberazione, non di manco io parlerò in quel modo largo che la materia per sé medesima sopporta.

Non fu mai, adunque, che uno principe nuovo disarmassi e' sua sudditi; anzi, quando li ha trovati disarmati, li ha sempre armati; perché, armandosi, quelle arme diventono tua, diventono fedeli quelli che ti sono sospetti, e quelli che erano fedeli si mantengono e di sudditi si fanno tua partigiani. E perché tutti sudditi non si possono armare, quando si benefichino quelli che tu armi, con li altri si può fare più a sicurtà: e quella diversità del procedere che conoscono in loro, li fa tua obbligati; quelli altri ti scusano, iudicando essere necessario, quelli avere più merito che hanno più periculo e più obligo. Ma, quando tu li disarmi, tu cominci ad offenderli, monstri che tu abbi in loro diffidenzia o per viltà o per poca fede: e l'una e l'altra di queste opinioni concepe odio contro di te. E perché tu non puoi stare disarmato, conviene ti volti alla milizia mercennaria, la quale è di quella qualità che di sopra è detto; e, quando la fussi buona, non può essere tanta, che ti difenda da' nimici potenti e da' sudditi sospetti. Però, come io ho detto, uno principe nuovo in uno principato nuovo sempre vi ha ordinato l'arme. Di questi esempli sono piene le istorie. Ma, quando uno principe acquista uno stato nuovo, che come membro si aggiunga al suo vecchio, allora è necessario disarmare quello stato, eccetto quelli che nello acquistarlo sono suti tua partigiani; e quelli ancora, col tempo e con le occasioni, è necessario renderli molli et effeminati, et ordinarsi in modo che tutte l'arme del tuo stato sieno in quelli soldati tua proprii, che nello stato tuo antiquo vivono appresso di te.

Solevano li antiqui nostri, e quelli che erano stimati savi, dire come era necessario tenere Pistoia con le parti e Pisa con le fortezze; e per questo nutrivano in qualche terra loro suddita le differenzie, per possederle più facilmente. Questo, in quelli tempi che Italia era in uno certo modo bilanciata, doveva essere ben fatto; ma non credo che si possa dare oggi per precetto: perché io non credo che le divisioni facessino mai bene alcuno; anzi è necessario, quando il nimico si accosta che le città divise si perdino subito; perché sempre la parte più debole si aderirà alle forze esterne, e l'altra non potrà reggere.

E' Viniziani, mossi, come io credo, dalle ragioni soprascritte, nutrivano le sètte guelfe e ghibelline nelle città loro suddite; e benché non li lasciassino mai venire al sangue, tamen nutrivano fra loro questi dispareri, acciò che, occupati quelli cittadini in quelle loro differenzie, non si unissino contro di loro. Il che, come si vide, non tornò loro poi a proposito; perché sendo rotti a Vailà, subito una parte di quelle prese ardire, e tolsono loro tutto lo stato. Arguiscano, per tanto, simili modi debolezza del principe, perché in uno principato gagliardo mai si permetteranno simili divisioni; perché le fanno solo profitto a tempo di pace, potendosi mediante quelle più facilmente maneggiare e' sudditi; ma, venendo la guerra, monstra simile ordine la fallacia sua.

Sanza dubbio e' principi diventano grandi, quando superano le difficultà e le opposizioni che sono fatte loro; e però la fortuna, massime quando vuol fare grande uno principe nuovo, il quale ha maggiore necessità di acquistare reputazione che uno ereditario, gli fa nascere de' nemici, e li fa fare delle imprese contro, acciò che quello abbi cagione di superarle, e su per quella scala che li hanno pòrta e' nimici sua, salire più alto. Però molti iudicano che uno principe savio debbe, quando ne abbi la occasione, nutrirsi con astuzia qualche inimicizia, acciò che, oppresso quella, ne seguiti maggiore sua grandezza.

Hanno e' principi, et praesertim quelli che sono nuovi, trovato più fede e più utilità in quelli uomini che nel principio del loro stato sono suti tenuti sospetti, che in quelli che nel principio erano confidenti. Pandolfo Petrucci, principe di Siena, reggeva lo stato suo più con quelli che li furono sospetti che con li altri. Ma di questa cosa non si può parlare largamente, perché la varia secondo el subietto. Solo dirò questo, che quelli uomini che nel principio di uno principato erono stati inimici, che sono di qualità che a mantenersi abbino bisogno di appoggiarsi, sempre el principe con facilità grandissima se li potrà guadagnare; e loro maggiormente sono forzati a servirlo con fede, quanto conoscano esser loro più necessario cancellare con le opere quella opinione sinistra che si aveva di loro. E cosí el principe ne trae sempre più utilità, che di coloro che, servendolo con troppa sicurtà, straccurono le cose sua.

E poiché la materia lo ricerca, non voglio lasciare indrieto ricordare a' principi, che hanno preso uno stato di nuovo mediante e' favori intrinseci di quello, che considerino bene qual cagione abbi mosso quelli che lo hanno favorito, a favorirlo; e, se ella non è affezione naturale verso di loro, ma fussi solo perché quelli non si contentavano di quello stato, con fatica e difficultà grande se li potrà mantenere amici, perché e' fia impossibile che lui possa contentarli. E discorrendo bene, con quelli esempli che dalle cose antiche e moderne si traggono, la cagione di questo, vedrà esserli molto più facile guadagnarsi amici quelli uomini che dello stato innanzi si contentavono, e però erano sua inimici, che quelli che, per non se ne contentare li diventorono amici e favorironlo a occuparlo.

È suta consuetudine de' principi, per potere tenere più securamente lo stato loro, edificare fortezze, che sieno la briglia e il freno di quelli che disegnassino fare loro contro, et avere uno refugio securo da uno subito impeto. Io laudo questo modo, perché elli è usitato ab antiquo: non di manco messer Niccolò Vitelli, ne' tempi nostri, si è visto disfare dua fortezze in Città di Castello, per tenere quello stato. Guido Ubaldo, duca di Urbino, ritornato nella sua dominazione, donde da Cesare Borgia era suto cacciato, ruinò funditus tutte le fortezze di quella provincia, e iudicò sanza quelle più difficilmente riperdere quello stato. Bentivogli, ritornati in Bologna, usorono simili termini. Sono, dunque, le fortezze utili o no, secondo e' tempi: e se le ti fanno bene in una parte, ti offendano in un'altra. E puossi discorrere questa parte cosí: quel principe che ha più paura de' populi che de' forestieri, debbe fare le fortezze; ma quello che ha più paura de' forestieri che de' populi, debbe lasciarle indrieto. Alla casa Sforzesca ha fatto e farà più guerra el castello di Milano, che vi edificò Francesco Sforza, che alcuno altro disordine di quello stato. Però la migliore fortezza che sia, è non essere odiato dal populo; perché, ancora che tu abbi le fortezze, et il populo ti abbi in odio, le non ti salvono; perché non mancano mai a' populi, preso che li hanno l'armie forestieri che li soccorrino. Ne' tempi nostri non si vede che quelle abbino profittato ad alcuno principe, se non alla contessa di Furlí, quando fu morto el conte Girolamo suo consorte; perché mediante quella possé fuggire l'impeto populare, et aspettare el soccorso da Milano, e recuperare lo stato. E li tempi stavano allora in modo, che il forestiere non posseva soccorrere el populo; ma di poi, valsono ancora a poco lei le fortezze, quando Cesare Borgia l'assaltò, e che il populo suo inimico si coniunse co' forestieri. Per tanto allora e prima sarebbe suto più sicuro a lei non essere odiata dal populo, che avere le fortezze. Considerato, adunque, tutte queste cose, io lauderò chi farà le fortezze e chi non le farà, e biasimerò qualunque, fidandosi delle fortezze, stimerà poco essere odiato da' populi.

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Capitolo XXI

Quod principem deceat ut egregius habeatur.
[Che si conviene a un principe perché sia stimato]

Nessuna cosa fa tanto stimare uno principe, quanto fanno le grandi imprese e dare di sé rari esempli. Noi abbiamo ne' nostri tempi Ferrando di Aragonia, presente re di Spagna. Costui si può chiamare quasi principe nuovo, perché, d'uno re debole, è diventato per fama e per gloria el primo re de' Cristiani; e, se considerrete le azioni sua, le troverrete tutte grandissime e qualcuna estraordinaria. Lui nel principio del suo regno assaltò la Granata; e quella impresa fu il fondamento dello stato suo. Prima, e' la fece ozioso, e sanza sospetto di essere impedito: tenne occupati in quella li animi di quelli baroni di Castiglia, li quali, pensando a quella guerra, non pensavano a innovare; e lui acquistava in quel mezzo reputazione et imperio sopra di loro, che non se ne accorgevano. Possé nutrire con danari della Chiesia e de' populi eserciti, e fare uno fondamento, con quella guerra lunga, alla milizia sua, la quale lo ha di poi onorato. Oltre a questo, per possere intraprendere maggiori imprese, servendosi sempre della relligione, si volse ad una pietosa crudeltà, cacciando e spogliando, el suo regno, de' Marrani; né può essere questo esemplo più miserabile né più raro. Assaltò, sotto questo medesimo mantello, l'Affrica; fece l'impresa di Italia; ha ultimamente assaltato la Francia: e cosí sempre ha fatte et ordite cose grandi, le quali sempre hanno tenuto sospesi et ammirati li animi de' sudditi e occupati nello evento di esse. E sono nate queste sua azioni in modo l'una dall'altra, che non ha dato mai, infra l'una e l'altra, spazio alli uomini di potere quietamente operarli contro.

Giova ancora assai a uno principe dare di sé esempli rari circa governi di dentro, simili a quelli che si narrano di messer Bernabò da Milano, quando si ha l'occasione di qualcuno che operi qualche cosa estraordinaria, o in bene o in male, nella vita civile, e pigliare uno modo, circa premiarlo o punirlo, di che s'abbia a parlare assai. E sopra tutto uno principe si debbe ingegnare dare di sé in ogni sua azione fama di uomo grande e di uomo eccellente.

È ancora stimato uno principe, quando elli è vero amico e vero inimico, cioè quando sanza alcuno respetto si scuopre in favore di alcuno contro ad un altro. Il quale partito fia sempre più utile che stare neutrale: perché, se dua potenti tua vicini vengono alle mani, o sono di qualità che, vincendo uno di quelli, tu abbia a temere del vincitore, o no. In qualunque di questi dua casi, ti sarà sempre più utile lo scoprirti e fare buona guerra; perché nel primo caso, se non ti scuopri, sarai sempre preda di chi vince, con piacere e satisfazione di colui che è stato vinto, e non hai ragione né cosa alcuna che ti defenda né che ti riceva. Perché, chi vince, non vuole amici sospetti e che non lo aiutino nelle avversità; chi perde, non ti riceve, per non avere tu voluto con le arme in mano correre la fortuna sua.

Era passato in Grecia Antioco, messovi dalli Etoli per cacciarne Romani. Mandò Antioco ambasciatori alli Achei, che erano amici de' Romani, a confortarli a stare di mezzo; e da altra parte Romani li persuadevano a pigliare le arme per loro. Venne questa materia a deliberarsi nel concilio delli Achei, dove el legato di Antioco li persuadeva a stare neutrali: a che el legato romano respose: "Quod autem isti dicunt non interponendi vos bello, nihil magis alienum rebus vestris est; sine gratia, sine dignitate, praemium victoris eritis".

E sempre interverrà che colui che non è amico ti ricercherà della neutralità, e quello che ti è amico ti richiederà che ti scuopra con le arme. E li principi mal resoluti per fuggire e' presenti periculi, seguono el più delle volte quella via neutrale, e il più delle volte rovinano. Ma, quando el principe si scuopre gagliardamente in favore d'una parte, se colui con chi tu ti aderisci vince, ancora che sia potente e che tu rimanga a sua discrezione, elli ha teco obligo, e vi è contratto l'amore; e li uomini non sono mai sí disonesti, che con tanto esemplo di ingratitudine ti opprimessino. Di poi, le vittorie non sono mai sí stiette, che il vincitore non abbi ad avere qualche respetto, e massime alla giustizia. Ma, se quello con il quale tu ti aderisci perde, tu se' ricevuto da lui; e mentre che può ti aiuta, e diventi compagno d'una fortuna che può resurgere. Nel secondo caso, quando quelli che combattono insieme sono di qualità che tu non abbia a temere, tanto è maggiore prudenzia lo aderirsi; perché tu vai alla ruina d'uno con lo aiuto di chi lo doverrebbe salvare, se fussi savio; e, vincendo, rimane a tua discrezione, et è impossibile, con lo aiuto tuo, che non vinca.

E qui è da notare, che uno principe debbe avvertire di non fare mai compagnia con uno più potente di sé per offendere altri, se non quando la necessità lo stringe, come di sopra si dice; perché, vincendo, rimani suo prigione: e li principi debbono fuggire, quanto possono, lo stare a discrezione di altri. Viniziani si accompagnorono con Francia contro al duca di Milano, e potevono fuggire di non fare quella compagnia; di che ne resultò la ruina loro. Ma, quando non si può fuggirla, come intervenne a' Fiorentini, quando el papa e Spagna andorono con li eserciti ad assaltare la Lombardia, allora si debba el principe aderire per le ragioni sopradette. Né creda mai alcuno stato potere pigliare partiti securi, anzi pensi di avere a prenderli tutti dubii; perché si truova questo nell'ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro; ma la prudenzia consiste in sapere conoscere le qualità delli inconvenienti, e pigliare il men tristo per buono.

Debbe ancora uno principe monstrarsi amatore delle virtù, et onorare li eccellenti in una arte. Appresso, debbe animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare li esercizii loro, e nella mercanzia e nella agricultura, et in ogni altro esercizio delli uomini, e che quello non tema di ornare le sua possessione per timore che le li sieno tolte, e quell'altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma debbe preparare premi a chi vuol fare queste cose, et a qualunque pensa, in qualunque modo ampliare la sua città o il suo stato. Debbe, oltre a questo, ne' tempi convenienti dell'anno, tenere occupati e' populi con le feste e spettaculi. E, perché ogni città è divisa in arte o in tribù, debbe tenere conto di quelle università, raunarsi con loro qualche volta, dare di sé esempli di umanità e di munificenzia, tenendo sempre ferma non di manco la maestà della dignità sua, perché questo non vuole mai mancare in cosa alcuna.

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Capitolo XXII

De his quos a secretis principes habent.
[De' secretarii ch'e' principi hanno appresso di loro]

Non è di poca importanzia a uno principe la elezione de' ministri: li quali sono buoni o no, secondo la prudenzia del principe. E la prima coniettura che si fa del cervello d'uno signore, è vedere li uomini che lui ha d'intorno; e quando sono sufficienti e fedeli, sempre si può reputarlo savio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e mantenerli fideli. Ma, quando sieno altrimenti, sempre si può fare non buono iudizio di lui; perché el primo errore che fa, lo fa in questa elezione.

Non era alcuno che conoscessi messer Antonio da Venafro per ministro di Pandolfo Petrucci, principe di Siena che non iudicasse Pandolfo essere valentissimo uomo, avendo quello per suo ministro. E perché sono di tre generazione cervelli, l'uno intende da sé, l'altro discerne quello che altri intende, el terzo non intende né sé né altri, quel primo è eccellentissimo, el secondo eccellente, el terzo inutile, conveniva per tanto di necessità, che, se Pandolfo non era nel primo grado, che fussi nel secondo: perché, ogni volta che uno ha iudicio di conoscere el bene o il male che uno fa e dice, ancora che da sé non abbia invenzione, conosce l'opere triste e le buone del ministro, e quelle esalta e le altre corregge; et il ministro non può sperare di ingannarlo, e mantiensi buono.

Ma come uno principe possa conoscere el ministro, ci è questo modo che non falla mai. Quando tu vedi el ministro pensare più a sé che a te, e che in tutte le azioni vi ricerca dentro l'utile suo, questo tale cosí fatto mai fia buono ministro, mai te ne potrai fidare: perché quello che ha lo stato d'uno in mano, non debbe pensare mai a sé, ma sempre al principe, e non li ricordare mai cosa che non appartenga a lui. E dall'altro canto, el principe, per mantenerlo buono, debba pensare al ministro, onorandolo, facendolo ricco, obligandoselo, participandoli li onori e carichi; acciò che vegga che non può stare sanza lui, e che li assai onori non li faccino desiderare più onori, le assai ricchezze non li faccino desiderare più ricchezze, li assai carichi li faccino temere le mutazioni. Quando dunque, e' ministri e li principi circa ministri sono cosí fatti, possono confidare l'uno dell'altro; e quando altrimenti, il fine sempre fia dannoso o per l'uno o per l'altro.

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Capitolo XXIII

Quomodo adulatores sint fugiendi.
[In che modo si abbino a fuggire li adulatori]

Non voglio lasciare indrieto uno capo importante et uno errore dal quale e' principi con difficultà si difendano, se non sono prudentissimi, o se non hanno buona elezione. E questi sono li adulatori, delli quali le corti sono piene; perché li uomini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie et in modo vi si ingannono, che con difficultà si difendano da questa peste; et a volersene defendere, si porta periculo di non diventare contennendo. Perché non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che li uomini intendino che non ti offendino a dirti el vero; ma, quando ciascuno può dirti el vero, ti manca la reverenzia. Per tanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlarli la verità, e di quelle cose sole che lui domanda, e non d'altro; ma debbe domandarli d'ogni cosa, e le opinioni loro udire; di poi deliberare da sé, a suo modo; e con questi consigli e con ciascuno di loro portarsi in modo, che ognuno cognosca che quanto più liberamente si parlerà, tanto più li fia accetto: fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare drieto alla cosa deliberata, et essere ostinato nelle deliberazioni sua. Chi fa altrimenti, o e' precipita per li adulatori, o si muta spesso per la variazione de' pareri: di che ne nasce la poca estimazione sua.

Io voglio a questo proposito addurre uno esemplo moderno. Pre' Luca, uomo di Massimiliano presente imperatore, parlando di sua maestà disse come non si consigliava con persona, e non faceva mai di alcuna cosa a suo modo: il che nasceva dal tenere contrario termine al sopradetto. Perché l'imperatore è uomo secreto, non comunica li sua disegni con persona, non ne piglia parere: ma, come nel metterli ad effetto si cominciono a conoscere e scoprire, li cominciono ad essere contradetti da coloro che elli ha d'intorno; e quello, come facile, se ne stoglie. Di qui nasce che quelle cose che fa uno giorno, destrugge l'altro; e che non si intenda mai quello si voglia o disegni fare, e che non si può sopra le sua deliberazioni fondarsi.

Uno principe, per tanto, debbe consigliarsi sempre, ma quando lui vuole, e non quando vuole altri; anzi debbe tòrre animo a ciascuno di consigliarlo d'alcuna cosa, se non gnene domanda; ma lui debbe bene esser largo domandatore, e di poi circa le cose domandate paziente auditore del vero; anzi, intendendo che alcuno per alcuno respetto non gnene dica, turbarsene. E perché molti esistimano che alcuno principe, il quale dà di sé opinione di prudente, sia cosí tenuto non per sua natura, ma per li buoni consigli che lui ha d'intorno, sanza dubio s'inganna. Perché questa è una regola generale che non falla mai: che uno principe, il quale non sia savio per sé stesso, non può essere consigliato bene, se già a sorte non si rimettessi in uno solo che al tutto lo governassi, che fussi uomo prudentissimo. In questo caso, potria bene essere, ma durerebbe poco, perché quello governatore in breve tempo li torrebbe lo stato; ma, consigliandosi con più d'uno, uno principe che non sia savio non arà mai e' consigli uniti, non saprà per sé stesso unirli: de' consiglieri, ciascuno penserà alla proprietà sua; lui non li saprà correggere, né conoscere. E non si possono trovare altrimenti; perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti buoni. Però si conclude che li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del principe, e non la prudenza del principe da' buoni consigli.

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Capitolo XXIV

Cur Italiae principes regnum amiserunt.
[Per quale cagione li principi di Italia hanno perso li stati loro]

Le cose soprascritte, osservate prudentemente, fanno parere, uno principe nuovo antico, e lo rendono subito più sicuro e più fermo nello stato, che se vi fussi antiquato dentro. Perché uno principe nuovo è molto più osservato nelle sue azioni che uno ereditario; e, quando le sono conosciute virtuose, pigliono molto più li uomini e molto più li obligano che il sangue antico. Perché li uomini sono molto più presi dalle cose presenti che dalle passate, e quando nelle presenti truovono il bene, vi si godono e non cercano altro; anzi, piglieranno ogni difesa per lui, quando non manchi nell'altre cose a sé medesimo. E cosí arà duplicata gloria, di avere dato principio a uno principato nuovo, e ornatolo e corroboratolo di buone legge di buone arme, di buoni amici e di buoni esempli; come quello ha duplicata vergogna, che, nato principe, lo ha per sua poca prudenzia perduto.

E, se si considerrà quelli signori che in Italia hanno perduto lo stato a' nostri tempi, come il re di Napoli, duca di Milano et altri, si troverrà in loro, prima, uno comune defetto quanto alle arme, per le cagioni che di sopra si sono discorse; di poi, si vedrà alcuno di loro o che arà avuto inimici e' populi, o, se arà avuto el popolo amico, non si sarà saputo assicurare de' grandi: perché, sanza questi difetti, non si perdono li stati che abbino tanto nervo che possino tenere uno esercito alla campagna. Filippo Macedone, non il padre di Alessandro, ma quello che fu vinto da Tito Quinto, aveva non molto stato, respetto alla grandezza de' Romani e di Grecia che lo assaltò: non di manco, per esser uomo militare e che sapeva intrattenere el populo et assicurarsi de' grandi, sostenne più anni la guerra contro a quelli: e, se alla fine perdé il dominio di qualche città, li rimase non di manco el regno.

Per tanto, questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo di poi perso non accusino la fortuna, ma la ignavia loro: perché, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi, (il che è comune defetto delli uomini, non fare conto nella bonaccia della tempesta), quando poi vennono i tempi avversi, pensorono a fuggirsi e non a defendersi; e sperorono ch'e' populi, infastiditi dalla insolenzia de' vincitori, li richiamassino. Il quale partito, quando mancano li altri, è buono; ma è bene male avere lasciati li altri remedii per quello: perché non si vorrebbe mai cadere, per credere di trovare chi ti ricolga. Il che, o non avviene, o, s'elli avviene non è con tua sicurtà, per essere quella difesa suta vile e non dependere da te. E quelle difese solamente sono buone, sono certe, sono durabili, che dependono da te proprio e dalla virtù tua.

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Capitolo XXV

Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum.
[Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, et in che modo se li abbia a resistere]

E' non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo, potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne' nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d'ogni umana coniettura. A che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Non di manco, perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno cosí fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. E se voi considerrete l'Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro el moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché, s'ella fussi reparata da conveniente virtù, come la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta. E questo voglio basti avere detto quanto allo avere detto allo opporsi alla fortuna, in universali.

Ma, restringendomi più a' particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare, e domani ruinare, sanza averli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che s'appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo, ancora, che sia felice quello che riscontra el modo del procedere suo con le qualità de' tempi; e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e' tempi. Perché si vede li uomini, nelle cose che li 'nducano al fine, quale ciascuno ha innanzi, cioè glorie e ricchezze, procedervi variamente: l'uno con respetto, l'altro con impeto; l'uno per violenzia, l'altro con arte; l'uno per pazienzia, l'altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. Vedesi ancora dua respettivi, l'uno pervenire al suo disegno, l'altro no; e similmente dua egualmente felicitare con dua diversi studii, sendo l'uno respettivo e l'altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non dalla qualità de' tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscano el medesimo effetto; e dua egualmente operando, l'uno si conduce al suo fine, e l'altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene: perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e' tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e' viene felicitando; ma, se e' tempi e le cose si mutano, rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sí prudente che si sappi accomodare a questo; sí perché non si può deviare da quello a che la natura l'inclina; sí etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E però lo uomo respettivo, quando elli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare; donde rovina: ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.

Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente; e trovò tanto e' tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere, che sempre sortí felice fine. Considerate la prima impresa che fe' di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli. Viniziani non se ne contentavono; el re di Spagna, quel medesimo; con Francia aveva ragionamenti di tale impresa; e non di manco, con la sua ferocia et impeto, si mosse personalmente a quella espedizione. La quale mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e Viniziani, quelli per paura, e quell'altro per il desiderio aveva di recuperare tutto el regno di Napoli; e dall'altro canto si tirò drieto el re di Francia, perché, vedutolo quel re mosso, e desiderando farselo amico per abbassare Viniziani, iudicò non poterli negare le sua gente sanza iniuriarlo manifestamente. Condusse, adunque, Iulio, con la sua mossa impetuosa, quello che mai altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto; perché, se elli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme e tutte le cose ordinate, come qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai li riusciva; perché el re di Francia arebbe avuto mille scuse, e li altri messo mille paure. Io voglio lasciare stare l'altre sue azioni, che tutte sono state simili, e tutte li sono successe bene; e la brevità della vita non li ha lasciato sentire el contrario; perché, se fussino venuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua ruina; né mai arebbe deviato da quelli modi, a' quali la natura lo inclinava.

Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando li uomini ne' loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.

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Capitolo XXVI

Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam.
[Esortazione a pigliare la Italia e liberarla dalle mani de' barbari]

Considerato, adunque, tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se, in Italia al presente, correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso di introdurvi forma che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare corrino tante cose in benefizio d'uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il populo d'Isdrael fussi stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, ch'e' Persi fussino oppressati da' Medi e la eccellenzia di Teseo, che li Ateniensi fussino dispersi; cosí al presente, volendo conoscere la virtù d'uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi nel termine che ell'è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch'e' Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d'ogni sorte ruina. E benché fino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa esser quello che sani le sue ferite, e ponga fine a' sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la prega Dio, che le mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli. Né ci si vede, al presente in quale lei possa più sperare che nella illustre casa vostra, quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e dalla Chiesia, della quale è ora principe, possa farsi capo di questa redenzione. Il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita dei soprannominati. E benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, non di manco furono uomini, et ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente: perché l'impresa loro non fu più iusta di questa, né più facile, né fu a loro Dio più amico che a voi. Qui è iustizia grande: "iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est". Qui è disposizione grandissima; né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà, pur che quella pigli delli ordini di coloro che io ho proposti per mira. Oltre a questo, qui si veggano estraordinarii sanza esemplo condotti da Dio: el mare s'è aperto; una nube vi ha scòrto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuto la manna; ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi.

E non è maraviglia se alcuno de' prenominati Italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre casa vostra, e se, in tante revoluzioni di Italia e in tanti maneggi di guerra, e' pare sempre che in quella la virtù militare sia spenta. Questo nasce, che li ordini antichi di essa non erano buoni e non ci è suto alcuno che abbi saputo trovare de' nuovi: e veruna cosa fa tanto onore a uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge e li nuovi ordini trovati da lui. Queste cose, quando sono bene fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile: et in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma. Qui è virtù grande nelle membra, quando non la mancassi ne' capi. Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi de' pochi, quanto li Italiani sieno superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno. Ma, come si viene alli eserciti, non compariscono. E tutto procede dalla debolezza de' capi; perché quelli che sanno non sono obediti, et a ciascuno pare di sapere, non ci sendo fino a qui alcuno che si sia saputo rilevare, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino. Di qui nasce che, in tanto tempo, in tante guerre fatte ne' passati venti anni, quando elli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova. Di che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri.

Volendo dunque la illustre casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini che redimirno le provincie loro, è necessario, innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d'ogni impresa, provvedersi d'arme proprie; perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati. E, benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandare dal loro principe e da quello onorare et intrattenere. È necessario, per tanto, prepararsi a queste arme, per potere con la virtù italica defendersi dalli esterni. E, benché la fanteria svizzera e spagnola sia esistimata terribile, non di meno in ambo dua è difetto, per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro ma confidare di superarli. Perché li Spagnoli non possono sostenere e' cavalli, e li Svizzeri hanno ad avere paura de' fanti, quando li riscontrino nel combattere ostinati come loro. Donde si è veduto e vedrassi per esperienzia, li Spagnoli non potere sostenere una cavalleria franzese, e li Svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnola. E, benché di questo ultimo non se ne sia visto intera esperienzia, tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie spagnole si affrontorono con le battaglie todesche le quali servono el medesimo ordine che le svizzere: dove li Spagnoli, con la agilità del corpo et aiuto de' loro brocchieri, erano intrati, tra le picche loro sotto, e stavano securi ad offenderli sanza che Todeschi vi avessino remedio; e, se non fussi la cavalleria che li urtò, li arebbano consumati tutti. Puossi, adunque, conosciuto el defetto dell'una e dell'altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a' cavalli e non abbia paura de' fanti: il che farà la generazione delle armi e la variazione delli ordini. E queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, dànno reputazione e grandezza a uno principe nuovo.

Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che l'Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere con quale amore e' fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano? quali populi li negherebbano la obedienza? quale invidia se li opporrebbe? quale Italiano li negherebbe l'ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, adunque, la illustre casa vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e, sotto li sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca:

Virtù contro a furore
Prenderà l'arme, e fia el combatter corto;
Ché l'antico valore
Nell'italici cor non è ancor morto.

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