La battaglia di Laiazzo

Lucheto è anche e soprattutto un poeta civile, che sull'orgoglio di essere genovese riesce a creare una vera e propria epica, sonora e potente, come si può constatare dalle sue poesie storiche, tutto un inno al coraggio dei liguri e alla loro pietas, grazie alla quale avranno la meglio sui loro nemici. Nelle vittorie di Laiazzo (1294) e di Curzola (1298) ottenute contro i Veneziani, il poeta vede la mano di Dio, che sostiene l'armata genovese, perchè formata da uomini virtuosi e guidata da ammiragli saggi e pii contro un nemico colpevole di innumerevoli nefandezze. L'arcaica vigoria della lingua dona una straordinaria suggestione a questi versi, ma li rende anche di difficile lettura per i genovesi di oggi, visto - tra l'altro - l'ostracismo, cui la scuola pubblica condanna tutto ciò che è autonoma cultura ligure.

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Veniciam dissem intrando:
- Fucí som, in terr'ascoxi:
sperdui som, noi avisando,
li soci porci levroxi.
Niente ne resta a prender
se no li corpi de li legni:
preixi som senza defender;
de bruxar som tuti degni -
Como 'li fom aproximai,
queli se levàn lantor,
como leon descaenai,
tuti criando: - A lor! A lor! -
Lì fo gran bataia durà
de le barestre, lance e pree,
chi da nona a vespro durà
e cazinna pre galee.
Bem fè mester l'ermo in testa
e de le arme fir guardao;
s'era spessà la tempesta
l'aere pareva anuvelao.
Venneciam fon vaguì,
le lor taride atraversae;
li nostri ge montàn garnì,
chi ben punì le lor pecae.
Cum spae, rale e costorel
gran venianza fen de lor:
venzui fon li mar guerer
e Zenoeixi n'an l'onor,
chi vinticinque taride àn
retegnue in questa rota,
che incontente li cremàn:
l'aver piiàm chi g'era sota.
Or par ben chi som pagai
li Veniciam tignosi:
ni conseio che zà mai
mentoem porci levroxi;
che la lengua no à osso
e par cossa monto mole,
ma sì fa rompir lo dosso
per usar mate parole.
Tanto som pu vetuperai
quanto pu noi desprexiavam:
se da menor som conquistai,
men son tornai cha no mostravam.
E' spesso ò oido dir
che lì sor tornar lo dano,
donde sor lo mar ensir,
e scotrimento con engano.
E' no me posso arregordar
d'alcum romanzo vertader
donde oyse uncha cointar
alchum triumpho si sobrer.
E per meio esser aregordenti
de sì grande scacho mato,
correa mille duxenti
zontoge noranta e quatro.
Or ne sea De loao
e la soa doze maire,
chi vitoria n'à dao
de gente de sì mar aire.
Lo grande onor che De n'à faito,
noi no l'avemo meritao;
ma lo grande orgoio è staito
degno d'eser abaxao.
E De chi ve e tuto sa
cum eternal provision,
sea, quando mester ne fa,
semper nostro campion.

I Veneziani dissero arrivando: / - sono scappati, rifugiati nell'entroterra / si sono dispersi, accorgendosi del nostro arrivo / quei sozzi porci lebbrosi!  / Nient'altro ci rimane da prendere, / se non le loro navi; / sono state catturate senza lotta / meritano d'essere bruciate - / Non appena si furono avvicinati / quelli (i Genovesi) si levarono allora / come leoni scatenati / gridando tutti:  A loro! A loro! / Lì si subì una gran battaglia / di balestre, lance e pietre, / che durò da nona a vespro / e si buttò calce sulle galee. / Fu ben necessario l'elmo in testa / e proteggersi dalle armi / s'era addensata la tempesta / l'aere sembrava rannuvolato. / I Veneziani furono giocati, / le loro taride prese per traverso, / i nostri vi salirono ben muniti / e punirono i loro peccati. / Con spade, armi da taglio e costolieri / fecero di loro gran vendetta / furono vinti i malvagi nemici / e i Genovesi ne hanno l'onore, / ché venticinque taride hanno / catturato in questa rotta, /  e subito le bruciarono / dopo aver preso ciò che c'era dentro. / Ora pare che siano ben pagati / i Veneziani tignosi:  /  e io li consiglio che mai più / ci chiamino porci lebbrosi; / ché la lingua non ha osso / e par cosa molto molle / ma fa rompere la schiena / quando si usano pazze parole. / Tanto più sono avviliti / quanto più ci disprezzavano; / se sono stati vinti da gente inferiore numericamente / valgono meno di quanto pretendessero. / Io spesso ho udito dire / che lì suole tornare il danno /
da dove suole uscire il male / e la scaltrezza con l'inganno. / Io non posso ricordarmi / d'alcun racconto veritiero / dove abbia mai udito narrare / un trionfo così superbo. / E perché ci si ricordi meglio / d'un sì grande scacco matto / correa l'anno mille duecento / novantaquattro. / Ora sia lodato Iddio / e la sua dolce madre, /  che ci hanno dato la vittoria / su gente così malvagia.  /  Il grande onore che Dio ci ha dato / noi non l'abbiamo meritato; / ma il grande orgoglio è stato / degno di essere abbattuto. / E Dio che tutto vede e sa / con eterna preveggenza / sia, quando è necessario, / sempre il nostro campione.

Lucheto
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