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Amadán - Hell-Bent 4 Victory

Intervista di Alfredo De Pietra

Tutt’altro che stupidi….

La band dell’Oregon giunge al suo secondo album carica di energia creativa, con un felice mix di asprezze punk e melodie tradizionali, passando anche attraverso il suono del didgeridoo australiano. Due brani sul nostro sampler mensile.

Stupidi? E perchè mai, vi chiederete…E invece sì, perché questo è il significato della parola gergale gaelica amadán: sciocco, idiota. E proprio questo è il nome scelto da una delle più interessanti band della west coast americana – sono di base in Oregon – del momento, gli Amadán appunto. Ci si potrebbe chiedere il motivo di questa audace scelta, a parte naturalmente la piacevole sonorità del termine stesso. Bene, considerato che con questo gruppo siamo essenzialmente nel campo del punk, sia pure con forti tinteggiature di Irish traditional al proprio interno, tutto diventa più comprensibile, non vi pare?

Giocano, gli Amadán (http://amadanusa.com), giocano ad autodefinirsi stupidi, giocano anche con la copertina del loro ultimo CD, Hell-Bent 4 Victory, tutta in caratteri tipografici “finto-giapponesi”, con i titoli dei brani accompagnati non dal minutaggio (come di consueto), ma dal numero di battute/minuto, e con rimandi fotografici ai kamikaze nipponici della seconda guerra mondiale. Insomma giocano a fare i duri, nella consueta tradizione del punk, ma al di là delle apparenze va chiarito che questa band suona veramente bene, con alcune sonorità che rimandano in maniera diretta all’esperienza di gruppi come i Pogues e i Waterboys. Nella loro musica la fusione tra rock e folk di ispirazione irlandese è perfetta, e Hell-Bent 4 Victory è album di notevole spessore, ricco musicalmente, ben assortito e ottimamente registrato. Nota caratteristica del gruppo, l’uso in modo organico dell’australiano didgeridoo, ancestrale strumento dal magico suono, che si integra benissimo con le asprezze del punk. Di tutto ciò abbiamo parlato con Eric Tonsfeldt, vocalist e chitarrista degli Amadán:

Hell-Bent 4 Victory (in italiano “tesi verso la vittoria”): le ragioni di questo titolo, francamente abbastanza inconsueto?

“Sì, tesi verso la vittoria, perché ciascuno dei membri della band è attualmente in procinto di raggiungere importanti traguardi, siano essi di natura professionale o personale. È anche un tributo a tutte le sfide e i momenti difficili che abbiamo dovuto attraversare negli ultimi anni.”

Ma anche la copertina dell’album, con tutti quei richiami al Giappone…si direbbe di essere sull’aereo di un kamikaze durante la seconda guerra mondiale…una scelta abbastanza audace…

“No, semplicemente ci piaceva questo particolare stile! Jeremy Bauer e io siamo molto attivi anche nel campo della progettazione grafica:siamo noi due che ci occupiamo della copertina e del suo layout, e ci è piaciuta in questo modo. Sia ben chiaro, nessun significato politico, eh? E poi anche il pilota che si vede raffigurato in copertina è un nostro amico, si chiama Hal Morley…”

Spostiamoci sul versante più propriamente musicale. Da quanto tempo suonate insieme?

“Dall’autunno del 1999, e all’inizio eravamo un trio, con lo scopo di mescolare il punk con la musica tradizionale, quella stessa musica da cui il punk trae in parte le proprie origini. E in un certo senso c’era anche un messaggio politico in quello che suonavamo: volevamo dedicare la nostra musica a tutti coloro che sono costretti a lavorare duramente, nel corso della loro vita…”

Ecco, visto che l’ha citato lei, il punk…si direbbe che vi ispiriate abbastanza alla musica dei Pogues…

“Beh, certo, i Pogues sono stati una delle influenze più importanti dell’età giovanile, come del resto anche i Clash, i Sex Pistols, i Cocksparrer e gli Angelic Upstarts…ma anche i Black Flag, e gli Agent Orange, gruppi di ispirazione surf. Ma in realtà ciascuno di noi contribuisce con le proprie esperienze musicali al particolare sound della band, e ciò credo sia particolarmente evidente proprio in Heel-Bent 4 Victory: voglio dire, l’orchestrazione del fiddle di Naoyuki Ochiai, gli arrangiamenti percussivi di Jeremy Bauer, il basso jazzato e progressive di Kevin Pardew, i particolari arrangiamenti di Andy Gross al didgeridoo, e la batteria di Mike Morrow, il cui ricchissimo stile percussivo è una delle principali fonti di ispirazione delle mie composizioni, definite dai più come eclettiche e inprevedibili…bene, tutte queste cose sono chiaramente avvertibili in questo nostro ultimo album.”

Appunto, il didgeridoo…siete una delle pochissime band a usare questo affascinante strumento di origine australiana nel contesto della musica di ispirazione celtica…

“Sì, è vero! Ricordo che Andy e io avevamo provato a suonarlo già una decina di anni fa. Io lo misi da parte, mentre lui ha avuto la costanza di continuare ad esercitarsi. Così non solo è diventato molto bravo a suonarlo, ma è riuscito a trovare tutta una serie di “spazi” per questo strumento all’interno della nostra musica…ed è un suono, quello di un didgeridoo ben suonato, che è veramente emozionante!”

Senta, ma con questo tipo di approccio punk, definirebbe gli Amadán una band di musica celtica?

“Ad essere onesti, ormai non più. La maggior parte del nostro repertorio è composto da pezzi originali, certo molto spesso con evidenti legami ai reel e alle gighe irlandesi, ma ormai con un nostro stile ben definito. Le faccio un esempio: se sento un whistle, mi interessa poco conoscere tutta la storia di questo strumento, le sue tecniche, come si è evoluto e così via. Quello che mi intriga, al contrario, è sentire come Jeremy Bauer riesce a interpretare un determinato brano tradizionale al whistle: certo, starà suonando uno strumento tradizionale, e magari anche un pezzo tradizionale, ma quello che conta è la sua versione di quel particolare tune. E tutti noi, all’interno della band, la vediamo alla stessa maniera.”

Torniamo infine a Hell-Bent 4 Victory: in cosa è differente dai vostri lavori precedenti?

“Molto differente! Gran parte del merito va a Dave Friedlander, che in passato ha lavorato con gente del calibro di Prince, Everclear, Pink Martini…Dave non è solo un grande tecnico del suono, ma ha contribuito in modo decisivo anche alla produzione del disco: è stato un vero elemento catalizzatore, direi che è riuscito a costruire in noi la mentalità di ragionare in un progetto a lungo termine. Anche per questo motivo sento già che il prossimo album sarà ancora migliore di Hell-Bent 4 Victory.”

Sulla compilation di “Keltika” di questo mese troviamo due brani tratti da Hell-Bent 4 Victory, entrambi caratterizzati da un forte richiamo alla musica irlandese: la celebre “Paddy’s Green Shamrock Shore” e l’altrettanto famosa “The Morning Dew”, questa volta unita alla composizione originale “Rose City”, brano in cui il fiddle di Naoyuki Ochiai fa bella mostra di sé.