<<Io sono un pioppo spoglio,/attendo radicato nel dubbio,/la primavera./Intriso di questa pioggia/senza sosta con brezza/che dilaga tutt’intorno/e risparmia oggi/solo/gli uomini/al sicuro/nelle logge della certezza>> (Il pioppo)

 Con questi versi, posti come a suggello di un messaggio incompiuto, Alfredo Fiorani chiude la sua raccolta di poesie dal titolo Rimestando, un opera prima che si può senza dubbio definire più che una bella promessa per la sua ricchezza tematica non meno che per una sua forza espressiva. Walter Mauro, che ha tenuto a battesimo il nuovo poeta con l’avallo di una prefazione di pieno consenso, individua nel polo tematico del “viaggio” il motivo che “sembra governare e guidare la parola poetica… un punto d’incontro e di riferimento verso il quale Fiorani guarda con l’attenzione di un novello Ulisse che non realizza il suo vagabondaggio soltanto nei luoghi di un’ipotetica – e poetica – migrazione, ma più ampiamente nei recessi dell’uomo”.

 Certo, sul piano stilistico, si notano qua e là lievi incongruenze e arditezze un po’ improvvisate, ma nell’insieme si può sostenere, d’accordo con lo stesso Mauro, che Fiorani fruisce di “un linguaggio molto singolare, all’apparenza semplice e naturale… ma in realtà penetrante ed esplicito, deprivato di ogni liricità eccessiva”. Più convincente, a tal riguardo, ci sembra la sezione intermedia, che s’intitola Di sera in sera, dove la materia ispiratrice si fa più omogenea e trasparente attorno al vecchio motivo della sera, colto attraverso dieci momenti di emozioni diverse, collocabili tra il sogno e la realtà. Leggiamo Sera III:

<<Non c’è sera/senza luci artificiali/mitigate dal vento/senza malinconia/del frinire/delle cicale a fine agosto/senza stanchezza della/luce naturale/occupata/da ombre imprecise/da sospiri agitati/che ancora s’appisolano/su di una trama di/sogno suadente>>.

 Più variamente articolate sono la prima e la terza sezione, l’una rivolta a disegnare “diverse memorie”, l’altra “paesaggi d’acqua e stagioni di ritorno”, con un discorso solitamente disteso, spesso quasi a tutta pagina, fitto d’immagini che si snodano secondo una cadenza ritmica vicina alla prosa lirica.

(Vittoriano Esposito, in Poesia Non-Poesia Anti-Poesia del ‘900 italiano, Bastogi Editore, Foggia 1992)

 Veramente una piacevole novità, una sorpresa gradevolissima costituiscono le poesie di Alfredo Fiorani. La raccolta […] è articolata in diverse parti che toccano vari argomenti, tutti legati alla vita, alle esperienze, alle suggestioni dell’autore e tutti accomunati dalla verve, dal brio e dalla fresca schiettezza che la percorrono e la pervadono per intero. […] Queste poesie sembrano compiere un’ideale traiettoria della memoria che da “un golfo ampio di un passato, non privo di nebbie” si spinge sino ai margini del presente, sino all’inquietudine, all’incertezza dell’oggi attraverso tappe più o meno significative della vita dell’Autore, sia da l punto di vista umano che da quello letterario.

 Il tema del viaggio, come ha rilevato lo stesso Walter Mauro, è il leit-motiv che lega le tre sezioni, di cui è composta la raccolta. Viaggio inteso come desiderio di conoscenza, di esplorazione dei territori ignoti dell’uomo immerso nel suo tempo. Il poeta Salvatore Sorbello, sul settimanale toscano Il Micco del marzo del 1988, concludeva che Fiorani <<risulta essere una voce autentica, da seguire attentamente>>.

 […] Conveniamo con Sorbello e aspettiamo Fiorani alle prossime prove.

(A.A., in Il Corriere di Roma, Anno XL, 1 febbraio 1990)

 Diverse memorie, in giorni di bufere e di sole, di gioie e di dolore, trovano sulla pagina, nella voce dell’anima, l’attimo fuggente del passato in Rimestando di Alfredo Fiorani. Un passato che diventa, così, poesia. […]

 Il tempo, qui, è il grande sconfitto: tuttavia, la sconfitta non gli pesa. Il tempo non ha pietà. L’orologio imperterrito continua il suo ticchettio. Non si può fermare. Né il sogno può ridare alla realtà ciò che la realtà ha perduto. Forse solo la pagina, il verso, la poesia riescono a recuperare le ombre imprecisate di ciò che non è più.

 […] Fiorani è un poeta vero. Rimestando i suoi ricordi gli si riaprono antiche ferite che credeva rimarginate. Il dolore, così, non può tacere. Ma non aspettatevi pianto da lui. I suoi occhi sono asciutti. Aspettatevi semmai soltanto un grido. Il grido di un uomo che ha identificato, molto precocemente, l’inganno della vita.

(Bonifacio Vincenti, in Puglia, Bari, 22 luglio 1988)

 La nuova raccolta di liriche Rimestando costituisce la prima incursione di Alfredo Fiorani nei luoghi della poesia.

 Il suo strumento abituale di espressione è stato, sino ad ora, la prosa, sia nella forma del racconto, sia nella forma del romanzo. E, tuttavia, questa precisazione ha un valore meramente descrittivo. In effetti, per chi, come noi, ha avuto l’opportunità di leggere Con la 13ma ora cessò il vento delle campane, Il fiume e le stelle e, per la cortesia dell’autore, altri suoi lavori inediti, non è difficile riconoscere, nel ritmo nelle immagini nelle sonorità dei suoi versi, il ritmo le immagini le sonorità della sua prosa.

 Dall’altra parte, definire racconti o romanzi le sue opere in prosa è una forzatura didascalica utile per ridurre a categorie note un’espressione letteraria del tutto originale, che si struttura come dialogo-confronto tra vissuti di coscienze (di una coscienza attenta ad ogni minima variazione di stato, anzi sostanziata di ogni alterazione minimale) e percezione del mondo e degli altri come assolutamente “esterni”, nella loro realtà esistenziale, alla coscienza stessa. E in questa ottica le liriche di Rimestando costituiscono non una novità, bensì la ricerca di un’espansione espressiva per la stessa esperienza esistenziale ed artistica.

 La ricerca stilistica, formale, lessicale è legata alla lezione incrociata dell’ermetismo (dalle verdi fessure parallele [Sera V]; di giometrie ignote/sono tracciate le anime [Sera VIII]; nel solco della sua fessura argillosa,/come trincea mal scavata/ma pur sempre ricovero di terra fiorita [La prima volta di Arturo]) e della poesia nord-americana della beat-generation (di cric e crac e boom dentro questo igloo [Sera X di gelo];) con echi, seppure, probabilmente, inavvertiti, della poesia di Prévért. Del resto, il ritmo sonoro e, anche, la scelta dei vocaboli e i loro, a volte sorprendenti accostamenti, richiamano l’eco densa della musica nera nord-americana: blues e jazz. E spesso, dai versi di Fiorani, emana l’odore acre di fumo, di alcool, di sudore dei locali cenciosi di New Orleans o Sant Louis.

 L’operazione di fusione di queste molto e molto varie essenze poetiche e sonore non è condotta, tuttavia, dall’intelletto, ma si realizza in un vissuto esistenziale in cui la vita stessa è scansione poetica e la poesia ritmo dell’esistere. E il tempo costituisce il luogo assoluto di questo esistere; non, a nostro avviso, nel senso inteso da Walter Mauro nella sua prefazione (testimonianza del vano, inquietante scorrere del tempo); bensì visto e vissuto nella sua pienezza, assaporandone fino in fondo ogni istante, perché ogni istante ha in sé la pienezza monadologia di ogni tempo possibile e di ogni possibile vita.

(Giorgio Tentarelli, in La voce dell’Emigrante, Marzo 1992)

 Lo pseudonimo Alfredo Fiorani cela una personalità notevole, già assurta alle cronache letterarie come Alfredo Zèzima, altro nome fittizio col quale l’autore ha dato alle stampe i suoi libri. […] Ha esordito nell’82 con un bel volume di racconti (selezionato al <<Premio Scanno 1983>>) dal titolo Con la 13° ora cessò il vento delle campane: tre storie che s’incentrano sulla vicenda umana ed esistenziale di tre personaggi-simbolo (l’impiegato comunale mesto, la stralunata signorina Ada e l’inquieto Samuele Blumen), i quali avvertono lo sconcerto dell’inautentico e si affidano perciò a singolari alternative che hanno in comune il sogno, la speranza, il desiderio di dar corso a più appaganti soluzioni di vita o a più chiare identità personali.

 L’attenzione agli argini del paradosso e al ruolo delle “illusioni” torna nel romanzo breve Il fiume e le stelle, del 1984, in cui l’autore lascia scorrere l’intera vicenda intorno all’astuta messinscena della scoperta di una filone d’oro, architettata dal “potere” per convogliare (e controllare - si capisce) il desiderio di individui ben consapevoli della loro meschina esistenza e della necessità di sottrarsi alle fragili consuetudini imposte dallo stesso potere. Si tratta, quindi, di un romanzo di alto impegno morale e civile, che indaga sulla condizione dell’uomo contemporaneo e sui suoi problemi psicologici; problemi, peraltro, che si ripropongono con più complessa tensione anche nella raccolta di poesie Rimestando, del 1987, indirizzata a sondare (come scrive Walter Mauro) <<nei recessi dell’uomo>> e <<fra le pieghe difficili del soggetto>>, verso il quale Fiorani <<guarda con l’attenzione di un novello Ulisse>> e con <<una parola poetica estremamente moderne e decantata>>. In effetti, la pagina di Fiorani sa assimilare le ansie conoscitive della riflessione contemporanea e sa tradurre in toni personali i molti e precari aspetti del “viaggio” nel tempo, fino a tessere un ampio quadro di situazioni emotive ne di reali drammi.

 E’ quanto si coglie, ancora, dai numerosi racconti che l’autore ha pubblicato finora nei vari periodici letterari e nelle antologie destinate ai giovani autori (e che, insieme, formerebbero un prezioso volume), o dall’ultimo ed impegnativo romanzo, L’incantatrice orientale, dato alle stampe nel febbraio del ’94: Fiorani vi approda con la turgida maturità della sua scrittura, delineando un microcosmo (il circo) che si fa simbolo di più larghi contesti e di forti allusioni ideali. Infatti la “storia” si svolge all’interno del circo internazionale di Alfonso Arrabbal, dove arriva all’improvviso la giovane Irene Fortis, suonatrice di violino. La ragazza, dal carattere mite e dai comportamenti piuttosto rassicuranti, induce in vario modo la troupe a ripensare il proprio destino, a prendere cognizione di taluni fatti e a scavare sotto la cenere delle consolidate abitudini per rinsaldare la “maschera” che faticosamente ognuno si è data, o per gettarla via, nel segno di un fatale compimento.

 Più di tutti è lo stesso Arrabbal a subire il fascino di Irene: <<Gli pareva di stare riacquistando l’entusiasmo alla vita, con l’identico fervore di un cercatore d’oro che riprende a setacciare il fiume, dopo anni di vane ricerche, al seguito del ritrovamento di una piccola pepita. […] La riscoperta della giovinezza non lo consegnava né al passato né lo proiettava verso il futuro ma gli conferiva l’autorità di governare il tempo>>. E intorno all’irrequieto direttore del circo, si alternano acrobati, inservienti, clowns: un’intera umanità, insomma, brulicante tra carrozzoni, gabbie, corde di panni stesi e teloni verniciati d’azzurro, in cui la nuova presenza si cala via via come occasione di ansia e di denudamento, di delirio e di definitiva identità.

 Il circo, quindi, nel pretesto narrativo di Fiorani, assurge a metafora della stessa vita, e ogni scena che si prospetta negli otto capitoli del libro, diviene frammento d’un’esistenza ricondotta agli umori primordiali e ai sentimenti più plausibili ed umanamente incalzanti dell’individuo, che lo scrittore analizza con <<la certosina pazienza di un botanico>> (come direbbe la stessa Irene), ben sapendo che la <<vita reinventata centinaia di volte per il pubblico>> ha le medesime paure, i medesimi rimorsi, le analoghe tribolazioni ed affanni del nostro quotidiano esistere. Fiorani indirizza tutto il suo impegno a tradurre, appunto, in un ampio quadro d’insieme, i frangenti di questo universo-metafora, costellato non solo di attese, di ritmi febbrili, di trepide indolenze, bensì pure di soccorrevoli affetti, di solidali sentimenti e di provvide generosità.

 Anche la scrittura, sempre incalzante e vigile, si adegua ai modi della narrazione con forti saldature e con lezioni stilistiche che inturgidiscono la pagina, arrecando al romanzo un’impronta di sicura e schietta maturità.

(Vito Moretti, in Il plurale delle voci – La letteratura abruzzese fra sette e novecento, Bulzoni Editore, Roma, 1996)

 Ci sono, nelle ormai fatiscenti e carnascialesche scenografie del nostro screziatissimo e caleidoscopico Barnum letterario, come bene consumo, talvolta anche come ritorno costante del periodico prodotto d’autore, appuntamenti abitualmente attesi con le opere di scrittori affermati e rare sorprese di nuovi nati un po’ confusi nel gran bailamme quotidiano delle meteore e delle future stelle fisse.

 Di Alfredo Fiorani mi piace parlare quasi si trattasse di un perenne esordiente, e forse – glielo auguro – di un postero sopravvissuto, capace nel decennio della sua attività di prosatore per vocazione elettiva e di poeta fra le righe (cioè quale autore di poesia in temporaneo surrogato alla messa a punto di più complesse architetture narrative) di progressivo affinamento espressivo in concomitanza della maggiore incisività sintattico-lessicale; quando beninteso non si lasci andare, per smania d’imporsi, ad una ricerca narcissica della parola o dell’effetto, sempre comunque ripescati con sensibilità da duttile sedimentazione culturale.

 Esordiente perenne, dicevo, con quel che di freschezza questo comporta, pensando al fatto che alla qualità della sua scrittura, pur nella non sporadicità di buoni riconoscimenti e nell’avallo di rinomati predatori, è mancata finora (e fino a quando?) la risonanza a grancassa che, oggi, può essere orchestrata solo dalle cordate operative delle grandi case editrici.

 La vecchia consorteria intrigante, ogni tanto malevola ma intelligente dei recensori d’antan, che se non assicurava vasta eco sapeva almeno garantire col suo special tam-tam privato una dignitosa quanto produttiva stima a che lavorava e creava con dignità fuori dei circuiti privilegiati, si è purtroppo estinta. I nuovi feudatari si sono trasferiti nei modernissimi Pirelloni a manovrare studiatissime catene di montaggio; ad una libera repubblica delle lettere si apre l’accesso ad una sorta di Colosseo asfissiato dal traffico circostante, ove ognuno, dopo aver sventato il più che probabile investimento, ha libero diritto d’accesso o  d’asilo ad evocare sulle macerie viventi fantasmi, sempreché abbia cuore ed esercitata fiducia che d’improvviso, per una banale coincidenza dei possibili, si facciano carne e sangue.

 Io non so quando e come, e se mai, per Fiorani accadrà che l’attuale cerchia di estimatori ed amici sarà messa in disparte dal sopravvenire di un folto pubblico; e quando La 13ma ora, Il fiume e le stelle, I labirinti di Joyce potranno diventare le indispensabili tappe di avvicinamento critico al recentissimo L’incantatrice orientale. Non disponendo di un flauto magicamente suadente, so soltanto di poter suscitare l’attenzione di sparuti ed intelligenti lettori, i quali non meritano a questo punto l’offesa di vedersi sciorinato il compitino diligente dell’esile riassunto di una trama con i pochi condimenti del caso, secondo prassi sterile ovunque dilagante. Chi vorrà, non faticherà a trovare da solo il percorso ed il personale punto d’osservazione e giudizio, l’ottica particolare che di certo lo ricompenserà del breve dono del suo tempo.

(Giuseppe Papponetti, in Oggi e Domani, Anno XXII, n. 6, 6/94)

 I poeti e i legislatori hanno in comune un dovere: pensare molto e parlare poco. Dal canto suo, il giovane Alfredo Fiorani pensa molto e parla secondo le necessità interiori, ma anche nelle molteplici vesti in cui è impegnato: giornalista, scrittore, poeta. Ligure d’origine, abruzzese d’adozione, a poco più di 40 anni ha già un bel paniere colmo di riconoscimenti, con primi premi di valore, e tra questi vale la pena di segnalare gli ultimi: Emigrazione 1992 (giornalismo), Sandro Penna 1993 (poesia), Teramo 1995 (racconto inedito). Presso il Centro Servizi Culturali dell’Aquila è stata presentata l’ultima fatica poetica di Alfredo Fiorani, un denso volumetto intitolato Derive: titolo eloquente, come in genere sono i titoli delle raccolte poetiche, e che allude con i suoi sensi multiformi  soprattutto a quel lasciarsi trascinare dalle acque ma senza esserne travolti, bensì conservando coscienza ed amarezza.

 Nelle venti poesie riunite sotto il capitolo Incredulo canto solitario” e nei due poemetti della raccolta (“Natale 1993” e “Ricordo di Itaca”) l’autore condensa l’esperienza artistica e sentimentale di questi ultimi anni. E scendendo lungo le molte correnti della sua vita, di deriva in deriva, traccia con mano lieve, che lascia però segni vistosi, un bilancio nel quale si rispecchia anche l’implicito giudizio sui nostri tempi. Si sa che i poeti non raccontano la cronaca e non giudicano scopertamente. La loro arma preferita è la metafora. Dietro la metafora quindi bisogna cercare i significati segreti, quelli veri. Fiorani coglie alcuni di questi significati nell’eterna vicenda dell’amore, nella nostalgia dell’assoluto così crudamente provata dalla nostra civiltà “sacrificata al niente”, nel sogno che si nutre di una fede non (solo) religiosa ma (anche) umana. Per molti aspetti, più che di contenuto che di stile, tornano in mente alcuni tratti d’Ungaretti, come i suoi molti fiumi; il grande poeta suggerisce anche l’ossificazione della parola, il cui sapore è vario e succoso nei versi di Fiorani, e il gusto d’un ritmo assai vario entro uno schema metrico apparentemente elementare; del resto “derivare” è trarre acqua da un ruscello, o rivus.

 La spiccata personalità letteraria di Fiorani brucia memorie e suggestioni con una tenacia di scrittura che si coglie perfino nelle più abbandonate derive. E i suoi versi piacciono.

(Walter Tortoreto, in La voce dell’Emigrante, Anno XXIII, n. 2, 2/96)

 Giunto stremato alla fine del secondo millennio, l’uomo occidentale si ritrova frammento tra i residui d’una storia divenuta mera finzione narrativa, all’interno della quale, se tutto è simbolo, la sostanza dell’essere consiste nella quieta appartenenza ad una realtà metaforica. La verità, subordinata finora alle concezioni elaborate dalle grandi ideologie, coincide, attualmente, con il sapere prodotto dall’egemonia logica tecnettronica, ultima mèta di un cammino che ha preferito la conoscenza razionale alla contemplazione serena del mondo, il “guardare” per possedere al “vedere” per cercare meraviglie. Questa logica assegna alla realtà la funzione essenziale di una propaganda consumistica e spettacolare, che diventa appetibile visione la quale realizza surrettiziamente la linguistica metafora della luce. “Vedi di vivere!”, si consiglia agli anoressici. Espressione che affida  al “vedere” valore imperativo, proponendolo come conditio sine qua non dell’esistere, quasi a significare che la vita non sarà possibile se non  come partecipazione allo spettacolo del reale. Alfredo Fiorani, scrittore spezzino residente a L’Aquila, giovane ma prolifico autore di romanzi, con al raccolta di poesie Derive, affida al testo una sottile vena di inquietudine e di mistero, alla speranza del riscatto. Consapevole che la “vista non aiuta a varcare” e che “indietro non si torna da dove si è partiti”, il poeta si affida alla deriva del dire, all’estraneazione e alla marginalità, alla denuncia dell’epidemia letale che destina ogni cosa all’omologazione. Egli intraprende un viaggio alla ricerca della propria infanzia e di una strada che segua, come la rotta di Compostella, il percorso stellare per raggiungere la Salvezza. L’invocazione alla Madre Notte, il ricordo di un amore, il bisogno dell’interlocutore “Supremo” sono gli elementi con i quali egli cerca di divorare il buio. La Rinascita coincide con il sorgere di un nuovo amore, che tutto cancella:

 

Se mi chiedi: <<Dov’eri?>>/Forse non c’ero/devo essere nato da poco/partorito dai tuoi occhi/dal tuo cuore/e mani e labbra/mio nuovo amore”. Quel che ci salva è dunque l’Amore:

Amore è credere senza vedere”.

(Massimo Pamio, in L’erba d’Arno, n. 63, Fucecchio, 1996)

 Derive, breve silloge poetica di Alfredo Fiorani, suddivisa in tre sezioni “Incredulo canto solitario”, Natale 1993”, “Ricordo di Itaca”, racchiude un’esperienza lirica che, lontana dal crogiolamento contemplativo di effusioni sentimentali e mistiche, è un miracolo di equilibrio.

 Da un capo all’altro, l’amore si oppone alla disperazione, la consapevolezza della precarietà umana non è timore per l’inevitabile dissoluzione e i versi si ripropongono, in una rivisitazione moderna,  palpitanti e personali:

 

Non provo nostalgia di riaverti/corolla aperta in fiore./Andrò altrove con ciò che rima/per altri profumi in amore”.

 Ogni immagine cade in un cerchio ristretto di vita sofferta, ogni frammento è impresso di bruciante intensità.

 Fiorani, uscendo dai rigidi schemi di una letteratura romanticizzante, cerca significati più profondi nella società e più autentici legami con se stesso, offrendoci anche poesie d’intensa spiritualità:

 

Tu ed io non ricadremo nel cieco solco del peccato./Ai tuoi figli hai parlato dei germogli/profumo di gigli a giugno un incanto/all’orrore che ti hanno guardato negli occhi/per quello che è stato l’errore/e non ripeterlo t’è divenuto un dovere:/crescerli in tutto ciò che assomigli alla pace”.

 Poesia, quindi, capace di esprimere gioia di esistere, ardente ricerca di comunicazione, di unione, di tenera contemplazione della natura, di docili visioni, di sogni sereni.

 Da qui quella scansione sentimentale, pregna di soluzioni espressive e stilistiche, che sprigiona una propria incisività ed originalità.

 Come di alcuni componimenti,dove impressioni, immagini, sapienza tecnica, confluiscono in esito di freschezza e di forza rappresentativa.

(Giuseppe Possa, in Eco Risveglio Ossolano, n. 1, 4 gennaio 1996)

 “Avete mai visto un uomo abbracciare un’arpa?”. Naturalmente no: poiché l’arpa come strumento che “si addice” esclusivamente alla femminilità non entra nell’immaginario maschile, che riterrebbe quell’esercizio una menomazione o un’alterazione.

 Alfredo Fiorani nel breve saggio La tela di Penelope. Il vissuto femminile e scrittura si muove su una linea originale di riflessioni, che nascono in diacronia e in sincronia avendo per centro l’universo muliebre come realtà e mistero. Sia ben inteso: l’uomo è chiamato più ad ammettere questa realtà che a comprenderla, poiché si trova affetto da quella miopia (naturale e storica) che gli fa immaginare la ricca complessità della vita sul registro della propria maschilità.

 Anche affascinato dalla donna, l’uomo è impedito ad abbracciarne l’arpa interiore, al di là dei sentimenti di attrazione e distribuzione di parti complementari. Ciò che da lui è temuto inconsciamente è infatti l’emulazione.

 L’autore dell’agile e limpido saggio vuol cogliere l’essenza femminile in molti esempi e lungo varie considerazioni volte a rendere alle donne un omaggio non formale, con uno stile colloquiale e narrativo.

 Fiorani sofferma la sua attenzione sul ruolo della donna “regina o ancella […], in seno alla società”.

 Partendo dall’Odissea, egli si chiede se da Itaca ad oggi sia cambiato l’atteggiamento nei riguardi della donna. La sua risposta è positiva nel senso dell’evoluzione generale della società, ma piena di riserve nella sostanza.

 In effetti alla donna è stato dato senza fatica un ruolo ben preciso: occuparsi della casa, dei figli, delle necessità quotidiane; in ciò si riassume normalmente il “dare”. Per contro è sempre toccato alla sola donna l’impegno di cercare la libera affermazione di se stessa.

 Così essa: “… ha tessuto la sua tela ordinando i fili, annodandoli, intrecciandoli…; ciò per conferire all’esistenza una composita trama che non umiliasse la sua intelligenza… e le consentisse di ritagliarsi uno spazio in cui affermasse la propria autonomia”.

 L’autore prende in esame donne come Margherite Duras, Virginia Woolf, Agatha Christie, Sof’ja Andreevena Beris, Maria Callas, Santa Teresa d’Avila, ed ancora Elisabetta I d’Inghilterra: donne che, a distanza di secoli, in periodi diversissimi si sono affermate per vigore d’animo e dominio del corpo per aver saputo lottare, “sopravvivere e far sopravvivere”.

 Ogni donna ha così “lavorato” per un’altra donna; per costruire cioè un po’ alla volta quell’edificio che va sotto il nome di “Dignità”. Essa si è dimostrata in grado di affinare la capacità di riflettere, speculare, ragionare, […]

 A questo punto interviene nel progetto l’osservazione primaria che sta veramente a cuore all’autore e orienta l’intero saggio: l’incontro cioè fra la donna e la scrittura. Con il ricorso alla scrittura (per lungo tempo ostacolato o spregiato), l’esistenza della donna ha assunto la funzione incredibile di strumento di liberazione. “L’esercizio della scrittura, della fantasia e del lavoro… ha tratto in salvo… molte donne dall’agitato oceano dell’oblio; soprattutto quando erano ricche… di senno e sensibilità”.

 Sono concetti che racchiudono l’essenza di questo saggio così serio ed intelligente. Lo scrittore ha evitato di percorrere i facili sentieri del plauso e della comprensione, per lasciarsi investire, senza forzature, dal parallelo della realtà femminile che, come l’altra faccia della luna, completa il significato della crescita dell’umanità.

(M. Rosa Ugento, in Punto di Vista, n. 14, 1997)

 Un volumetto tutto da godere, per l’acuta e felice verifica dell’universo femminile, che Fiorani esperisce per l’appunto attraverso la scrittura al “femminile”, tesoro sommerso durante i molti secoli di confino.

 Un’indagine oculata, ed emblematica del ruolo esercitato dalla donna, a fronte di un pregiudizio “di casta” che la confinava ai margini del territorio letterario (ella, abusiva, nel versante di “altrui” dominio).

 Un duello strenuo, contro l’agguerrita concorrenza.

 Sull’argomento, Fiorani, indugia, con citazioni illuminanti, tra cui a mio avviso particolarmente esplicative quelle riferite a Virginia Woolf: “Ahimè, una donna che si provi con la penna creatura davvero presuntuosa viene detta”, e ancora: “Mentre il tedioso governo di una casa servile è da alcuni ritenuta per noi la massima arte e impiego”.

 La Woolf mi pare pertanto il simbolo di una riscossa così sofferta, come e forse più di altre (Duras, De Beauvoir, Rasy, Austen, per citarne alcune fra le più rappresentative.

 Da qui Fiorani, affrontando il tema, si propone, più che un’analisi dei “valori”, citando autrici d’indubbia fama, di stigmatizzare quel processo socio/culturale che avrebbe condotto la donna dal “pascolo dei desideri” ad un “posto al sole”.

 L’universo femminile impugnava così il diritto all’“esposizione” di sé, senza comunque mai rinnegare, come di Proust, la vocazione al segreto più intimo: eterno “femminino” goethiano, mistero non mai svelato compiutamente (e qui sta la forza e la grandezza contrapposta al maschilismo).

 […] La donna, infatti, per combinazione genetica, detiene una visione globale di un “tutto”, setacciato ed assorbito con una sensibilità “materna”, fuoco sacro che infiamma; nel contempo essa, già oggetto e strumento, nell’ “altrove” difende le proprie rivendicazioni, fuori da pareti coatte.

 […] Alfredo Fiorani espone la sua serrata requisitoria con un fraseggio elegante; l’accusa alle disuguaglianze di principio non si fa invettiva; traendo spunto dal libro di Anna Ventura, Limite di un pomeriggio d’inverno, spazia sopra le righe, dando prova di attiva partecipazione all’aspetto culturale di tale letteratura, che ha visitato da amante scrupoloso e preparato; un tocco di ironia, di tanto in tanto, a condire un amore appassionato per la donna nella sua multiforme e mai anonima presenza.

(Mila Marini)

 Si tratta di un excursus saggistico, senza pretese di esaurire l’argomento, che Alfredo Fiorani, da lettore curioso ed onnivoro qual è, fa attraverso la narrativa e l’universo femminili, prendendo lo spunto dalla raccolta di racconti Limite di un pomeriggio d’inverno di Anna ventura, nel tentativo di prendere coscienza di quella specifica modalità di essere e di esistere della presenza femminile.

 Ciò significa che il saggio, pur nei limiti culturali che gli sono propri, è stato organizzato sulla base d’un sistema di impressioni suggerito dalla nozione di molteplici opere, prendendo atto della omogeneità delle visioni del mondo che le sostengono, le quali, delineando una cartografia di coincidenze ed affinità, offrono un attendibile sguardo d’insieme che è possibile immaginare come tipico della natura femminile.

 Il saggio si presenta così come una sorta di gioco di echi e corrispondenze, che mette l’accento non tanto sul romanzo al femminile quanto sul femminile tout-court; e non per giungere ad una definizione di questa particolare realtà (operazione improbabile quanto quella di definire lo stesso romanzo), ma per cercare di coglierla da vicino, attraverso i modi con cui essa si manifesta, a cominciare da certi temi letterari sempre ricorrenti: di far parlare insomma il femminile in prima persona.

 Pur nella concitazione e nella inevitabile abbondanza delle citazioni, bisogna dire che Fiorani se la cava benissimo, conscio, per di più, con Gorge Elliot che la donna resta, in ogni caso, an-inexhaustible subject of study. C’è da chiedersi però se, con questo tipo di approccio, che impugna le armi della psicocritica o della sociocritica, non si corre il rischio d’irrigidire il romanzo al femminile in uno stereotipo, di mutilare, con un gesto riduttivo e definitorio, la sua stessa specificità e porsi contro quello che è il suo stesso spirito.

 Del resto, se, come ha scritto la stessa Woolf in The art of writing, evitando ogni dogmatismo, le grandi opere devono rispondere esclusivamente alle esigenze della modernità e a quelle di una irriducibile originalità, che senso ha distinguere il “sesso” d’un romanzo? E non è ancora la Woolf a sospendere ogni giudizio, dichiarando in apertura a Room of one’s own, che preferiva “venire meno al proprio dovere” e lasciare “irrisolto” il problema “le donne e il romanzo”, dando così un altro orientamento al proprio lavoro? E che può escludere inoltre che tutta la serie di valori, come pure tutte le tematiche presenti nel romanzo femminile, non possono essere rintracciati e utilmente studiati all’interno di romanzi al “maschile”, di romanzi, per intenderci, scritti da uomini?

 Ci pare che, senza arrivare a sostenere, con Simone de Beauvoir, che “il  problema femminile è sempre stato un problema maschile” (cosa che finirebbe col negare ogni esistenza al romanzo femminile, ridotto a semplice variante di quello maschile, e ciò non è vero), si possa condividere il pensiero di Coldrige (fatto proprio dalla Woolf in Orlando) secondo il quale sempre “un grande spirito è androgino”. A meno che, con la consacrazione del romanzo al femminile non si voglia codificare la nascita di un nuovo genere letterario.

(Pietro Civitareale)

 Un romanzo intenso e coinvolgente quello di Alfredo Fiorani qui alla sua seconda opera di narrativa. La storia è quella di una coppia in piena crisi: Giacomo e Alma Valent hanno perso l’armonia che un tempo contrassegnava la loro vita a due e si ritrovano coinvolti in tourbillon di incomprensioni e contrasti che minano seriamente le basi del loro apparentemente solidissimo matrimonio. Questa è la loro situazione quando in casa loro arriva come ospite l’egiziano Sayyed A. Fayyed che aveva fatto da guida alla loro comitiva durante un bel viaggio che la coppia aveva intrapreso in Egitto. Ma la tensione tra i sue non accenna ad allentarsi malgrado l’arrivo dell’amico che si ritrova ad essere loro ospite alla vigilia di una vacanza in montagna alla quale parteciperà. Giacomo, che sta lavorando ad un saggio su Andy Warhol, raggiungerà gli amici appena terminata l’opera che lo riconduce come per magia ai momenti più belli della sua giovinezza. E’ proprio attraverso questi ricordi che lo riportano indietro nel tempo che il protagonista della storia riuscirà a comprendere quanto siano state deleterie le sue ambizioni in relazione al suo rapporto con Alma. In montagna, intanto, il principale tema di conversazione è proprio il precedente viaggio in Egitto che ha regalato molte suggestioni, ma che fa anche sospettare che, laggiù, sia accaduto qualcosa di grave…

(Costanza Falanga, in Roma, 11 luglio 1998)

 Vincitore del Premio letterario “Città di Cimatile”, L’orizzonte di Cheope, di Alfredo Fiorani, è un romanzo estremamente godibile, che s’impone per un stile chiaro ed essenziale, degno di uno scrittore americano minimalista. Carter diceva che “Gli scrittori non hanno bisogno di ricorrere a trucchetti o trovatine”.

 La lettura, quanto mai scorrevole, non è frenata da intoppi dell’intreccio o da “vuoti” nello sviluppo dell’azione: sembra quasi che l’autore si sia compiaciuto nel cesellare pagine all’interno delle quali, come in una casa estremamente ordinata e pulita, tutto è al suo posto, e nessun particolare sfugge alla funzionalità dell’insieme.

 I personaggi si muovono con tale circospezione e credibilità da produrre situazioni di vero e proprio “iperrealismo” – sono rispettate le unità di spazio e di tempo aristoteliche!

 I gesti e i discorsi quotidiani sono proiettati in primo piano, simboli dell’orizontalità dell’esistenza, ovvero nel rinchiudersi nel computo ordinario di ore e di giorni che si ripetono sempre uguali. Sennonché, come nel migliore dei gialli, una sottile inquietudine anima alcuni personaggi ed un finale denso di sorprese ci dimostrano come, in verità, la piattezza sia solo un modo di vedere le cose e, nella fattispecie, un espediente di cui Fiorani si è servito per “normalizzare” gli angosciosi problemi che sia gitano nella coscienza umana.

 L’autore riesce così a dare impeto alla risoluzione etica, al progetto “moralistico” che si nasconde dietro la filigrana della storia.

 In definitiva, L’orizzonte di Cheope è una sorta di favola allegorica, di romanzo a tesi: se ogni nostra certezza viene sempre messa in dubbio, l’altruismo dovrebbe costituire, insieme con l’amore, il fulcro di ciascuna azione, per risolvere positivamente le difficoltà. Perseguire questo fine, però, comporta scelte coraggiose, significa prendere decisioni ritenute dai più come “svantaggiose”, perché il mondo dell’economia, prendendo il sopravvento anche sulla sfera del privato, finisce per distruggere irrimediabilmente le norme morali individuali e, dunque, mina i rapporti sociali che vengono assimilati alla logica degli scambi commerciali e del profitto.

(Massimo Pamio, in Abruzzo AZ60, n. 8/1998)

 Il recente romanzo di Alfredo Fiorani, L’orizzonte di Cheope, uscito presso l’editore Alfredo Guida di Napoli, racchiude due temi narrativi che si svolgono parallelamente, e che alla fine trovano un punto di convergenza risolutivo. Il primo tema del racconto è quello di una crisi matrimoniale dei due protagonisti, Giacomo e Alma, crisi le cui origini vanno ricercate nel carattere vivace di lei, che cerca nel matrimonio una risposta alle sue esigenze d’affetto e di dialogo, e nell’atteggiamento egoistico di lui, preso nell’ingranaggio di un lavoro ambizioso, che lo rende irritabile e distratto. I due sono inseriti in una comitiva di amici, di cui è ospite un giovane egiziano, Sayyed, che fu loro guida in precedente viaggio in Egitto. La figura di Sayyed mi sembra tra le più riuscite del romanzo, per una sua dimensione misteriosa, che ne fa un personaggio originale, imprevedibile, dotato di fascino orientale ma anche di un che di minaccioso e pericoloso che trapela dal suo comportamento. Sayyed, infatti, cela un segreto, che è il tradimento da lui perpetrato, nel viaggio in Oriente, ai danni degli ingenui turisti che si erano affidati a lui: che sono, appunto, il gruppo di amici di cui, al momento, è ospite. Questi, tuttavia, conoscono l’inganno, e tramano una vendetta. Attirato in luogo di montagna deserto, durante una battuta di caccia al cervo, l’egiziano verrà abbandonato nel gelo e nella solitudine: una sentenza di morte che si compirebbe, se i due sposi in crisi, Diacono ed Alma, venuti a conoscenza del complotto, non accorressero a salvare il condannato.

 Saranno ricompensati: l’unità di intenti che riscoprono nell’aiutare l’egiziano farà sì che ritrovino il senso della loro unione.

 Questa la trama, che si svolge agilmente, con dialoghi vivaci, così da appassionare il lettore.

 Ho detto già altre volte che l’aspetto più pregevole della scrittura di Fiorani, sia nella veste di romanziere che in quella di saggista, è nella capacità di creare atmosfere suggestive, artisticamente riuscite. In questo romanzo due sono gli ambienti che vengono magistralmente evocati: l’Oriente e la montagna. Al primo sono dedicate alcune pagine che descrivono la vita nel deserto, le sue leggende, le sabbie, le variazioni dei colori, e il vento che si leva all’improvviso come un nemico.

 La montagna, invece, è vista sia nei suoi interni ovattati, allietati dai bei fuochi accesi, dai cibi, dalle lane colorate, sia negli esterni innevati, per culminare nella descrizione efficacissima della caccia al cervo, resa epica anche dal suo simbolismo di caccia all’uomo. Compare qua e là, evocata da Giacomo, che è uno studioso di storia dell’arte, la figura di Andy Warhol, col suo fascino strano: un fantasma con la parrucca bionda, quale tutti abbiamo imparato a riconoscerlo. E con Warhol c’è l’eco del clima che lo circondava: tragico e snob, disperato e irridente.

 Il libro, forse, va letto due volte: una per comprenderne e delinearne la trama, un’altra più gratificante per gustarne le atmosfere. Chi ha conoscenza delle altre opere di Fiorani sa già, forse, questo esercizio ad una lettura difficile, che certamente si compensa, alla fine col fascino di luoghi visti in un ottica artisticamente felice, di personaggi immersi in un mondo illuminato dalla grazia della fantasia.

(Anna Ventura, in La musa errante, Bastogi Editrice Italiana, Foggia, 2001)

 […] La memoria impura è il suo terzo romanzo. Il titolo, che lascia indovinare un ammiccamento all’impura aria pasoliniana, compendia efficacemente il senso dell’opera. Un’opera cupa, intrisa di disperazione, che mira ad abbinare la componente drammatica alla tragica. La storia è quella di Alvaro, un pedofilo ed assassino, che dopo venticinque anni di reclusione si accinge a tornare in libertà. Ancora chiuso in cella, nei giorni immediatamente precedenti il rilascio, continua a svolgere quella ricognizione sui propri trascorsi avviata tempo prima, riconoscendosi definitivamente incapace di affrontare il rientro nella quotidianità.

 Troppi i timori, troppo grande il senso di diversità. Troppo pesante il suo angustiarsi per dimenticare, per abbandonare quella parte di sé che con paura sente viva, minacciosamente latente, fiaccata ma non estirpata dalla pur lunga pena. Consapevole delle bestialità commesse, quelle atrocità lo ossessionano, costringendolo ad un fitto monologo interiore: la sua mente, con la memoria impura che l’attanaglia, diviene il luogo di uno stillicidio di riflessioni sempre più insostenibili, d’un travaglio intimo che contrappone due forse uguali e contrarie.

 L’ininterrotto discorso con se stesso diventa un dialogo tra due parti di un sola identità confliggenti eppure complementari (“Dove leggere la verità su di me?”, p.44): l’una, del passato, brutale e spaventosa; l’altra, del presente, sconcertata, intimorita, inibita dalla prima, e affannosamente tesa a voler riconoscere come raggiunta una redenzione di fatto solo presunta e tutt’altro che ottenuta. La dialettica derivante dalla coabitazione di bene e male, che ripropone – forse un po’ presuntuosamente – il contrasto jekylliano, viene progressivamente accresciuta attraverso l’esasperazione della condizione del protagonista, ottenuta con un’intensificazione emotiva della narrazione in prima persona e, inoltre, con una serie di recuperi analettici inseriti nel contesto narrativo, anche se non sempre in modo efficace.

 […]

 Il conflitto che in lui si svolge è dunque una crisi che abbraccia sia il piano esistenziale che quello etico-morale, e a conclamarla, ad amplificarla, concorre un progressivo scemare di speranza. L’insieme si traduce in una circolarità soffocante, frenata, quantunque blandamente, dall’affioramento di tre figure, ciascuna delle quali partecipe, seppure in modo differente, al passato del protagonista e simbolicamente rappresentativa d’una sua stagione di vita e d’un valore umano: il vecchio Bartolomeo (infanzia e amicizia), l’ispettore Krumm (pentimento e giustizia). Padre Esilio (riscatto e fede). I recuperi analettici connessi con i tre personaggi […] consentono al lettore di discostarsi dall’incalzante progressione di quanto raccontato dall’io narrante e di ricostruirne parte del percorso di vita, soprattutto per quanto attiene ai disagi e alle sofferenze dell’infanzia.

 […]

 L’impossibilità di proseguire la propria esistenza (affermandola) sapendo d’aver interrotto quella altrui (negandola) causa una dicotomia insanabile, e l’intento che unilateralmente tende ad un rinnovamento della vita s’infrange contro la congenita bipolarità intrinseca al protagonista. Fiorani ha dunque tentato di rappresentare quella che potrebbe dirsi la genesi d’una fine, facendo vertere la vicenda di Alvaro intorno a questa sorta di ossimoro. E’ da dire che, per quanto l’intuizione sia di per sé piuttosto interessante, a conti fatti non pare poter giustificare da sola tutto il romanzo. Romanzo che, peraltro, pur se complessivamente accettabile, non è immune da altri difetti: da sottolineare lo stile dell’Autore, caratterizzato da periodi interrotti bruscamente, iterazioni e costruzioni anaforiche che, a tratti, rendono la scrittura macchinosa, appesantita qua e là da pleonasmi e da pagine non indispensabili: in particolare, la scelta di spezzare questo o quel periodo, nel tentativo d’affidare al lettore il compito d’attribuire significato a frasi concepite con un intento designificante, non convince.

 Altro problema risiede nella definizione dei personaggi, che se tecnicamente risultano più o meno funzionali (per numero, per collocazione), non riescono a trasmettere quanto in realtà dovrebbero. Alvaro, in particolare, rimane freddo, distante, nonostante il fluviale discorso interiore che porta avanti e con cui investe il lettore; gli altri, pur nella loro sostanziale sensatezza narratologica, restano figure poco definite, poco espressive, più simili a tappe obbligate di un percorso che a entità autonome e letterariamente significative.

(Simone Gambacorta, in Sìlarus, Anno XLIII, n. 226, Mar/Apr. 2003)

 Dopo L’incantatrice orientale (1994) e L’orizzonte di Cheope (1996), Alfredo Fiorani […] con La memoria impura supera brillantemente la sua terza prova come romanziere e si afferma, ormai, come un certezza sicura della giovane narrativa italiana sorta sul declinare del Novecento. […]

 La memoria impura è davvero un romanzo nuovo, che s’impone nella produzione corrente sia per il contenuto che per lo stile. Lo riconosce, implicitamente, lo stesso Giampaolo Rugarli nella sua prefazione, tra l’altro, scrive che l’opera di Fiorani “non concede nulla alle convenzioni romanzesche”, quelle almeno fissate dalla tradizione ottocentesca, che prevedevano al centro della narrazione un fatto immaginario di vita familiare o sociale, in una trama di vicende concatenate tra loro e coinvolgenti vari personaggi, principali o secondari.

 Qui la narrazione si concentra tutta sul ritratto interiore di un solo personaggio, un certo Alvaro, il quale sta per tornare libero dopo venticinque anni di carcere e, anziché proiettarsi nel futuro, si sente come schiacciato dal macigno del passato, vittima com’è della “bestia” che avverte ancora viva dentro di sé.

 Alvaro è quel che si dice un “serial killer”: ha violentato e strangolato molte bambine, in preda ad una follia altrettanto lucida quanto incontenibile, di cui egli stesso vorrebbe darsi ragione, ma non vi riesce. Illuminanti, a tale proposito,  queste sue parole: “Ho lastricato parte della mia vita di lapidi e di ghiaccio. Conservo ancora addosso un fetore di morte. Ho strappato fiori dalla terra per il mio unico godimento. Non rifioriranno più. Nessuno, nessuno, nessuno mai più”. E continua subito dopo: “Se riuscissi a voltare le spalle al passato! Ciò che è stato è stato. Ma il futuro… Fossi un altro. Mi fossi trasformato in un altro, in questi anni. Dentro, voglio dire”.

 Per venticinque anni Alvaro non ha fatto che interrogarsi, guardarsi dentro, per identificare e capire la “bestia” che porta con sé. Si è avventurato nel groviglio della sua “memoria impura”, divenuta la “punizione più atroce”, cercando di farvi luce con l’aiuto delle sagge parole dell’ispettore Krumm e delle fervide riflessioni di padre Esilio, intese a fargli ritrovare la fede in Dio e in se stesso. Ha avuto, in certi momenti, anche l’illusione di liberarsi dal mostro che lo accompagna fin dalla lontana adolescenza, ma purtroppo sembra che il male abbia in lui delle radici inestirpabili. Per colpa di chi?

 La risposta forse va rintracciata nella sua infanzia infelice e nella sua giovinezza irrequieta: genitori litigiosi e separati, furfantelli, problemi con la famiglia affidataria, una vita sempre più sbandata fino alla catena delittuosa, all’arresto, alla condanna, alla reclusione. Ripercorrendo a ritroso le strade della memoria, pare che egli possa risalire alle cause del suo traviamento, ma gli resta il dubbio del “perché” fondamentale: perché proprio a lui e non ad altri, quella voglia irresistibile di fare del male al prossimo e, addirittura, di goderne in segreto; quale la ragione prima di tanta perversione.

 Un mistero, questo, davvero un mistero insondabile per la mente umana. Cosa cioè inspiegabile, al punto che vi si adombra la cecità di un destino maledetto, ove si pensi che, appena uscito dal carcere, la sola vista di una ragazzina che gli accosta sulla panchina di un giardino pubblico, nonostante il peso della tragica storia ancora viva nella memoria, rischia di fargli riesplodere tutta la voglia del male che dentro gli brucia. Per fortuna, assalito da una improvvisa paura del dolore che è ancora capace d’infliggere, finisce per uccidersi buttandosi da uno scoglio sul mare.

 Questo, in estrema sintesi, il contenuto del romanzo. La vicenda, come ognuno può comprendere, si svolge tutta nei subbugli mentali del protagonista: i ricordi, i richiami, i flash-back, che affiorano qua e là con ritmo incalzante, offrono solo spunti per approfondirne le ragioni della macerazione interiore, al punto che – sull’esempio del capolavoro di Italo Svevo – il libro si sarebbe anche potuto intitolare La coscienza di Alvaro.

 A ben riflettere, dunque, si tratta di un romanzo introspettivo riconducibile – sia pure in modo molto approssimativo – alla lezione decadente del primo Novecento: costruito freudianamente con una rigorosa analisi dei rapporti tra inconscio e subconscio, tenta di far luce tra gli oscuri meandri di un’esistenza lacerata dal male visto come una forza cieca, capace di travolgere le barriere d’ogni buona volontà.

 Tema interessantissimo, com’è noto, per gli studi di psicanalisi, ma che Alfredo Fiorani affronta dal versante puramente letterario, con uno stile forbito, a tratti elegante e raffinato, più spesso aderente al monologo doloroso, sincopato, frammentario di un pover’uomo che stenta a trovare le parole giuste per definire il senso della propria vita.

(Vittoriano Esposito, in Oggi e Domani, Anno XXIX, n. 12, 12/2001)

 Con La memoria impura Alfredo Fiorani ritorna al romanzo dopo L’incantatrice orientale (1994) e L’orizzonte di Cheope (1998), mostrando una vocazione narrativa che va al di là dello stesso genere letterario, nel senso che si offre come un luogo di metaforizzazione dell’esistenza e delle sue implicazioni sociologiche, etiche, religiose.

 La memoria impura è la storia di un uomo che ha ucciso, dopo averle violentate, una piccola folla di bambine. Sul punto di essere scarcerato dopo una condanna a venticinque anni, ripercorre con la memoria tutte le tappe della sua storia personale nell’intento di fare chiarezza dentro di sé in vista del suo rientro nella società civile. Ma questo esame retrospettivo, questa angosciosa e per certi versi spietata autoriflessione, non lo porta da nessuna parte: lo lascia con gli stessi dubbi, gli stessi timori, le stesse tentazioni, la stessa inerzia morale di cui è stata condita la sua esistenza, per cui, una volta fuori dal carcere, egli non soltanto non ha maturato nessun proposito di riscatto, ma è riassalito dalla stessa febbre di violenza che ne aveva fatto un criminale; convinto, pertanto, che per lui non c’è alcuna speranza di salvezza, decide di porre fine ai propri giorni. E’ una forma di redenzione (ossia il sacrificio di sé con cancellazione del male perpetrato agli altri) oppure, più verosimilmente, egli non se l’è sentita di confrontarsi con una società ostile e quindi incapace di offrirgli una qualsiasi forma di redenzione? In altre parole, il protagonista della storia è un eroe che sacrifica se stesso per il bene degli altri o un vigliacco che rinuncia ad affrontare le difficoltà dell’esistenza? Ed ancora: è la vittima di un’educazione famigliare e sociale o un caso patologico irrimediabile?

 Di primo acchito, La memoria impura sembrerebbe la registrazione clinica di uno dei tanti delitti a sfondo sessuale  di cui sono piene le cronache del nostro tempo; sennonché, ad una più profonda lettura, ci si accorge che la storia che Alfredo Fiorani ci racconta è solo una metafora per denunciare, da un lato, le carenze di una società incapace di offrire un’opportunità di recupero a che, per una ragione o per l’altra, si trova a dover fare i conti con la giustizia e, dall’altro, per suggerirci che il male non è soggettivamente una scelta sbagliata o un giudizio sbagliato: non ha, come dire, un’ontogenesi storica, ma un’ontogenesi metastorica con implicazioni fortemente religiose. In altri termini, Alvaro, il protagonista del romanzo, non è tanto un criminale nel senso strettamente giuridico del termine, quanto un peccatore, un predestinato alla dannazione esistenziale, e, come tale, tende pertanto ad una impossibile redenzione. Dal male nessuno è immune afferma l’autore (p.44) e le domande non sono la salvezza dell’uomo giacché non esistono risposte sulla verità vera dell’esistenza. Da qualche parte tutto già esiste. Non si inventa nulla (p.66). La sola risposta è l’amore, la fede, la capacità di mettere in ascolto, in attesa della luce, perché solo la luce ha la certezza della sua venuta.

 In tutto il libro infatti aleggia una sorta di concezione deterministica: la gioia dell’uno bilanciata dal dolore dell’altro, il bene dal male, la fortuna dalla sfortuna, come se la realtà delle cose fosse un ambito chiuso, dove tutto è già stato deciso e stabilito dal principio dei tempi. Sotto questo aspetto, il romanzo si offre come un viaggio attraverso il mistero dell’esistenza, attraverso le zone oscure dell’anima dell’uomo, attraverso quei territori insondabili dell’inconscio, in cui tutto si confonde, gli opposti si azzerano e identità si contraddicono. Allora anche il dubbio, in mancanza dall’altro, diventa la sola certezza possibile e la sofferenza l’unica via che conduce alla conoscenza profonda delle cose, al centro segreto di esse (p.89). Da qui l’invito a riflettere, a riflettere bene prima di condannare, a capire, a mettersi nei panni del colpevole, anche perché in ognuno di noi c’è una memoria impura di errori, di omissioni, di egoismi, di indifferenza, di complicità (insomma di mali commessi anche senza volerlo); una memoria che ci accusa, che ci dice che il peccato non è mai completamente individuale, ma chiama in causa la responsabilità di tutti.

(Pietro Civitareale, in Rivista Abruzzese, Anno LVI, n.1, Gen/Mar 2003)