SUMMER-END

Premio Città di Venezia 1991

 

Postfazione di Giovanni Cristini

La silloge di Alfio Inserra, Summer-end (Fine estate) è uno straziante ed esaltante poemetto d'amore. Esso si presenta apparentemente come l'elegia della fine di un amore che si accompagna alla fine dell'estate (la quale assume qui il valore di una infuocata metafora) ma in realtà si tratta di un canto appassionato in cui l'amore domina sovrano, rivisitato nella memoria con una tale forza d'immaginazione che non solo lo rende vivo e attuale ma lo ingigantisce sino a proiettarlo in una dimensione cosmica e celeste, nuovo mito nel mitico cielo delle costellazioni.
Il poemetto - che alterna con grande scaltrezza compositiva frammenti in versi e frammenti in prosa lirica - si apre con l'addio all'amata che dalla calda estate siciliana se ne è tornata al Nord, nel suo freddo paese lontano, lasciando un vuoto nel cuore del poeta ma anche, più passionalmente e fisicamente, un freddo languore nel suo corpo.

A questo punto scatta nella memoria il ricordo e il poeta rivisita i luoghi in cui ha vissuto con 1'amata i suoi più intensi momenti di passione: sale sul Monte Pellegrino, scende lungo la riva del mare, ripercorre i sentieri che conducono verso i segreti rifugi d'amore, e ovunque la cara immagine gli appare, lo consola e lo strazia con la sua ossessiva presenza. Finché, in una notte insonne, egli scende in giardino, alza gli occhi alle stelle e al confronto con l'infinta lontananza delle Galassie la lontananza dell'amata gli sembra annullarsi per magia d'amore - magia della poesia! - e l'unione finalmente si consuma in un fantastico viaggio a due tra le Costellazioni: "sdraiati sulla Via Lattea", "con un pizzico di polvere / cosmica sul cuscino". E qui il poeta, "Centauro di fiamma" disfrena il suo sempre più veloce galoppo dentro il cielo luminoso dell'amata, quasi mutati entrambi - come nelle metamorfosi di Ovidio - in una ardente, notturna costellazione.
Un poemetto straordinario, in cui la presenza-assenza della donna amata diviene oggetto di tormento e di passione e in cui il fuoco di Eros si accende e risplende nella fiamma della poesia.

   

POESIE IN LINGUA

   

pietra filosofale

   

Questo forse noi siamo: tutti i nostri
ricordi, anima e cuore,
entro un'attesa
inesauribile. Oggi è un io di tempo
e la vita
lo spazio in cui improvvisa.
Le Parche dentro noi, svolgiamo un filo
di speranze e paure
intorno al Sole.

 

Io, così, ho cominciato il mio viaggio
dentro questa città
senza confini
e, da bambino, ho imparato le cose
e le parole e monumenti e strade.
Fatti e persone
come gioie e dolori
restavano per sempre imprigionati
nei bit della mente
da evocare,
di volta in volta,
come in un computer.

 

Mia madre raccontava le sue fiabe
intanto e tutto intorno
sembrava bello e grande.
E poi venne l'amore. In sintonia
con maggio rifiorire,
dentro il sangue la smania
e nei pensieri.
In riva al mare attendere
le onde
infinite che approdano
e inghiottirle
e poi partire in sogno,
gioco ai quattro cantoni, per toccare
gli angoli più remoti della terra.

Ma il trascorrere giorni e notti
accumula
un peso di domande spesso vane.
Essere? Formidabile mistero
doppio,
nel mio profondo e nel profondo
cosmo stellare. E Dio?
Pulsante enigma,
come io per me,
sempre mai comprensivo.

 

Questo forse noi siamo: passeggeri
Attesi alle tabelle degli orari.
Steli fragili, in cerca della luce,
in una troppo effimera
stagione,
indifesi alle falci delle guerre
cataclismi e contagi.
Sostentiamo
la nostra fame di "non solo pane"
con amuleti, pozioni e preghiere,
cercando ancora
la magica pietra
- vincita, eredità, caso, fortuna -
che ci trasmuti tutto il mondo
in oro.

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Sinceramente penso

che la vita

parta da un primo rischio (necessario): nascere.

Poi si sta come un implume

In equilibrio sull’orlo del nido.

E ci vuole fortuna

e tanto amore

perché possano crescere le ali;

poi si vola ed il cielo è tutto nostro.

Qui, nella mia Sicilia,

sono tanti

i giorni di sereno, inverno e estate.

Li passo, tutti, a divorare il sole.

 

Personalmente credo

che si arrivi

prima o poi a un compromesso con la sorte.

Le ore fanno come le altalene,

avanti e indietro, sospesi a mezz’aria

e ci vogliono fate e santi e amici,

per atterrare

 e sostare, ogni tanto.

Io, che sono poeta, ho molte carte

per vincere,

talvolta anche barando.

 

Sostanzialmente temo

che, a rifletterci,

noi siamo il bene e il male, solo noi.

Zoroastro e Zaratustra: tutte frottole. 

La giovinezza è bene, innamorarsi,

sentirsi vivi, combattere, vincere.

Male è la solitudine

ed ogni altro

cancro che ti divori.  E’ questo pus

 d’Amleto che attecchisce nel cervello.

Spesso mi sembra d’essere uno shaker:

buono e cattivo a mescolarsi

dentro.

 

Profondamente sento

il bello e il brutto

due modi di convincersi, due abiti

da indossare o dismettere.  Cantare

a piena gola è bello.  Bello intingere

le dita dentro il miele dei ricordi

e leccarsele, piano. Brutto fingere

quando non serve o non basta; deludersi

e non aver progetti.

Io spesso sono

il bimbo che, svegliandosi, ricorda

ciò che può raccontare sorridendo

gli incubi no,

che poi si mette a piangere.

 

Essenzialmente temo

che sia il corpo

il meno vulnerabile. La mente

lo è molto di più. Questo universo

di neuroni e prodigi, sempre al limite

del collasso.  Mirabile

drago alato che spara mille bocche

di fuoco.  Spesso batte

la coda e s’alza in volo.  Spesso invece

precipita e s’ingrotta. Si. Sorrido

alle lusinghe dei sensi, mi preoccupa

più quest’Io che non parla.

 

E’ finalmente spero

che le stelle

continuino a confondermi brillando,

quando le incontro di notte, che il cuore

mi si ostini a scommettere su un uomo

che non faccia più guerre.

E, nel deserto,

trovi ancora qualche oasi, fino a quando

lasci la carovana e mi addormenti

per sempre,

imprigionato in un bel sogno.