La silloge di Alfio
Inserra, Summer-end (Fine estate) è uno straziante ed esaltante poemetto
d'amore. Esso si presenta apparentemente come l'elegia della fine di un amore
che si accompagna alla fine dell'estate (la quale assume qui il valore di una
infuocata metafora) ma in realtà si tratta di un canto appassionato in cui
l'amore domina sovrano, rivisitato nella memoria con una tale forza
d'immaginazione che non solo lo rende vivo e attuale ma lo ingigantisce sino a
proiettarlo in una dimensione cosmica e celeste, nuovo mito nel mitico cielo
delle costellazioni.
A questo punto
scatta nella memoria il ricordo e il poeta rivisita i luoghi in cui ha vissuto
con 1'amata i suoi più intensi momenti di passione: sale sul Monte Pellegrino,
scende lungo la riva del mare, ripercorre i sentieri che conducono verso i
segreti rifugi d'amore, e ovunque la cara immagine gli appare, lo consola e lo
strazia con la sua ossessiva presenza. Finché, in una notte insonne, egli
scende in giardino, alza gli occhi alle stelle e al confronto con l'infinta
lontananza delle Galassie la lontananza dell'amata gli sembra annullarsi per
magia d'amore - magia della poesia! - e l'unione finalmente si consuma in un
fantastico viaggio a due tra le Costellazioni: "sdraiati sulla Via
Lattea", "con un pizzico di polvere / cosmica sul cuscino". E
qui il poeta, "Centauro di fiamma" disfrena il suo sempre più veloce
galoppo dentro il cielo luminoso dell'amata, quasi mutati entrambi - come nelle
metamorfosi di Ovidio - in una ardente, notturna costellazione. |
POESIE IN LINGUA |
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pietra filosofale |
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Questo forse noi siamo: tutti i nostri
Io, così, ho cominciato il mio viaggio
Mia madre raccontava le sue fiabe |
Ma il trascorrere giorni e notti
Questo forse noi siamo: passeggeri |
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confiteor |
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Sinceramente penso che la vita parta da un primo rischio (necessario): nascere. Poi si sta come un implume In equilibrio sull’orlo del nido. E ci vuole fortuna e tanto amore perché possano crescere le ali; poi si vola ed il cielo è tutto nostro. Qui, nella mia Sicilia, sono tanti i giorni di sereno, inverno e estate. Li passo, tutti, a divorare il sole.
Personalmente credo che si arrivi prima o poi a un compromesso con la sorte. Le ore fanno come le altalene, avanti e indietro, sospesi a mezz’aria e ci vogliono fate e santi e amici, per atterrare e sostare, ogni tanto. Io, che sono poeta, ho molte carte per vincere, talvolta anche barando.
Sostanzialmente temo che, a rifletterci, noi siamo il bene e il male, solo noi. Zoroastro e Zaratustra: tutte frottole. La giovinezza è bene, innamorarsi, sentirsi vivi, combattere, vincere. Male è la solitudine ed ogni altro cancro che ti divori. E’ questo pus d’Amleto che attecchisce nel cervello. Spesso mi sembra d’essere uno shaker: buono e cattivo a mescolarsi dentro.
Profondamente sento il bello e il brutto due modi di convincersi, due abiti da indossare o dismettere. Cantare a piena gola è bello. Bello intingere le dita dentro il miele dei ricordi e leccarsele, piano. Brutto fingere quando non serve o non basta; deludersi e non aver progetti. Io spesso sono il bimbo che, svegliandosi, ricorda ciò che può raccontare sorridendo gli incubi no, che poi si mette a piangere.
Essenzialmente temo che sia il corpo il meno vulnerabile. La mente lo è molto di più. Questo universo di neuroni e prodigi, sempre al limite del collasso. Mirabile drago alato che spara mille bocche di fuoco. Spesso batte la coda e s’alza in volo. Spesso invece precipita e s’ingrotta. Si. Sorrido alle lusinghe dei sensi, mi preoccupa più quest’Io che non parla.
E’ finalmente spero che le stelle continuino a confondermi brillando, quando le incontro di notte, che il cuore mi si ostini a scommettere su un uomo che non faccia più guerre. E, nel deserto, trovi ancora qualche oasi, fino a quando lasci la carovana e mi addormenti per sempre, imprigionato in un bel sogno.
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