ALESSANDRO

TETI

TORRICELLA PELIGNA NEGLI ANNI 50 & 60

 

 

 

 

MESTIERI IN DISUSO

LO STRACCIVENDOLO (Lu cingiàre)
Andava in giro a raccattare stracci, soprattutto di lana, che metteva in un grosso sacco portato a tracolla. In un braccio portàva un capiente canestro con gli oggetti più svariati: piatti, bicchieri, pettini, quadri, spremilimoni, posate, fiori di plastica profumati (si fa per dire) ecc.
Si trattava di oggetti di scarso valore per povera gente che costituiva però la stragrande maggioranza della popolazione, che faticosamente, ma con dignità affrontava la vita quotidiana. A1 grido di "cingiàre ué" tutte le donne si affacciavano, prendevano i loro stracci da barattare e iniziavano le lunghe trattative per farsi dare più roba possibile.

IL CASTRAMAIALI (Lu sanapurcièll)
Lo si vedeva apparire di buon mattino a bordo della sua scoppiettante Motoguzzi, proveniente da Roccascalegna, con tanto di occhialini per ripararsi dal polverone delle strade. Dopo aver salutato cortesemente i clienti, apriva la sua valigetta con i pochi attrezzi: bisturi, tintura di iodio, cotone, ago e filo. All'aperto e alla presenza di un discreto pubblico, composto per lo più da bambini curiosi, con una calma disarmante, dava inizio all'operazione, che ahimè doveva essere molto dolorosa per il povero maialino, il quale veniva castrato senza la benchè minima anestesia, affinchè potesse ingrassare di più. Per fortuna l'operatore era molto abile nel suo mestiere e quindi il supplizio durava poco. Dopo aver cucito e disinfettato la ferita, dava una pacca affettuosa alla bestiola, augurando ai proprietari: "Pozza fa du qundàle".

L'OMBRELLAIO (Lu 'mbrellàre)
Veniva a scadenza fissa per riparare gli ombrelli rotti, non solo, ma anche i piatti e le "spase" (zuppiere); eh già, in tempi di vacche magre si faceva anche questo; naturalmente se un piatto finiva in mille pezzi, bisognava buttarlo via, ma se si spaccava a metà o era semplicemente “segnato”,si attendeva l'arrivo dell'ombrellaio, il quale, mediante un trapano a mano, operava dei buchi e con del filo di ferro e un po' di colla rimetteva insieme i cocci. Per il pagamento, si accontentava anche di beni in natura uova, fagioli, ceci...o addirittura di una frugale colazione.


LO SPACCALEGNA
Ai primi di ottobre, se non si volevano avere spiacevoli sorprese in inverno, i Torricellani cominciavano a fare abbondanti provviste di legna da ardere nei focolari o nelle stufe. Molti provvedevano personalmente alle operazioni suddette. Ma altri, per vari motivi, ricorrevano a forzuti spaccalegna che, nel corso di una giornata ne facevano fuori svariati quintali. Prima la tagliavano con una grossa sega dentata "lu stucch" sul cavaletto e poi la spaccavano con l'accetta ottenendo le cosidette "scraie". Contemporaneamente veniva requisita una squadra di ragazzini con il compito di portarle in soffitta (lu mèzzepésele) o in cantina dove il padrone di casa le accatastava con la massima cura. Tra i più resistenti spaccalegna va menzionato Antonio di Barile, dotato di una forza sovrumana , che però, al momento del pranzo, dovuto secondo consuetudine dal datore di lavoro, recuperava le energie sprecate nella fatica, mangiando una "spase" di maccheroni ed altrettanto di carne. Alcuni minuti dopo il pasto, senza intervalli di sosta, riprendeva il suo lavoro e non accuvava il minimo calo di rendimento, nonostante la poderosa abbuffata! Ma il progresso vuole la sua parte. Così verso la fine degli anni '50, prese a diffondersi la "sega a petrolio" del tutto simile a quella elettrica usata dai falegnami, però presentava un notevole vantaggio: poteva essere trainata in qualsiasi posto del paese. Inoltre era dotata di un dispositivo con un cuneo tagliente in grado di spaccare la legna più tenera. Faceva un fracasso assordante, tuttavia fu utilizzata per parecchi anni, fino a quando fu soppiantata dalla sega a cremagliera.

IL VENIDITORE DI BIBITE (Lu azzusàre)
Probabilmente molti giovani non sanno che a Torricella nel passato c'erano ben due ditte (Nicola Antrilli & Figli e Domenico Barchiesi & Figli) che producevano bibite (gassose, aranciate, chinotti). Esse durarono per parecchio tempo e se ad un certo punto cessarono la loro attività, lo fecero non per la scarsa qualità del prodotto, ma solo perchè dovettero cedere il passo ad un colosso in questo campo: la San Pellegrino.
Comunque sia, d'estate si faceva largo uso di bevande analcoliche nostrane o d’importazione, e “lu azzusàre” nei giorni di fiera andava in giro a venderle ai numerosi avventori. Si serviva di un secchio in cui versava dei pezzi di ghiaccio che tenevano costantementi fresche le bottiglie.
I1 ghiaccio, in grossi blocchi, era importato poichè i frigoriferi erano considerati ancora un lusso e quindi non erano in commercio.

IL FABBRO (Lu ferràre)
I1 fabbro faceva soprattutto utensili da lavoro: bidenti, zappe, picconi, punteruoli; riparava gli aratri, costruiva grate, finestre, chiavistelli ecc. Molti lettori ricorderanno il continuo ticchettio del martello sull'incudine nell'officina dei fratelli Carlo e Vittorio Porreca i quali operavano proprio accanto al palazzo scolastico. I ragazzi si fermavano per assistere incantati alla trasformazione che subiva il ferro rovente sotto i colpi sicuri dei due abili artigiani. Vittorio inoltre fungeva anche da maniscalco, infatti metteva i ferri ai numerosi animali da soma che affollavano le stalle del paese e dintorni. Quando si trattava di "ferrare" una mucca si radunava una piccola folla di spettatori attratti dall'imprevedibile comportamento dell'animale, che doveva infilarsi in un complicato marchingegno per tenerlo fermo. Evidentemente capiva che doveva capitargli qualcosa di strano, perciò s'innervosiva e tirava calci e cornate a dritta e a manca offrendo agli astanti uno spettacolo inusuale e del tutto gratuito.

IL FALEGNAME
Questo mestiere non può essere annoverato tra quelli in disuso, però bisogna dire che nel passato svolgeva numerose mansioni che oggi vengono espletate dalle industrie. A Torricella operavano ben quattro falegnamerie: Carlo Antrilli, Orlando Di Luzio, Nicola Di Sangro e Edoardo Martinelli. Costruivano di tutto: carriole, tini (tinacci), bigonce (baunz) botti (vascièll), porte, finestre, mobili, cassapanche (casce), armadi (armuarr), ripostigli per alimenti (arche), culle, scaldaletti, sci, monopattini e persino giocattoli. Alla fine degli anni '60, con la massiccia calata di prodotti industriali del Nord, iniziò un graduale declino non solo di questo antico mestiere, ma di tutte le attività artigianali. Cominciarono ad arrivare lavatrici, lavastoviglie, automobili, trattori, mobili, mototrebbie, oggetti di plastica, che però avevano il pregio di rendere il lavoro meno pesante. Gli anziani, forse più per nostalgia del passato che per convinzione andavano sentenziando: "Ai tempi nostri dovevamo fare tutto noi, ci si ammazzava di fatica dalla mattina alla sera. Al mondo d'oggi nessuno ha più voglia di lavorare. I giovani trovano tutto già bell'e pronto. Manca solo una cosa da inventare: "la machenétt che métt a magnà mmocch!".

IL GELATAIO (Lu gelatàre)
Campariva la prima volta alla festa della Madonna delle Rose, a fine maggio dunque. Vendeva i coni a dieci lire l'uno e le coppette a quindici. In mancanza di frigoriferi doveva usare il ghiaccio a blocchi. Anche la miscelatura degli ingredienti doveva essere praticata manualmente con una pala di legno. Ma già agli inizi degli anni '50 a Torricella c'era una gelateria che produceva in proprio. Dopo diversi anni di attività, fu costretta a chiudere a causa della diffusione del cosidetto "pinguino", un gelato alla panna ricoperto da una crosta di cioccolata, prodotto a livello industriale dal la Motta.

IL VENDITORE DI CASTAGNE (Lu castagnare)
I1 suo piccolo desco si trovava nei pressi dell'attuale Cassa di Risparmio. Oltre alle caldarroste, vendeva anche i cachi, ognuno dieci lire. Qualche ragazzo passando per andare a scuola se ne comprava uno come merenda. Si può immaginare cosa potesse accadere a chi aveva la bella idea di infilarlo in cartella tra libri e quaderni!

LO SPAZZACAMINI (Lu spazzacamine)
Gli spazzacamini, ovviamente avevano sempre la faccia nera come "ammond pe la ciumenière". Pròvenivano dalle valli del Trentino. Erano magri come acciughe. Riuscivano ad infilarsi con straordinaria abilità nei camini per ripurirli dalla fuliggine (felìne). Se qualcuno, per taccagneria, rinunciava alla loro opera, poteva pagarla a caro prezzo, infatti bastava una scintilla per provocare un vero e proprio incendio: grosse lingue di fuoco si innalzavano dal fumaiolo attirando una nutrita folla di spettatori, alcuni dei quali però non se ne stavano con le mani in mano, ma aiutavano a spegnere il fuoco portando sul tetto dei secchi d'acqua da versare nella canna fumaria.

LU PAIARINE
La sua attività si svolgeva tutta sulla trebbiatrice, tra il frastuono assordante del trattore, i raggi roventi del sole, la polvere secca dei covoni; per questo indossava una camicia militare abbottonata al collo, con un grosso foulard, un paio di occhiali e una paglietta in testa. A1 suo fianco operavano due ragazze che scioglievano "li manuoppre" e li consegnavano a "lu paiarìne” che, a sua volta, li infilava tra gli ingranaggi della macchina.

IL PANE FATTO IN CASA

Negli anni '50 la stragrande maggioranza dei Torricellani mangiava il pane fatto in casa dalle mamme e dalle sorelle dai dieci anni in su. Solo i cosidetti "ricchi'', cioè coloro che godevano di uno stipendio fisso (ed erano in pochi) cominciavano a comprare in negozio lo sfilatino, un tipo di pane dalla candida mollica, piuttosto insipido, ma che i "poveri cristi" guardavano come l'oggetto di un desiderio impossibile da raggiungere;insomma non era "pane per i loro denti!". Ma affermare che coloro i quali compravano lo sfilatino in negozio lo facessero solo per snobismo, sarebbe ingiusto e non veritiero. Infatti per fare il pane in casa occorreva una serie di operazioni che richiedevano fatica, tempo e sacrifici non indifferenti. Dopo aver lavato il grano, bisognava macinarlo e poi setacciarlo. La sera precedente la cottura, le massaie si facevano prestare il lievito che veniva messo accanto al focolare. La mattina prestissimo, verso le tre, le quattro, passava il fornaio il quale gridava "mbaste" : era il momento di preparare 1'impasto di farina e lievito. Verso le nove le morbide pagnotte venivano accuratamente avvolte in panni di lino, una per una, ricoperte tutte con un telo di lana. Dopo essere state stese su "lu taveléll" erano condotte al forno sulla testa della massaia. Solo in un caso interveniva il marito: quando imperversavano bufere di neve, toccava a lui portare "lu tavelèll" al forno. Siccome il giorno della cottura non era conveniente consumare il pane ancora caldo, le mamme preparavano le pizze e le "ciambellette fritte" con lo zucchero che erano una vera leccornia per i bambini. In inverno, data l'abbondanza di carne di maiale, si facevano le gustosissime "pizze con gli sfrivili" che venivano divorate in pochi istanti da tutta la famiglia, anche perchè la parola "colesterolo" non era ancora presente nella lingua torricellana.

" LA SVECCIATRICE "
Era un ingombrante e pesante macchinario dotato di un grosso cilindro posto in senso orizzontale, munito di una maniglia azionata a mano e con notevole fatica. Inoltre era privo di ruote, perciò negli spostamenti occorreva caricarlo su un apposito carretto trainato da un mulo. A cosa serviva? A setacciare il grano, al fine di eliminarne le impurità dopo la trebbiatura. Ce n'erano un paio in circolazione di cui uno di proprietà della sezione ex combattenti e reduci.

LA MACCHINA DELLE PANNOCCHIE
( La machene de le grandìnie)
Nelle serate autunnali i contadini chiamavano i vicini di casa per farsi aiutare a "spurlucchià le marròcch" cioè a togliere le foglie ormai secche dalle pannochie. La fatica però era ampiamente ricompensata con noci e fichi secchi per i piccoli, con abbondanti libagioni di vino novello, "sfrivele" e salsicce per i grandi. Nulla veniva buttato: le foglie si usavano per fare i materasi, i chicchi di mais (cariossidi) per fare la polenta e "la pizz che le grandìneie" da mangiare con le cime di rapa, i tutoli al focolare per riscaldare. Ma come si potevano staccare i chicchi molto duri dal tutolo? In epoca remota si usavano 1e mani, ma negli anni '50 si utilizzava a nolo una macchina che funzionava grazie a una maniglia attivata dalla sola forza delle braccia. I motori elettrici e quelli a scoppio, sebbene già noti, non avevano ancora avuto una diffusione capillare per il loro costo che, a quei tempi, appariva esorbitante.

IL PACCO DALL'AMERICA
Dopo il 1945 la popolazione torricellana, come del resto tutta l'Italia, dovette subire le conseguenze di una guerra tanto inutile, quanto tragica: fame, freddo, rovine, case abbattute, miseria, giovani soldati morti in Russia, in Africa, in Grecia. Questa era la desolante situazione dell'immediato dopoguerra. Tanti preferirono espatriare, chi nelle polverose miniere del Belgio, chi in America, in Francia, in Australia, insomma in tutto il mondo. Quelli che restarono cercarono di rimboccarsi le maniche, ma da soli non ce la facevano a tirare avanti. Per questo chiedevano aiuto a qualche parente emigrato. Così cominciarono ad arrivare i cosidetti pacchi dall'America, che sebbene non migliorassero un granchè l'economia familiare, tuttavia diffondevano un'atmosfera di gioia in chi li riceveva. Prima di tutto il mittente scriveva una lettera in cui annunciava l'avvenuta spedizione e il contenuto del pacco per controllare che nulla venisse trafugato nel lungo viaggio in "bastimento". Da quel giorno iniziava un clima di euforia che però si trasformava in apprensione quando, trascorso circa un mese, il pacco ancora non era pervenuto. "Vu vedé ca se l'ome arrubbiète!" diceva il marito alla moglie. "Ma none, ce vò lu tembe". Intanto mattina e pomeriggio si faceva la posta al portalettere per scoprire se recasse in mano la fatidica cartolina gialla. Niente! Poi,quando ogni speranza era persa, ecco la lieta novella. "E' rrevate". Tutto il vicinato partecipava all'avvenimento, tranne ad una cosa: l'apertura del pacco. Questo avveniva alla sola presenza dei familiari, dopo aver sprangato porte e finestre per evitare sguardi furtivi. E qui accadevano scene alla Fantozzi. Dato che il cartone era imballato con decine di metri di spago, punzoni e scotc, ci volevano le forbici che, guarda caso, non si trovavano mai in quei frangenti, I1 capofamiglia imprecava verso gli altri: "A sta case nin zi trove mì niend”. Allora si usava il coltello. Quando finalmente lo scatolone era stato aperto, per tutta la casa si spandeva il penetrante odore della naftalina americana. E giù tutti ad arraffare giacche, pantaloni, scarpe, gonne, cappelli ed altre cianfrusaglie. Una volta vuotato il pacco, spenta l'euforia, ciascuno cercava di capire come potesse utilizzare quei capi di vestiario. Per gli uomini il problema non era serio, se una giacca o un pantalone erano grandi, si potevano restringere. Ma per le donne il discorso era diverso; mai avrebbero indossato quelle gonne dai colori sgargianti e dalla foggia strampalata da far ridere tutto il paese! Comunque venivano messe da parte lo stesso, potevano servire ai bambini quando si mascheravano a carnevale.


IL BANDITORE (Lu bannetòre)

Gli spazzini, oltre che tenere pulite le strade, avevano anche il compito di "ittà lu bann" cioè di andare in giro per i quartieri, dare uno squillo di tromba ed annunciare ad alta voce ciò che si vendeva nella piccola piazza adibita allo smercio di vari prodotti: frutta, verdura, pesce ecc. Per avere un'idea più precisa di come avveniva la faccenda, riportiamo il testo di un bando tipico: " In piazza si vende il pesce. Le Sgombri a 50 lire il chilo, Li Merluzzi a 100 lire il chilo”.

 

IL SARTO (Lu sartore)

“Lu mastre” di tutti i sarti di Torricella fu Antonio De Felice che aveva la bottega lungo la scalinata di sinistra che conduce alla chiesa. Era perennemente circondato da una decina di apprendisti più comunemente noti come “lavuriend”. Nonostante la copiosa presenza di quello stuolo di “scapeluott” tutti di un’età in cui a malapena si riesce a star fermi per più di cinque minuti, non si sentiva volare una mosca; gli unici rumori che rompevano il silenzio era la macchina per cucire e lo sfrigolìo dell’acqua sotto il ferro da stiro prima a carbonella e poi elettrico. Quando entrava un cliente per prendere le misure di un vestito, nessuno osava alzare lo sguardo verso di lui, insomma vigeva una ferrea disciplina da caserma. Eppure “lu mastre” raramente gridava, ma bastava il suo sguardo raggelante per intimidire anche il più disinibito dei suoi subalterni. Naturalmente se tanti genitori gli affidavano il compito di insegnare l’arte ai loro figli, una ragione doveva pur esserci! Infatti tutti i clienti rimanevano molto soddisfatti del suo lavoro: i vestiti andavano a pennello. Mai che bisognasse restringerli o allargarli. Eh sì era proprio un “mastro” coi fiocchi.
Ma come mai tanti giovani in quegli anni sceglievano di fare il sarto? E’ presto detto. Dunque, negli studi, soprattutto per motivi economici, i più si fermavano alla quinta elementare, perciò chi non aveva pecore o mucche da pascolare o terre da coltivare, volente o nolente veniva spedito in giovanissima età a imparare un mestiere, muratore, fabbro o falegname per i più robusti, barbiere o sarto per quelli più gracili. Si aggiunga, per quanto riguarda l’attività sartoriale, che i vestiti confezionati ancora non si vendevano e quindi era garantita una discreta clientela.
Nei primi giorni o meglio nei primi mesi, perché l’apprendistato durava parecchi anni il lavorante, senza proferire la minima parola , né alcuna protesta, sia a “la putèche” che a casa, pena una sicura scarica di “palate” da parte del padre, doveva sorbirsi chilometri e chilometri del cosiddetto “passamano” cioè doveva formare con l’ago e il filo una specie di barriera agli orli della stoffa affinchè non si sfilacciasse. Era un lavoro monotono, ripetitivo quindi noioso che metteva a dura prova la schiena e la vista. I più fortunati riuscirono a impietosire i propri genitori e così cambiarono mestiere; i più disgraziati dovettero fare di necessità virtù, ma appena ebbero raggiunto l’età in cui si può decidere da soli il proprio destino anch’essi abbandonarono quell’attività per dedicarsi a ben altro. La gran parte andò a ingrossare quell’inesauribile fenomeno che svuotò i nostri paesi nel dopoguerra: l’emigrazione, la quale però se dal punto di vista affettivo fu molto dolorosa, non lo fu certo da quello economico e sociale, considerando che molti poterono dare una svolta positiva alla propria esistenza e a quella dei propri familiari, sia che andassero nel nord Italia, in Belgio, in Svizzera, nella lontana America o nella lontanissima Australia.
Ci fu però chi ebbe la costanza di resistere e così dopo tanti anni di apprendistato gli fu concessa l’opportunità da parte del maestro di aprire bottega. E già perché la decisione in pratica spettava a lui. Si potrebbe però obiettare: “Ma i lavoranti non potevano andarsene quando volevano?” Certamente, solo che il “mastro” insegnava tutto ai suoi discepoli tranne una cosa niente affatto trascurabile: come si doveva tagliare la stoffa per confezionare i manufatti, pertanto lui decideva quando era il momento. Mettiamoci nei suoi panni: non poteva e non voleva correre il rischio di trovarsi una marea di concorrenti! Tra i tanti sarti che impararono “l’arte” da Antonio De Felice, ricordiamo Edmondo Teti, Nicola Piccoli, Camillo Piccone che svolsero il loro mestiere per diverso tempo.
Con l’arrivo del miracolo economico e quindi con il grande sviluppo industriale dell’Italia del nord negli anni ’60 e con la conseguente crisi di tutte le attività artigianali, anche i sarti videro notevolmente ridotta la clientela e alcuni dovettero chiudere bottega e cambiare mestiere, visto che ormai tutti compravano i vestiti già belli e pronti.
Finora, come avrete notato, si è parlato di sarti al maschile, ma sarebbe riduttivo concludere l’argomento qui perché nel nostro paese negli anni ’50 e ’60 ci furono anche tante sarte, anzi molte di più dei loro colleghi.
Tra le più anziane rammentiamo le sorelle Maddalena, Esterina e Iole Teti, alle quali successivamente si aggiunsero Assuntina Barchiesi, Giovina D’Ulisse e Irene Di Sangro, tutte molto abili nel cucire con maestrìa e destrezza abiti, gonne, tailleurs, camicie, cappotti, soprabiti… per le donne di tutte le età di Torricella e dintorni.

I SUONATORI

“Edemò m’aviscia fa nu piacere” “Anche due se posso”. “Seccome dumeneche s’ha da fedanzà fijeme, vuless mett ball, putisce menì a sunà lu mandulìne, però scia purtà pure la foja d’edere”. “Quess è tutt. Securamend viengh. A un amiche quess e aldre”. “A che ore ja menì?” “Verze le cingh, nde ne scurdà” “Staat tranguill”
Questi avvenimenti accadevano negli ormai remoti primi anni cinquanta, allorché se volevi organizzare una festicciola in famiglia, dovevi ricorrere a qualche paesano in grado di suonare uno strumento. A Torricella ce n’erano diversi . Nessuno di loro sapeva cosa fossero crome, biscrome, sibemolle e via di questo passo, eppure appena ascoltavano un motivetto, te lo eseguivano all’istante, come si suol dire “andavano a orecchio”. Fra i tanti, citiamo Edmondo Teti, non perché fosse più bravo degli altri, ma semplicemente per il fatto che, oltre a utilizzare il mandolino, si serviva di un oggetto tanto semplice quanto raro nel campo musicale: un’esile foglia d’edera, che appoggiata sulle labbra, emetteva un suono acuto e piacevole che destava stupore e ammirazione in chi lo ascoltava. La presenza di quei musicanti era particolarmente apprezzata quando si ammazzava il maiale. La sera, per festeggiare l’evento, dopo aver mangiato e ben bevuto, l’orchestrina dava inizio al suo repertorio e contemporaneamente cominciavano le danze e i canti. Tra amici, parenti, comari, compari e vicini di casa, praticamente si consumava mezzo maiale e così un anno di lavoro per farlo ingrassare, se ne andava in fumo in una nottata di baldoria. Intanto il vino cominciava a fare i suoi effetti, quasi tutti gli uomini erano alticci: oltre a ballare, alcuni cantavano a squarciagola, altri ridevano e scherzavano, qualcuno dava in sproloqui che a volte coglievano nel segno, come si suol dire “in vino veritas”, perciò chi veniva preso di mira, rispondeva risentito dando luogo ad un pericoloso alterco che poteva sfociare in rissa. Le donne di solito si frapponevano al fine di sedare gli animi, ma quando il battibecco assumeva toni estremamente accessi, anch’esse intervenivano nella contesa per dare manforte ai mariti e allora: apriti cielo! Ma possiamo assicurare che questi episodi accadevano molto raramente in quanto l’allegria e il sentimento di amicizia prevalevano su tutto il resto.
Negli anni ‘50 i giradischi non esistevano né di nome né di fatto, al loro posto c’erano i grammofoni. Il primo esemplare apparve probabilmente nei primi decenni del secolo scorso importato da qualche “miricano” di ritorno dagli USA A vederlo destava incredulità e stupore: com’era possibile che un simile marchingegno composto da una scatola di legno sormontato da una specie di trombone e un disco nero di celluloide grande come una pizza che girava grazie ad una manovella, azionata però prima dell’uso, sotto un chiodo appuntito collegato ad un manicotto, potesse riprodurre musiche e canzoni? Ancora una volta l’America, il paese affascinante dove si realizzavano i sogni impossibili, si mostrava come il polo di attrazione per gente assillata da secoli di povertà e di ignoranza. I più temerari vinsero l’iniziale timore e si diressero verso quella terra sconosciuta pur di porre termine ad un atavico destino di sofferenze e di privazioni. Per tutti l’impatto con il nuovo mondo non fu come se lo figuravano, ma i più, anche a costo di enormi sacrifici, raggiunsero il loro scopo. Qualcuno si perse nel marasma dei milioni di diseredati provenienti dalle parti più povere del mondo. Altri invece preferirono percorrere la strada del crimine che secondo i loro intenti sarebbe stato il mezzo più breve e più facile per raggiungere il potere e le ricchezze. Sappiamo però tutti come finì la faccenda per la maggior parte di quei personaggi. Ma ora torniamo al grammofono. Bisogna tener presente che i dischi utilizzati erano di musica classica (soprattutto del mitico Enrico Caruso) le famose “pizze” da 78 giri, quelli di musica leggera non si trovavano in commercio. I più appassionati tuttavia ascoltavano le canzoni alla propria radio o presso qualche amico più fortunato che aveva i soldi per comprarsela. Molto seguìto era il festival di Sanremo che si presentava con l’arcinoto saluto di Nunzio Filogamo: “miei cari amici vicini e lontani”. Si formavano veri e propri gruppi di ascolto che, nonostante le frequenti scariche elettriche, le intermittenze della corrente e le fastidiose interferenze di radio Tirana inneggianti alla riscossa dei “proletari di tutto il mondo”, avevano la costanza di ascoltare i gorgheggi di Gino Latilla, di Giorgio Consolini, di Nilla Pizzi e di altri cantanti melodici, tra un bailamme di rime baciate o alternate e di
fiori, cuori e amori infranti accompagnati da malinconiche sviolinate. Tutto questo finchè non avvenne una duplice, sconvolgente rivoluzione (nel senso buono della parola): la diffusione della televisione e lo strepitoso successo a Sanremo nel ’58 di Domenico Modugno con Nel blu dipinto di blu, nota in tutto il mondo come Volare. “Penso che un giorno così non ritorni mai più, mi dipingevo la faccia e le mani di blu. Poi d’improvviso venivo dal vento rapito….” E’ un inno alla libertà, il bene più prezioso che un essere umano possa desiderare. Modugno lo manifestò attraverso il desiderio più antico dell’uomo: quello di poter volare, andare il più in alto possibile, come il leggendario Icaro. A pensarci bene tutto ciò che è bello, che ci è caro sta verso l’alto: il cielo, il sole,il paradiso le stelle…Volare, che cosa meravigliosa! Ma non è possibile attuarlo, allora “cantare” questo sì, tutti possono farlo, anche i più stonati. Grazie dunque a Modugno, che con la sua esuberante canzone ha fatto sognare intere generazioni, che ancora oggi cantano “Volare oh, oh cantare, oh oh oh oh”. Grazie però anche agli umili suonatori di Torricella che, con l’avvento di dischi, giradischi, mangiadischi, juke box, televisori, persero la loro importanza, ma continuarono a suonare, magari da soli, in un soleggiato e profumato pomeriggio di maggio, accarezzati da un gradevole venticello tra le note di una struggente Cumparsita o di un allegro Carnevale di Venezia. Quante volte durante una partita di calcio tra amici al campo sportivo “abball pe le fuoss” all’improvviso dalla Piazzetta si udivano le piacevoli note della fisarmonica di Gilberto Persichetti di Iaquije, abilissimo nel padroneggiare il suo srtrumento! Non possiamo dimenticare però un altro compaesano che si dilettava con molta bravura nel campo musicale: il chitarrista Vincenzo Antrilli di Canilòra.
Sono passati tanti anni, quelle fisarmoniche, quelle chitarre ormai non si odono più a Torricella. Dei loro suonatori, qualcuno emigrò in America, in Canada o chissà dove. Qualcun altro è tornato da tempo negli sconfinati giardini del silenzio insieme con l’inseparabile strumento che mani pietose gli posero accanto nel suo viaggio estremo

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