ALESSANDRO

TETI

TORRICELLA PELIGNA NEGLI ANNI 50 & 60

 

 


PRESENTAZIONE

Parlando dei tempi andati, non è infrequente il detto popolare "se stave méje quand se stave pègge". Ebbene, a parte l'evidente contraddizione insita nelle parole, non è affatto scontato che il passato sia più bello del presente, anzi... Provate a chiedere ad un anziano contadino se era più agevole mietere un campo di grano alla vecchia maniera oppure con il metodo attuale. Potete immaginare da soli cosa vi dirà. Se poi avete l’ardire di ribattere che trent':anni fa tutto era più poetico, nel novanta per cento dei casi, vi manderà a quel paese. Se avrete miglior fortuna vi risponderà più o meno così: "Ma quand mì li ciarlatiène é ite a méte!" Eppure, nonostante queste premesse, un poco di nostalgia pervade sempre i nostri discorsi riguardanti il tempo che fu. Perché? Senza scomodare psicologi, sociologi e simili, possiamo dire che, trenta, quaranta, cinquant' anni fa (scegliete voi la vostra collocazione) eravamo dotati di un qualco¬sa che rendeva tutto più semplice e gioioso: la gioventù, che però, come dice la canzone, "non torna più". Comunque, con un po' di buonsenso e immaginazione, ogni tanto, non spesso, ritornare con la mente al passato fa bene allo spirito, così se non la gioventù, possiamo recuperare almeno il suo ricordo. E’ quanto si è prefisso lo scrivente nell'accingersi a mettere insieme queste pagine. Ci sarà riuscito? Ai posteri l'ardua sentenza!


TEMPO DI ELEZIONI

Gli Italianti spesso si lamentano perché nelle classifiche dei vari settori produttivi, culturali, commerciali ecc. appaiono, non di rado, agli ultimi posti rispetto agli altri paesi occi¬dentali. In una però sono sicuramente imbattibili: il numero delle elezioni anticipate. Se ne fanno di tutti i tipi con i metodi più strampalati e diversi, tranne quelle scolastiche che vengono metodicamente posticipate, tanto non c’è niente da arraffare. Stavamo per dire che si svolgono in tutte le stagioni senonchè 1'ingegno multiforme dei politicanti nostrani, negli anni '60 inventò il cosiddetto "governo balneare" cioé la quintessenza del "tirare a campare" messo su al solo scopo di evitare faticose campagne elettorali nel bel mezzo di una vacanza estiva. Seguendo la moda, secondo la quale bisogna cam¬biare nome a tutto, oggi simili governi li chiamano tecnici. E a Torricella cosa si può dire circa le elezioni negli anni '50 e '60? Quelle politiche naturalmente rispecchiavano l'atmo¬sfera di tutta la Nazione. Per quelle comunali occorre una breve cronistoria. Quando il nostro Comune contava più di tremila abi¬tanti, i consiglieri erano venti. Oggi per via dello spopolamen¬to e della recente riforma sono diventati dodici. Nel passato vi¬geva un sistema maggioritario molto simile a quello attuale, per cui le interruzioni delle amministrazioni comunali erano infre¬quenti (si verificarono solo due volte). L'elezione del Sindaco non era diretta.
Il clima era, a dir poco, rovente, in tutte le fasi, pre e post elettorali. La frattura, permanentemente esistente tra gli abitan¬ti, in quel periodo diventava voragine. I sostenitori delle due opposte fazioni evitavano di incontrarsi, i mariti vietavano alle mogli di frequentare amiche dell'altra "sponda". Iniziava intanto la caccia ai candidati che apportassero tanti voti, soprattutto nelle contrade. Non interessava il loro grado di cultura,anzi meno s'intendevano di politica, Più faciImente si potevano addomesticare. Inoltre, in caso di vittoria, queste perso¬ne, di solito infaticabili lavoratori che da mane a sera se la dovevano vedere con i campi da coltivare, garantivano lauti pranzi non solo ai capofila, ma anche al copioso codazzo di comprimari e portaborse. Le mogli non erano granché entusiaste di queste repentine folgorazioni per l'agone politico dei consorti: "Siend na nzì. Ma mo chi te l'ha fatt fà a méttete mmèzz a ssi mbicce? Tenéme tand da fà a la ngott e ngh li bièstie! Chiss é tutt na manijate”. I1 frastornato marito avrebbe voluto convenire con le asserzioni della sua donna, ma ormai stava nel ballo e doveva ballare (ahimè con ballerini molto più "scafati" di lui!).
Ogni domenica pomeriggio si tenevano i comizi che, dal punto di vi¬sta formale, in alcuni casi, non molti, evidenziavano un eloquio chiaro, scorrevole e un' oratoria suadente, tali da entusiasmare la folla pronta a sottolineare con scroscianti applausi la bravu¬ra del comiziante. In altri casi (parecchi) si trattava di discor¬si raffazzonati e scopiazzati alla bell'e meglio qua e 1à da oscuri amanuensi, con frasi "fritte e rifritte". Dulcis in fundo: i casi estremi. Qui si rasentava la demenza aggravata da precoce perdita della memoria. Sentite questa: "Amici e compagni di Gessopalena, ho l'onore di presentarvi l'onorevole....(Pausa imbarazzata seguita da improvviso lampo di genio) Mbè mo ve le dice èss". Non mancavano però autentici parlatori che, nonostante una fugace esperienza scolastica e una limitata o inesistente dimestichezza con libri e manuali linguistici, disponevano di una naturale favella con cui riuscivano ad arringare animo¬samente i propri sostenitori.
Per ciò che attiene al contenuto delle concioni, il repertorio era alquanto variegato. Una buona parte di esse si riferivano, oltre che ad argomenti di pubblico interesse, ai più intimi com¬portamenti dei candidati e delle rispettive spose o sorelle e siccome nessuno a questo mondo è senza peccato, di motivi per mettere in ambasce gli avversari ce n'erano a iosa. Tuttavia i chiamati in causa, per nulla intimoriti, replicavano ripagando i detrattori con la stessa moneta, più gli interessi.
BANDIERA ROSSA O BIANCO FIORE.
Prima di ogni comizio un paio di giovincelli con un altoparlante montato su una vecchia auto prossima alla rottamazione, andavano strombazzando sgangherati e sgrammaticati slogan propagandistici intervallati dalle stridule note di Bandiera Rossa o Bianco Fiore. Qualche giorno prima di quello delle elezioni, sullo specchio del bar appariva 1'immancabile telegramma proveniente da Roma: "Stanziata la somma di lire (svariate centinaia di mi¬lioni) per fognature o rifacimento stradale Via Tal dei Tali"
Tanto per ricordare ai più titubanti da che parte stessero le leve del comando! I1 venerdi precedente la domenica del voto i due opposti schieramenti mettevano in mostra tutto il loro potenziale tattico e strategico. Sui balconi si susseguivano le esibizioni delle star locali, seguite, come botta finale, da quelle degli onorevoli della nostra zona, eletti al Parla¬mento nazionale. Intanto si azzardavano le previsioni sui pos¬sibili vincitori della contesa. La conta veniva fatta a tavolino da sedicenti esperti, i quali però non potevano effettuare alcun sondaggio infatti, tolta una cinquantina di persone che dichiara¬vano apertamente le loro preferenze, gli altri si dicevano dispo¬nibili per l'una e 1'altra lista. Perciò l'unico indizio era un saluto, dato o mancato. un sorriso, uno sguardo, per assegnare un elettore alla propria parrocchia o all'altra. Con questo sistema, che ben a ragione possiamo definire "a lume di naso" entrambi gli schieramenti ritenevano di avere la vittoria in tasca con un ampio margine sugli avvesari. L'ultimo atto avveniva la dome¬nica mattina, con la caccia agli anziani aventi problemi di deam¬bulazione: bisognava andare a prenderli e accompagnarli con l'auto ai seggi. Era una vera e propria gara per accaparrarsi un voto, ammesso e non concenso che il vecchietto esaudisse le aspettative di quegli improvvisati ed interessati "benefattori".
Finalmente dalle ore quattordici del lunedì si appropinquava 1'ora fatidica della verità, amara per i perdenti, assai lieta per i vincitori, soprattutto se la vittoria era acciuffata per il rotto della cuffia, nonostante i proclami della vigilia impron¬tati ad una trionfalistica sicumera di uno schiacciante successo. Fatto sta che man mano che procedeva lo spoglio delle schede, nelle sezioni aumentavano sempre più le schiere di coloro che parteggia¬vano per la fazione probabile vincente e di pari passo si assot¬tigliavano quelle dei perdenti, fino alla completa sparizione.
Raggiunta la certezza matematica del buon esito delle urne si formavano cortei canori inneggianti ai neoeletti, con frizzi e lazzi lanciati contro gli sconfitti.
Un ricco pranzo, riservato ai dirigenti e al relativo entourage della lista predominante poneva termine alla contesa elettorale.
Non certamente ai rancori, alle maldicenze, alle calunnie, ai turpiloqui e simili, destinati a perpetuarsi nei secoli dei secoli.

IL MONDO DELLA SCUOLA

PARTE PRIMA: L’ASILO INFANTILE

E' stato chiamato "Residence Bellini" l'austero e tozzo palazzo di Via Peligna,ma per molti torricellani di una certa età resta sempre l’"Asilo infantile Francesco e Camillo Porreca". Passando nelle sue vicinanze non si può fare a meno di tornare con la mente all'infanzia quando,con il grembiulino e la borsetta di paglia, chi allegro,chi titubante,chi piangendo, tutti andavano per trascorrervi buona parte della giornata accol¬ti dalle suore, ogni volta cordiali e sorridenti, nonostante le non floride condizioni economiche in cui versavano.
Le ore più belle erano quelle dedicate ai lavoretti nell'apposita aula, dove si giocava anche con i famosi "mattoncini" di legno.
I più grandicelli si cimentavano con le prime a¬ste e i tondini. Quando si avvicinava l'ora del pranzo, dopo aver lavato le mani, i bimbi con il bavaglino al collo, andavano al refettorio al canto di "lalalà, lalalà, andiamo a tavola a desinar".
Ma la meritoria opera delle suore non si limitava alla cura dei piccoli, esse, sebbene costrette ad indossare una specie di museruola, assai graziosa a vedersi, ma poco pratica perchè avvolgeva capo e mento, tenevano gli ambienti costantamente puliti, tutto luccicava: vetri, pavimento, armadi. Inoltre, nel piano superiore, in un ampio salone, si trovava il laborato¬rio di ricamo e cucito, in cui tante ragazze preparavano il corredo di nozze. Quando si avvicinava il tempo della prima Comunione, una suora per i maschi e una per le femmine, tenevano le lezioni di catechismo ( la duttrìne ). Compito ar¬duo per i ragazzi che dovevano imparare a memoria tutto il contenuto di un libricino di una trentina di pagine. Infine a Natale era usanza che le giovani si esibissero in recite e canti e a chi spettava il compito di preparale? Naturalmente alle suore! Quindi non è esagerato affermare che quando si diffuse l'incredibile notizia della loro partenza defini¬tiva, tutti provarono un profondo rimpianto nei confronti di chi aveva contribuito a rendere più sopportabile la non fa¬cile vita del dopoguerra.


PARTE SECONDA: LA SCUOLA ELEMENTARE

I1 grosso edificio arcinoto a tutti con il nome di "palazzo scolastico" fu ed è a tutt'oggi, la sede della scuola elementa¬re. Negli anni '50 ospitava dieci classi divise in sezioni maschili e femminili (allora Torricella contava 4.000 abi¬tanti). I1 segnale per invitare i ragazzi a recarsi a scuola veniva dato dalla campanella della chiesa di S. Rocco; gli orologi scarseggiavano e bisognava attendere la Cresima per riceverne uno in regalo, e non sempre funzionava, infatti si diceva "lu rellogge de lu cumbàre camìne quand i pare". Dati i tempi e i mezzi a disposizione, le attività principali degli alun¬ni consistevano nell'imparare a leggere, scrivere e far di conto e naturalmente ad assumere un comportamento rispettoso verso gli altri. Ma le parole e l'esempio spesso non ba¬stavano per convincere i più recalcitranti e i più svoglia¬ti, specie nelle classi maschili; allora bisognava far ricor¬so alla bacchetta che sedava ogni tentativo di intemperanza. Gli insegnanti erano validamente spalleggiati dai genitori in quest ' opera "persuaviva". Frasi del tipo "maestre daie mazz a ssu lazzaròne ca iere 'nza vulute mbarà la lezzione" erano di uso assai frequente.
La ricreazione, piuttosto chiassosa, si svolgeva tutti i giorni, tranne in un caso: quando arrivava il direttore da Casoli. Allora si stabiliva una specie di coprifuoco.
Gli scolari si chinavano sui libri a ripassare tabelline, guerre puniche, guerre d'indipendenza, area del cerchio, poe¬sie... Ma qualcuno per nulla preoccupato o per allentare la tensione, sentenziava all'improvviso: "Signòre maè, io non ho paura perchè lu direttore va dirètt e l'ispettore m'arespètt", e giù tutti a ridere.
Poco dopo Guido Palizzi, il bidello, faceva capolino dall'u¬scio per annunciare il cessato allarme. I1 mantenimento della disciplina richiedeva un certo vigore, specialmente nelle classi quinte dove stazionavano quattro o cinque ripetenti che avevano abbondantemente superato l’età dell’obbligo.
Costoro per niente interessati alle attività didattiche, si dedicavano a scherzi da caserma come i famigerati gavettoni sulle porte dei gabinetti nonostante l'assidua sorveglian¬za di Guido, sempre cordiale con tutti ma pronto a stroncare qualsiasi tentativo di sovvertire le regole costituite.
Quando l'insegnante si allontanava momentaneamente, il capo¬classe doveva riferire su eventuali infrazioni: "Signòre maè, Tonino ha quèldo (rotto) il cangellìno" " Perchè l'hai fatto?" "Perchè Nicola mi ha cacciato la lingua. Io gli ho tirato il cangellino, lui si è acciuccato (abbassato ) ed è finito imbaccio alla lavagna, si è squacciato ed è uscita la vrenna (crusca)". Un bel castigo per entrambi poneva termine alla contesa. Que¬sti episodi naturalmente erano marginali e li abbiamo citati per rendere l'argomento più gradevole ai lettori. Del resto sarebbe irriguardoso nei confronti degli insegnanti che operarono a Torricella negli anni '50 e '60, presentare la scuola elementare come un luogo di trastullo o di percosse.
A1 contrario si lavorava bene e molto, i maestri erano esi¬genti e ponevano il massimo impegno nella loro attività.
Si tenga presente che dovevano agire nell'assoluta mancanza di sussidi didattici, se si eccettua qualche affumicata car¬tina geografica. Psicologi, pedagogisti insegnanti di soste¬gno, corsi di aggiornamento, erano di là da venire.
Insomma bisognava arrangiarsi alla bell'e meglio!
Anche per questo rivolgiamo un pensiero di gratitudine a chi ci aiutò ad ap¬prendere i primi fondamentali elementi del sapere.
I1 più anziano era il maestro Giovanni Verna andato in pen¬sione all’inizio degli anni '50. A detta di tanti era seve¬rissimo ,ma "mbarave bone la léttere" (sapeva insegnare).
Poi gli altri : Maria Bruno, Persia Testa, Biuccia e Antonio Manzi, Olga e Camillo Di Renzo, Antonio Di Jorio, Nicolino Porreca, Nelda De Laurentiis. Successivamente arrivarono quelli ''più giovani" Cristinella e Domenico Piccone, Camillo Di Martino, Elena e Domenico Di Martino, Germana Piccone. Alcuni di loro purtroppo non sono più fra noi, perciò li ricordiamo commossi, sicuri di interpretare in tal modo i sentimenti di molti lettori. Gli esami andavano affrontati due volte: in terza e in quinta. Prove da superare: dettato, tema, problema, materie orali. I1 tema, onde consentire a tutti di riempire almeno una pagina di quaderno, aveva quasi sempre lo stesso titolo: "Parla del tuo paese". Proviamo a rileggerne qualcuno nella memoria.
”Il mio paese si chiama Torricella Peligna ed è alto 901 metri sul livello del mare.
Cià 4 chiese: maggiore, Santrocco, Sandantonio e San Camillo. Cè il munumento dove nella staggione ci vanno i frastieri che cianno la tosse convulsiva e la mia mamma mi dice: non ciandare ca sennò la raccogli anche tu. Ma io ci vado lo stesso perchè mi piace fare a rocila vascielli e a stagnarola. A me mi piace il mio paese perchè ci sono nato e poi perchè cè il campo sportivo il corso Umberto 1° e tante case .”

PARTE TERZA: LA SCUOLA MEDIA

Lo stabile che accoglieva la Scuola Media si trovava nella ex Piazza Municipio (oggi Piazza Ettore Troilo); all'esterno era come tanti altri palazzi, sembrava fatto con avanzi di altre costruzioni.
All'interno invece presentava una graziosa scalinata ricurva con balaustre in ferro battuto; le volte erano decorate con garbo. Chi lo fece erigere tanto tempo prima, ebbe molto più buon gusto di chi ne decretò 1’abbattimento! Fino al '68 la scuola media non era obbliga¬toria, dunque chi intendeva accedervi doveva superare gli esami di "ammissione". Alla preparazione degli alunni,affin¬chè affrontassero adeguatamente la prova, pensava l'insegnan¬te di quinta che, per una modica somma di denaro, nei pomeriggi, da gennaio a giugno, approfondiva gli argomenti trattati in mattinata in classe. L'impatto con il nuovo ambiente scolastico non era dei più incoraggianti: si avvertiva una cer¬ta freddezza rispetto al clima familiare della scuola prima¬ria; ti chiamavano per cognome e non per nome; non c'erano le bacchettate per raddrizzare le teste calde, ma in compen¬so la minaccia dei voti bassi e delle temutissime note sul diario o sul registro, facevano molto più male.
Una volta, in prima media, all'inizio di ottobre, un compagno osò chiedere: "Per favore posso andare al gabinetto?". Non l'avesse mai detto! La giovanissima professoressa, mai vista dalle nostre parti, andò su tutte le furie. "Ignorante replicò non sai che
bisogna dire ' Posso andare al bagno? ' ". Quale fu la gioia di tutta la classe nell'appurare, una settimana più tardi, che la prof. in oggetto era stata destinata altrove! A1 suo posto arrivò il prof. Aristide Gnagnarella, una persona dai modi garbati che parecchi torricellani ricorderanno con piacere. Restò poco da noi.
Chi invece volle rimanere a Torricella, fu la prof.ssa Carmela Giuffrè, la quale ricoprì anche la carica di preside.
A differenza delle elementari, quasi tutti gli insegnanti delle medie provenivano da altre località, fatta eccezione per il prof. Nicola Ficca e la prof.ssa Flavia Piccone.
Le attività eseguite a scuola e i compiti a casa erano tan¬ti, ma occorre riconoscere che, grazie ad essi ed alla seve¬ra professionalità dei docenti, gli allievi potevano acqui¬sire un'ottima preparazione di base molto utile nel prosieguo degli studi. Ovviamente questo discorso non vale per i più svogliati i quali preferivano trascorrere il pomeriggio al campo sportivo e se qualche professore passeggiando, ap¬pariva inopinatamente alla curva di S. Antonio, i furbacchioni si acquattavano frettolosamente dietro le "mucchie” di paglia per sottrarsi ad una sicura interrogazione il giorno successivo.

Il latino

Una novità assoluta, e non sempre gradita, che i ragazzi,pro¬venienti dalle elementari si trovavano tra i piedi, era la lingua latina, frettolosamente liquidata dal legislatore in occasione dell'istituzione della Scuola Media obbligatoria. I1 latino è una materia che non ammette vie di mezzo: o si ama, o si odia.
Un buon 70 per cento propendeva per la seconda ipotesi.
Perciò, quando si svolgevano i compiti in classe, copiose schiere dei malcapitati scolari, o dovevano rassegnarsi a fa¬re da soli, e ne veniva fuori una specie di latino macchero¬nico, oppure dovevano allungare il collo per adocchiare il foglio di un compagno più bravo.
Ma bisognava superare un ostacolo insormontabile: gli occhi vigili dell'insegnante pronto a scattare come un falco sulla povera preda; a volte si verificavano anche delle situazioni comiche, di fronte alle quali gli stessi proff. non potevano trattenersi dal ri¬dere. Ad esempio uno scolaro anzichè tradurre "i mari e i fiumi sfociano negli oceani" scrisse "Maria e Filomena si tuffano negli oceani".
E ancora: nel corso di un esame di matematica fu chiesto come si chiamasse l'angolo di 180 gradi, ma l'esaminato tar¬dava a rispondere. Uno dei prof., per aiutarlo, gli suggerì: "Ricordati dove mangi" "Ah si fece l'alunno tutto contento I'an¬golo vaccile".


IL CARNEVALE

Diciassette gennaio S. Antonio Abate (sandanduone). La mat¬tina il sacerdote dàll'alto dei "tirriete" benediceva tutte le bestie convenute: pecore, capre, cavalli, asini, muli, maiali... I1 pomeriggio invece si rappresentava la tentazione di S. Antonio da parte del diavolo. Colui che impersonava il santo aveva un finto barbone sul volto e un saio da monaco; il demonio con la faccia tinta di nero e una calzabraga rossa con un tridente; seguivano angeli di bianco vestiti ed altri personaggi. L'esibizione avveniva prima nel Corso, poi nelle ca¬se, dove la benassortita compagnia riceveva in dono ceci, fave, uova, raramente salsicce; quello che non mancava mai era il vino: veniva elargito senza parsimonia. La quantità dell'offerta era inversamente proporzionale alla qualità del prodotto, insomma più il vino era acre e "ncitìte" più gliene davano: guai a rifiutarlo. Comunque non bisognava insistere più di tanto per persuadere l'allegra brigata a far fuori un intero fiasco in un batter d'occhio. Mentre tutti erano attratti dallo spettacolo, a cominciare dal padrone di casa, che si scompisciava dalle risate, qualcuno furtivamente, approfit¬tando del cambiamento dei connotati che si celavano sotto le mentite spoglie della maschera, arraffava una salsiccia messa ad essiccare su delle pertiche appese al soffitto.
Ad acque ormai chete, i casigliani commentavano la bravura dei commedianti, quando sul più beIlo del conversare, lo sguardo andava a stamparsi sull'inusitato dondolìo della pertica e sú quell'inequivocabile vuoto che confermava l'ammanco. "Ah figli di…” e giù vituperii, imprecazioni e anatemi. Ma a che pro? Vai a scoprire il ladro tra una simile baraonda composta dai commedianti e dal folto stuolo di spettatori ambulanti! Più che per la salsiccia trafugata, che era una quisquilia, il derubato si arrovellava il cervello per il modo in cui si era fatto infinocchiare, sotto i suoi stessi occhi! "Proprio a ma doveva capitare una cosa simile!
Io che ho sempre dato consigli a tutti! Ah ma gliela faccio pagare". Ma non lo faceva, anche perché avrebbe dato adito ¬a molti di ridere della sua dabbenaggine. A1 termine del giro per le case del paese gli "attori" erano talmente ebbri che a fatica rammentavano la loro parte. Per fortuna l'aria pungente e una bella passeggiata verso la pineta, li aiutavano a smalti¬re la superabornia.
I1 17 gennaio segnava l'inizio ufficiale del Carnevale; molte famiglie la sera si riunivano presso la casa di amici e giocavano a tombola oppure a sette e mezzo. Gli uomini a stoppa o a bestia. I bambini, un po' assonnati ascoltavano "li fiètt" narrati dai nonni, ma appena l'iargomento toccava "le straie" (le streghe) ¬essi drizzavano le orecchie con la massima attenzione e poi per tutta la notte non riuscivano più a pigliar son¬no. Durante i giochi si consumavano fave e ceci abbrustoliti, frit¬ti, qualche volta la "cicirchiata", vino. I ragazzi intanto prepa¬ravano la recita da rappresentare nelle abitazioni torricellane.
Le prove si effettuavano presso la casa di un loro compagno e tra una filastrocca e l’altra giocavano anche a "nonna nonna" (moscacieca) e a papà Girolamo. Per i vestiti non c'erano proble¬mi: un valido contributo veniva dall'America, infatti i famosi "pacchi" provenienti da quel lontano paese, fornivano vestiti, soprattutto femminili, dai colori talmente sgargianti e maleassor¬titi, che le donne mai e poi mai avrebbero indossato. Però in un'occasione si potevano utilizzare, a Carnevale appunto da parte dei ragazzi. Costoro, quando avevano bene imparato la reci¬ta, bussavano alle case dicendo : "Vuléte aricèvere li maschere?". Molti li accoglievano volentieri. Finita la rappresentazione ri¬cevevano qualche moneta o delle uova con le quali, il giorno di Carnevale, al pomeriggio, si facevano preparare una grossa frittata frammista ai "cacchi" (pezzi) di salsiccia. Con i soldi acqui¬stavano delle aranciate. La fine del periodo carnascialesco veniva sancita quando si "squacciava la pignanta": a turno ogni bambino veniva bendato e con un bastone doveva colpire delle pentole di terracotta appese al soffitto. I1 contenuto era imprevedibile: ci potevano essere caramelle e monete, ma anche cenere e segatura!


LA PASQUA

E' molto probabile che almeno una volta nella propria vita ogni torricellano abbia pronunciato cantando, durante la solenne processione del venerdì Santo, questa frase: "Sono stato io l’ingrato, Gesù mio perdòn pietà”. Parole semplici, ma che racchiudono in sè uno dei principi fondamentali del Cristianesimo. Comunque si tranquillizzino i lettori perchè non s'intende intraprendere alcun discorso di tipo teologico, qui si vo¬gliono rievocare solo gli aspetti esteriori e terreni delle festività pasquali di qualche decennio fa a Torricella.
Si cominciava una settimana prima delle Palme quando tutte le sere in chiesa “nu monece” (un frate) teneva la predi¬ca ad una folla strabocchevole di donne, uomini e bambini dall'alto del pulpito.
Tutti restavano incantati dalla sua¬dente loquacità del predicatore, una via di mezzo tra il sa¬piente ed affabile padre Mariano e l'impulsivo e convincen¬te Beppe Grillo. Egli riusciva a tener desta l'attenzione dei presenti grazie alla semplicità dei discorsi inframezzati da motti, barzellette e battute spiritose che suscitavano la frequente ilarità dei fedeli. Per rispettare il precetto "Confessarsi una volta all'anno e comunicarsi almeno a Pa¬squa" si somministrava la Comunione per settori (giovani, bambini, donne, uomini).Con una certa sorpresa si notava che, specialmente fra questi ultimi, si accostavano all'altare anche persone che non avevano più messo piede in chiesa dal giorno del loro matrimonio. La domenica delle Palme si svolgeva la tradizionale benedizione dei rami d'olivo che veni¬vano scossi dai ragazzi nel momento in cui il sacerdote li apergeva con l'acqua santa.
I1 Venerdì Santo, in segno di lutto, gli altari venivano spogliati dei fiori; luci e cande¬le erano spente; le croci coperte con un panno viola; le cam¬pane "si legavano" (non suonavano), al loro posto si usavano "le raganelle" oppure "lu tacchemacch”, dei piccoli marchingegni che, percossi dai bambini, annunciavano l'inizio delle fun¬zioni religiose. Nell'antica chiesetta di San Rocco si espo¬nevano le statue del Cristo disteso coperto di un velo e della Madonna dei sette dolori. Per tutta la giornata c'era un viavai di fedeli che si fermavano in raccoglimento davanti alle sacre figure. A1 tramonto s'incamminava la lunga processione a cui partecipava l'intera popolazione, tranne gli infermi, che però facevano di tutto per assistervi, die¬tro una finestra o dall'alto di una "loggia" (balcone).
Peppinuccio Vitacolonna, zia Esterina e Vittorio Porreca con le loro voci bene intonate davano inizio ai canti. Le suore tenevano a bada i ragazzi più turbolenti mentre recitavano il rosario. A1 termine, dopo che il sacerdote aveva pronun¬ciato un breve discorso, i partecipanti si accomiatavano dai simulacri baciandoli con devozione. I1 Sabato Santo alle dieci (negli anni 50) e a mezzanotte (successivamente)si ce¬lebrava la messa di Risurrezione (il Gloria).
Le campane suonavano a distesa, la chiesa si illuminava, gli altari riprendevano l'aspetto consueto. Intanto nelle case si effettuavano i preparativi per il pranzo pasquale: la pre¬cedenza assoluta spettava ai dolci. Quelli a forma di cuore fatti con il pan di Spagna; "lu cavallucce" oppure "lu castell " con l'uovo sodo per i maschietti e "la bambolett" per le femminucce e soprattutto "lu fiadòne" ancor oggi vanto della cucina torricellana. I forni del paese (Ustìne, Luisètt, Vingènz de Cannone) sfornavano dolci in continuazione emanando nei din¬torni un invitante profumo da far venire l'acquolina in bocca. Cominciavano ad apparire le prime uova di Pasqua a base di un mediocre surrogato di cioccolato. Maggior fortuna eb¬bero dei dolcetti a forma di confetti con su una gallinella di zucchero impastato.
Anche in questa festività i bambini recitavano la poesia con le consuete campane che suonavano "festose vicine e lontane". A1 momento opportuno faceva la sua comparsa 1'im¬mancabile letterina zeppa di buoni propositi che duravano sì e no per l'arco di una sola giornata. "Cara mamma e caro pa¬pà, in questo giorno di gioia e di pace vi prometto che sarò più buono, più bravo,iù ubbidiente....".
Tuttavia l'atmosfera appariva meno solenne del Natale, di conseguenza anche i regali in denaro erano scarsi e inconsi¬stenti. I1 lunedì dell'Angelo e la domenica in Albis (otta¬vo di Pasqua) venivano dedicati alla scampagnata. General¬mente i ragazzi si recavano "a lu Trassègne". Era l'occasione buona per dare l'ultimo assalto ai dolci avanzati, bagnando¬li con lunghe sorsate di aranciata o di gassosa.


LA PRIMA COMUNIONE

"Oh che giorno beato, il ciel ci ha dato..." Così cantavano i ragazzi, quando facevano la Prima Comunione, avviandosi in fila dall'asilo alla chiesa, accompagnati dal folto gruppo di parenti. Le bambine vestivano di bianco e portavano in mano un mazzo di fiori; invece i maschi indossavano il classico abito, la camicia e la cravatta, quella con l'elastico, volgarmente det¬ta "taiafréne". A1 braccio pendeva un bel fiocco bianco con fran¬ge dorate e con il simbolo dell'eucarestia. Per i più si trattava del primo vestito della loro vita e doveva durare, come minimo fino alla Cresima, per questo i genitori così esortavano i sar¬ti del paese: "Faile bèll comede ca chiss é carn che crésce!".
Se qualcuno ha voglia di osservare una vecchia foto di quel giorno lontano, avrà l'occasione di notare che le falde della giacca calavano fin quasi alle ginocchia. Ma i vantaggi erano indiscutibili: un simile vestito si poteva indossare per diversi anni, in tutte le occasioni solenni: Natale, Pasqua, S. Marziale, d'inverno e d’estate, con il sole e con la pioggia e, se conser¬vato con la nafialina, andava bene fino alle soglie della chia¬mata alle armi. Un altro canone sancito dalle abitudini ormai consolidate, era che il vestito dovesse essere di lana "Tand a Turecéll fa sole nu pare di misce de call, lu rièst fa sèmbre lu frédd!" E già ma la Comunione si faceva a giugno e "lu sudore culave a pisciarell". Per fortuna che in chiesa d'estate c'era (e c'è ancora) quell'invitante frescura che miti¬gava un po' la calura. Prima del giorno fatidico i comunicandi dovevano frequentare un corso di catechismo (la duttrìne) presso 1' asilo infantile e rigorosamente suddiviso in due gruppi: uno per i maschi e uno per le femmine. Si trattava di tenere a mente un centinaio e passa di domande e risposte concernenti tutto lo scibile della religione cattolica: preghiere, comandamenti, atti di dolore, precetti, virtù, opere di misericordia e via di questo passo, insomma era un formidabile mezzo per esercitare la memoria. Ma ovviamente non tutti si piegavano al cruccio di perdere il proprio tempo per imparare argomenti di cui oltretutto capivano poco o nulla, nonostante la pazienza delle catechiste e l'incentivo del voto. Fatto sta che al termine delle lezioni tutti, addottrinati o no, superavano l'esame finale. Ma non era finita, infatti tre giorni prima di ricevere il sacra¬mento, bisognava trascorrere un periodò di ritiro presso l'asilo durante il quale non era consentito aver contatto alcuno con gli estranei, per non essere indotti in tentazioni peccaminose. Penultimo atto del cerimoniale: la confessione. Si suol dire: "Chi è senza peccato, scagli la prima pietra". Dunque si partiva dal presupposto che tutti erano peccatori, quindi fuori la verità! Ma siccome nel novero dei Comandamenti difficilmente si trovava¬no delle inadempienze (anche per l'incomprensione dei termini, ad esempio NON FORNICARE aveva qualche attinenza con le formiche?), ecco che le catechiste venivano in ausilio dei penitenti suggeren¬do i peccati; ho detto le bugie a mia mamma, ho mangiato la mar¬mellata di nascosto, ho detto una parolaccia alla mia compagna, ho fatto la spia... In breve, gratta gratta, anche dalla più candida delle fanciulle veniva fuori qualcosa di cui chiedere venia. A1 termine della confessione i ragazzi si domandavano a vicenda quanti pater, ave e gloria gli erano stati imposti; dal numero si poteva arguire qual era la gravità delle malefatte.
La cerimonia religiosa era molto suggestiva ed anche commovente, diverse mamme, nonne, zie non riuscivano a trattenere le lacrime nell'attimo in cui i propri ragazzi assumevano per la prima volta l'ostia consacrata. I1 pranzo a casa era piuttosto parco e con po¬chi invitati, non solo per le ristrettezze economiche, ma soprat¬tutto per rammentare che il giorno della Prima Comunione doveva essere principalmente una festa dello spirito, non a caso anche i più diavoletti in quell'occasione diventavano dei mansueti angioletti. I1 poneriggio, finalmente liberi dai pesanti ed ingom¬branti vestiti, i ragazzi potevano scaricare la tensione accumula¬ta nella mattinata e parlavano soprattutto dei regali ricevuti: qualche braccialetto, gli orologi erano scarsi perché si aspet¬tava la Cresima per riceverli dai rispettivi compari. Molti erano invece i doni in denaro, una rarità per quei tempi, perciò bene accetti. Chi racimolava dieci mila, chi venti mila li¬re; di questi soldi, una parte si spendeva per far fronte alle com¬pere sostenute da poco o per il materiale scolastico, la parte residua finiva in buoni postali fruttiferi, nell'attesa che, col passare degli anni, si rimpinguassero sempre più. Campa cavall¬o…


LA FIERA

"Bell'O' quanda coste sti scarp?" "Quattr e cingh" "Ué sciambagnò è tropp care" "E quanda me vu dà" "Dù mila lire" Tira e molla, molla e tira, alla fine si addiveniva ad un compromesso: "Damme dumile e cingh e nin ze ne parla cchiù". Questo più o meno era uno dei dialoghi che si svolgeva tra 1 'acquirente e il venditore in una delle tante fiere di Torricella. La parola "signore" nei tempi passati era sinonimo di persona ricca, pertanto quando ci si rivolgeva ad uno sconosciuto si usava l'espressione "bell'o (mene) e bella fè(mene)". Per gli anziani il titolo era unico, per tutti "zizi". Per le signorine "giuvenè", per i ragazzi "giuvenò".
Le fiere si svolgevano una volta al mese (come oggi) tranne a luglio (due volte). Ad agosto si faceva a Colle Zingaro. Le più famose erano quelle di S. Vincenzo (5 aprile), di S. Giovanni (24 giugno) ,di S. Marziale (10 luglio), di S. Giacomo (sande Iaquiie 25 luglio).

Gli zingari

Nei giorni precedenti c'erano le prime avvisaglie con 1 'arrivo degli zingari, con i loro carri trainati dai cavalli . Le mamme raccomandavano ai bambini di prestare at¬tenzione: "Stéteve vicine a la case, ca sennò ve s'acchiapp le zinghere". La sera prima arrivavano i venditori con i camioncini, preparavano i loro giacigli su cui trascorrere la notte. Non tutto filava liscio, spesso scoppiava un litigio per il posto da occupare. La guardia o i carabinieri sedavano però gli animi. I1 mat¬tino seguente di buon 'ora le bancarelle erano già pronte.

Ciclone

Tra i personaggi caratteristici va citato Ciclone, un omone alto e grasso residente a Casoli, ma di chiarissima origine nordica. Lo avresti preso per un fenomeno da circo, invece e¬ra un semplice venditore di papere d'allevamento. I1 suo piccolo "stand" era sempre affollato di gente, attratta dal¬le sue continue battute spiritose.
L'arrotino invece era di poche parole. Non possedeva la mac¬china, perciò viaggiava in corriera portandosi dietro il suo ingombrante baldacchino.Come facesse a ficcarlo sull'auto¬bus lo sapevano solo lui e i fattorini della Ditta Teti o della Majella. Qualche giorno prima faceva un giro per il paese al grido di "arrotìno, arrotìno, arròta curtiell e temberìne". Alla fiera si metteva sempre al solito posto, davanti alla falegname¬ria di Edoardo Martinelli; continuava imperterriro ad "arrotare" coltelli, contemporaneamente, non si sa come, teneva d’occhio la sua preziosa mercanzia. Appena un ragazzino allun¬gava la mano, immediatamente scattava l'allarme: "Eih, uagliò nin zi tòcch ".


I1 pappagallo

Alla fiera c'era di tutto, perfino l'oroscopo. A dire il vero veniva chiamato "pianeta della fortuna” dal suo venditore un tipo dalla faccia burbera, simile ad un forzato evaso da Alcatraz. Costui, con l'indispensabile ausilio di un variopinto pappagallo e con la modica spesa di dieci lire, offriva un foglietto in cui prediceva il futuro,¬ con l'aggiunta di tre magici numeri da giocare al lotto per una sicura vincita da far cambiare la vita da così a così. Evidentemente tale evenienza non era applicabile nei suoi confronti, visto che continuava a sbarcare il lunario vendendo oroscopi.

I1 bestiame

Lo smercio del bestiame si effettuava "abbàll pe le fuòss" praticamente dal luogo in cui sorge la cosidetta pinetina, fino al campo sportivo. I1 posto aveva un aspetto ben diverso da quello attuale. C'era un dirupo pieno di sterpaglie dal qua¬le venivano scaricati oggetti di ogni genere, fiancheggiato da alcuni pericolanti ruderi di case distrutte durante la guerra. Nei paraggi di quel mercato operava "lu mastàre" (il venditore di basti per asini e muli). Ottimi affari faceva¬no anche il ramaio che vendeva oggetti di uso quotidiano come "le chettròle” "le conghe' "le fressòre","le vrascière". Nei mesi estivi passava anche "lu azzusàre" il quale,con un secchio pieno di bottiglie di gassose, di aranciate e di chinotti rinfresca¬ti con ghiaccio tritato, andava su e giù per il corso facen¬dosi largo tra una folla immensa, in uno scenario di convul¬sa vitalità: altoparlanti a tutto volume, grida di venditori, lo strombazzare di qualche lambretta,i pianti dei bambini davanti alla bancarella dei giocattoli, un asino che s'impunta spaventato con relative imprecazioni e bastonate da par¬te del padrone; i giocatori delle tre carte in attesa di "polli da spennare"; gente alla ricerca di qualche parente smarrito.

La porcchetta

Alla fiera venivano centinaia di persone dalle contrade e dai centri vicini, perfino da Pizzoferrato; famose erano le donne di questo paese con i loro tipici costumi: gonnellino blu, fazzoletto giallo, busto rosso e scarponi, anche con 40 gradi all'ombra.Venivano a piedi! Con un asinello per ven¬dere un carico di fascine (le cèpp) . La fiera durava fino al tramonto, molti infatti preferivano fare acquisti di po¬meriggio convinti di poter risparmiare. Intanto la fame co¬minciava a far sentire i suoi effetti perciò parecchie per¬sone, specialmente "li massariuole" si recavano nelle cantine per mettere qualcosa nello stomaco, allettati anche dal gra¬devole profumo della porchetta. Una volta entrati però,ci si poteva limitare al solo companatico? Certo che no! Occorre¬va qualcosa che li aiutasse a mandarlo giù. E così bevi tu che bevo anch'io, si alzavano i canti, dapprima solenni, poi sempre più stonati. Nel contempo cominciavano a vacillare le gambe, si annebbiava la vista, insomma "s'avè rizzilate la fiere", da un pezzo era calata la notte e qualcuno si attardava ancora a fartugliare impossibili discorsi con amici e compari....
Le mogli incitavano i mariti a sbrigarsi a far ritorno a casa a piedi. E già, ma così conciati chi ce la faceva ad al¬zarsi dalla sedia?!

IL MATRIMONIO

"Cumbiétt, cumbiétt a mènele" gridava la folla di ragazzi all'uscita degli sposi dalla chiesa appena dopo la cerimonia delle nozze. I confetti fioccavano a più riprese, ma ciò nonostante, gli spintoni seguiti da qualche scazzottata non mancavano mai per accaparrarsene in gran quantità e poi esibirli come trofeo di guerra. Tra i più assidui raccoglitori, c'era Camillo di Paperabella il quale una volta,per mettere in mostra le sue doti di abile acchiappatutto, fece: "Uaiù, guardète quanda ne so reccuold!" (ragazzi guardate quanti ne ho raccolti) ma prima che terminasse di parlare, una manata glieli fece schizzar via come proiettili e in un baleno i confetti finirono in altre tasche.
Da quel giorno decise di non farsi più sorprendere anzi, per aumentare il bottino, in un'altra occasione si presentò con l'ombrello aperto a rovescio, ma gli andò male lo stesso perchè glielo carpirono dalle mani con tutto il prezioso contenuto! I1 matrimonio in chiesa era preceduto da una serie di atti formali ed abitudinari che andavano eseguiti scrupolosamente. La dichiarazione d'amore fatta direttamente dall'uomo alla donna, era piuttosto problematica, quindi bisognava ricorrere all'intermediazione di un cosidetto "ambasciatore" che faceva la richiesta alla famiglia della ragazza.
Dopo averla vagliata con i parenti più stretti, spettava al padre di famiglia fornire la risposta. Nella scelta i genitori miravano soprattutto alla situazione economica e alla condotta morale del richiedente. Pertanto rifiutavano i cosidetti giovani “senz'art e né part” cioè che non avessero né un buon mestiere ne un'eredità. La prescelta invece teneva di più all'aspetto fisico e ai modi di presentarsi dello spasimante che, per dimostrare ancor più il suo affetto per la giovane amata, ricorreva alle famose serenate, con l'aiuto di un suonatore di fisarmonica e di qualche amico dalla voce intonata. I1 repertorio eseguito comprendeva le più note canzoni del tempo lanciate da Claudio Villa, Giacomo Rondinella, Gino Latilla e altri. Non tutti gradivano però il "fuoriprogramma" che in effetti recava disturbo a chi di notte voleva dormire. Perciò alla malcapitata orchestrina poteva accadere di finire sotto un'imprevista doccia a base di acqua, o molto più spesso,di un liquido dall'inconfondibile odore.

La notte di S. Giovanni

I1 sogno di molte giovinette in età da marito era quello di trasferirsi in America di cui tanti compaesani colà emigrati e poi tornati per breve tempo, tessevano giustamente le lodi. Si vedeva lontano un miglio che conducevano una vita più che dignitosa, decisamente migliorata rispetto al periodo precedente alla loro partenza. Allettate da queste premesse, le ragazze il 24 giugno, cioè la notte di San Giovanni, mettevano alla finestra una bottiglia d'acqua con una chiara d'uovo . A1 mattino,strano a dirsi, tutte erano convinte di vedere il bianco dell'uovo trasfonmato nelle sembianze di un bastimento, segno inequivocabile del loro destino:prima o poi sarebbero sbarcate in America. Ci fu un periodo in cui si effettuavano matrimoni per procura. Le cose andavano in questo modo: visto che negli USA c'era uno strisciante razzismo nei confronti degli emigranti e considerato anche che le donne di quel paese divorziavano con disinvolta facilità, molti connazionali preferivano prendere in moglie una compaesana sia pure conosciuta ai tempi dell'asilo o attraverso una sbiadita fotografia. Fatto sta che con questo sistema molte torricellane trovarono una buona sistemazione almeno dal punto di vista strettamente economico. Su quello affettivo non è lecito azzardare alcuna considerazione. Tra gli atti ufficiali che precedevano le nozze, il più importante era il fidanzamento: l' uomo accompagnato dai suoi genitori, fratelli, sorelle, si recava in casa della futura sposa per consegnare il fedìno. E qui cominciavano i primi screzi destinati a mai più sopirsi tra le due consuocere. C'era sempre qualcosa che non andava. Ad esempio il fedino era di scarso valore e giù vituperii ed improperii "che sa crede ca mia figlia è na mort de fame. Se putave pijà une chiù meie di quill”.
A cui l'altra rispondeva per le rime, sempre per interposta persona. "Sole che lu stupete de fijeme se putave piià na bruttone come chèll, che n'è capace a fà niend. Nin zà mètt mangh lu file all'ache ".
Superate queste prime schermaglie, se i due fidanzati si amavano, giungevano all'agognato matrimonio, altrimenti si lasciavano e tutto ciò che era stato regalato doveva essere reso, tramite il solito ambasciatore, comprese le eventuali lettere amorose che spesso costituivano motivo di salaci e piccanti commenti da parte delle solite malelingue. Qualche giorno prima della cerimonia nuziale si assegnava la "dodd" (dote), cioè si stilava uno scrupoloso elenco di tutto ciò che la donna recava con sè nella nuova veste di consorte: lenzuola, maglie, mutande, coperte, camicie....
I1 giorno dello sposalizio la donna si recava in chiesa a piedi al braccio del padre, o in mancanza di un fratello o di uno zio, accompagnata da altri parenti tutti ben agghindati per la lieta circostanza. I1 pranzo si faceva in casa, ma poi negli anni '60 cominciò a diffondersi l'abitudine di andare al ristorante, che era più costoso, ma alleviava la fatica e consentiva di poter giovarsi di un menù ben congegnato perchè preparato da cuochi esperti. Le pietanze inoltre erano così numerose ed abbondanti che, pur volendosi abbuffare a crepapelle, non era possibile ingozzare tutta quella roba. E allora perchè lasciare tanta grazia di Dio, per di più pagata e strapagata? In tal modo ebbe origine l'accorta consuetudine di portarsi una capiente borsa in cui si poteva infilare di tutto: polli arrosto, spicchi di torta, dolci, confetti, e chi più ne ha più ne metta! Insomma si faceva un rifornimento viveri per diversi giorni. Naturalmente più erano i commensali, più aumentavano i regali; ma quando a mente serena si andava a esaminarli, ci si ritrovava con una decina di ferri da stiro e centinaia di piatti, tazze e bicchieri sufficienti per aprire un negozio di casalinghi. Avete capito perchè poi inventarono le liste di nozze?


LE FESTE PATRONALI

Canosa di Puglia, Acquaviva delle Fonti, Gioia del Colle, sono località indicate dai cartelli posti lungo l'assolata e rettilinea autostrada (A14) che va a spegnersi a Taranto.
I1 paesaggio, a volte ricco di vigneti e uliveti, a volte brullo, con i bianchi agglomerati urbani che si stagliano nitidi sul cielo turchino, ha una caratteristica tutta particolare che cattura l'attenzione del visitatore, sia pure in una infuocata giornata estiva. Però quei nomi, dapprima indifferenti, man mano che si procede, praticamente in solitudine, cominciano ad evocare qualcosa di remoto e familiare: le feste patronali che si svolgevano nel passato a Torricella. I1 10 e 11 luglio in onore di S.Marziale,il 9 e 10 settembre per S. Rocco e S. Domenico. I più rinomati complessi bandistici provenivano appunto da quelle città pugliesi. Si trattava di grosse formazioni costituite al minimo da 70 elementi. Dopo aver sfilato per il corso, i musicanti si suddividevano in tre o quattro gruppi per suonare nei vari quartieri: le Piane, le Coste, il Calacroce, S.Antonio, seguiti dall'immancabile "chinocchia" sulla quale si raccoglievano "pizze dolci”, "taralli", forme di "cacio" ed altri generi alimentari che poi venivano venduti all'asta. Dietro ai suonatori si formava un allegro codazzo di bambini vestiti a nuovo con l'abito della prima comunione, chi con un paio di occhiali di celluloide, chi con pistole ad acqua, chi con fucili ad aria acquistati nelle bancarelle. Anche gli adulti sfoggiavano abiti con cravatta e tailleurs, nonostante la forte calura. In quei giorni non si lavorava; dalle contrade tornavano "li massariuoli" a piedi o a bordo di asini o cavalli.
Nel pomeriggio si svolgeva la partita annunciata dal banditore all'uscita dalla messa: "Oggi alle ore 16 grande incontro di calcio a Torricella - Villa S. Maria. Intervenite tutti!”
I1 risultato era scontato, in casa aveva la meglio sempre la nostra squadra; l'arbitro, essendo torricellano e non di un paese neutrale, mai si sarebbe azzardato a far vincere gli ospiti, non solo per amor di patria, ma soprattutto per evitare il rancore della tifoseria locale nei suoi confronti, vita natural durante.

La gara di ciclismo

Ai tempi dei mitici Coppi e Bartali si effettuava un’appassionante gara ciclistica che consisteva nel ripetere una decina di volte il seguente percorso: Viale Paolucci, Corso Umberto, curva De Stefanis, Via Occidentale, quest'ultima (come noto) è costituita da un'impervia salita degna di un gran premio della montagna di prima categoria che metteva a dura prova i pochi, ma coraggiosi corridori torricellani: Domenico Antrilli (Mingh de Paiacce), Antonio Larcinese (Panzètt), Antonio Cicchini (emigrato in America), Saverio Di Cino (Samy) ed in qualche edizione Amedeo Silla , figlio del maresciallo che resse la Stazione dei Carabinieri negli anni '50.
Erano tempi in cui il ciclismo raccoglieva il maggior numero di appassionati dopo il calcio.
Nelle fiere si vendevano i caratteristici berrettini a spinchi, muniti di visiera di celluloide colorata con su raffigurati i campioni del momento: Coppi e Bartali innanzitutto, ma anche Magni, Bevilacqua, Poblet, Bobet, ecc. Verso l'imbrunire si dava inizio ai giochi popolari: la corsa nei sacchi,il tiro alla fune, la gara degli spaghetti e per finire l'albero della cuccagna, in cima al quale si ponevano salsicce, un prosciutto, della pasta, un provolone e un fiasco di vino: tutti generi di prima necessità che facevano gola a tanti giovani perciò, nonostante l'ardua impresa, la schiera dei concorrenti era sempre ben nutrita. Prima di cena si dava inizio alla processione.
La statua del Patrono, San Marziale, era attorniata da quattro ragazzi che reggevano dei grossi fusti sormontati dalle "marrocche" (pannocchie), essendo anche protettore delle attività agricole. Visse in epoca paleocristiana e morì martire in tenera età.
San Rocco era francese, i fedeli gli erano particolarmente devoti perchè si prodigò per la cura dei malati di peste, di cui lui stesso fu vittima.
San Domenico veniva invocato ogni volta che in un cespuglio si sentiva un fruscio "San Dumineche mè aiuteme tu!" . Poteva trattarsi di una vipera e il Santo proteggeva dall'eventuale morso di qualsiasi serpente.
Dopo cena il corso si riempiva di gente, paesani e "frastieri"; ai lati si mettevano le bancarelle dei venditori di lupini e "nucèll" (noccioline), dei giocattoli, de "lu gelatare", del tiro a segno con il fucile ad aria compressa del famoso "Zi Giuvann" con un cappello da ammiraglio eternamente imbronciato perchè tutti stuzzicavano la sua inseparabile scimmietta apostrofandola con "scimia cula pelate, scimia cula pelate".
Nei pressi del viale si collocavano le giostre dei cavalli di cartapesta per i piccoli e quelle con le sedie per i grandi.Verso le nove cominciava lo spettacolo musicale su una cassa armonica a cupola riccamente decorata e illuminata da migliaia di piccole luci colorate. Alla banda, in abito di gala, si univano i cantanti lirici e il direttore di orchestra.Bisogna dire che, nonostante la bravura degli artisti e il repertorio eseguito (Verdi, Rossini, Bellini,…) ben pochi ascoltavano con interesse l'esibizione. Tutti gli altri o erano distratti, o chiacchieravano ad alta voce, qualcuno sbadigliava, i marmocchi assonnati frignavano in continuazione. Addirittura una volta un tizio un po' alticcio, durante la pausa, ebbe l'ardire di pretendere: "Maestre, baste che ssì stupedaggene che fa menì lu sonn, nu vulème sendì le bell canzunètt: Lu cardìll, Lu passarièll".
Insomma non era il clima adatto per un concerto lirico. Comunque sia, ad un certo punto la prassi esigeva che una bambina facesse omaggio di un mazzo di fiori al maestro. Allora tutti i bandisti si alzavano in piedi ed eseguivano "La leggenda del Piave". Cosa c'entrasse la I° guerra mondiale con i fiori, non si è mai saputo.

La moda dei cori

Negli anni '60 le bande furono progressivamente soppiantate dalle orchestre di musica leggera, che attiravano molta più attenzione ed ascolto grazie alle formose cantanti che, intonate o stonate, garantivano la presenza di una moltitudine di giovani. Però presto ci si accorse che in quel modo la festa si riduceva ad uno spettacolo serale e notturno; la mattinata non era più ravvivata dalle note della banda, sembrava un giorno come gli altri.
Allora qualcuno ricorse ad un palliativo: siccome per mancanza di fondi, non si poteva usufruire contemporaneamente di un complesso bandistico e di un 'orchestra, si utilizzò la cosidetta “ciabbòtt” formata da sette, otto pensionati che per quattro soldi, con una grancassa, un tamburo, i piatti, una tromba e un clarinetto, facevano un po' di chiasso suscitando più pena che ilarità. Ma anche le orchestrine ebbero vita grama poichè, udite! Udite! le cantanti con i loro abiti succinti, facevano insorgere cattivi pensieri nei giovanissi, almeno così ritennero le autorità ecclesiastiche delle varie curie. I numerosi "pigliatori di feste" rischiarono all'improvviso di ritrovarsi sul lastrico, ma così non fu, sia perchè cominciarono a prendere piede le feste dell'Unità, sia perchè diedero impulso ad uno spettacolo nuovo: i cori folcloristici, che non provocavano certo scandalo dal momento che,le donne indossavano vesti lunghe fino alle caviglie.
In poco tempo spuntarono cori come funghi in tutto l'Abruzzo. Bastavano una decina di ragazzi con cappellacci del nonno e altrettante ragazze con sottane della nonna e una fisarmonica. Ma subito si resero conto che lo spettacolo esibito era "una minestra riscaldata" a base di campanelle tintinnanti, masserie abbandonate e contadinelle dal cuore infranto, il tutto condito con una musica sciatta, melensa e sempre uguale.
Una volta capito che l'esibizione di ragazze in costume da bagno non era più scandalosa, si tornò ai complessi di musica leggera, con buona pace dei bigotti e con la soddisfazione di tutti gli altri.
LA TREBBIATURA.

"Ndunì addò sta maritt? Dije ca è arrevate la machene che trèsch, o che straffà!" "Ma come! Sapave ch’ava meni dumane! Quist nge sta, è ite a respeià la vigne!" "Siénd, i te l'aie ditt. Tu le si coma è lu fatt: o trisch, o spicce l'are!".
La donna naturalmente sa che non c'è tempo da perdere. Chiama suo figlio e gli ordina: "Pje la iumènd, va' a la vigne a chiamà piètrete e dije occarevè subbete ammond ca sema trescà!"
La trebbiatura era nel passato, per i contadini, un evento molto importante e faticoso. I1 lavoro, iniziato a ottobre, novembre con l'aratura e la semina, si presentava particolarmente difficile al momento della mietitura, quando con una piccola falce bisognava tagliare il grano ormai maturo, con l'incombente pericolo di rimetterci il mignolo, vuoi per la fatica, vuoi per i raggi roventi che dardeggiavano sui mietitori, pur se protetti al capo dall'immancabile "paiett". Dopo aver legato "li manuòppre" (i covoni) occorreva depositarli nell'are de Qurìne, de la fond de la sèlve,de lu cambe spurtìve, a la fonde de le coste... dove venivano accatastati da mani esperte, nelle cosidette "carruchele" (biche). Poi giungeva il momento della “trèsche" che non era meno difficoltosa delle precedenti operazioni. Per i bambini però l'arrivo della "machene che trèsch" rappresentava un piacevole diversivo.Non c'era bisogno di essere avvisati, primo perchè d'estate, tolti quei dieci minuti per il pranzo, tutti stavano fuori a giocare. Secondo: i trattori a testa calda che trainavano le trebbie erano talmente assordanti, che se ne percepiva l'arrivo già quando si trovavano "a la crucétt" o "a la pasture".
Una volta giunto in paese, frotte di ragazzini festanti e vocianti, si accodavano allo sbuffante convoglio, per poi assistere alle complesse manovre " p'appustà la machene". Si trattava di un vero e proprio rituale che richiedeva abilità ed esperienza fuori dal comune, soprattutto quando si doveva accedere “all'are de Qurìne" il cui imbocco era costituito da una insidiosa salitella che metteva a dura prova anche i più incalliti trattoristi. Dopo aver espletato i preliminari, ognuno prendeva il suo posto: "lu paiarìne" con paglietta ed occhiali da aviatore anteguerra, coadiuvato da due donzelle, si piazzava in cima alla macchina ed infilava i covoni sciolti fra gli ingranaggi. Altri due "stennave le manuoppre” con la forca. Poi c'erano gli addetti ai sacchi, tenuti costantemente d'occhio dal trattorista che portava il conto dei quintali prodotti incidendo "le ndacche " su una canna.
Intanto i sacchi riempiti venivano caricati sul carro dei buoi per essere condotti a destinazione. Ma non era finita! Infatti se si doveva affrontare "nu capescale" in salita, occorreva un supplemento di fatica. Tale compito veniva espletato dagli uomini più forzuti che, per mancanza di spazio depositavano il grano un po' dappertutto, perfino in camera da letto! Nel frattempo altri si incaricavano di innalzare le mucchie di paglia per mezzo dello "scalapaie". Insomma c'era un viavai di gente indaffarata in un frastuono assordante che si placava quando il trattore smetteva il suo interminabile ronzare. Allora tutti si riparavano all'ombra di una quercia frondosa, veniva steso per terra un candido "mandìle" (tovaglia) e, spossati ma felici, si dava inizio al pranzo a base di "gnuccùne" al ragù, carne e "pagnuttéll", con abbondanti libagioni di vino "casareccio". Tutti gli uomini tracannavano i bicchieri senza remore, tranne uno: lu paiarìne, che si doveva mantenere sobrio per la successiva trebbiatura. Poi la stanchezza e i fumi dell'alcool cominciavano a far sentire i loro effetti: a uno a uno i contadini si abbacchiavano per dare inizio ad un meritato riposo. Le donne no, era sconveniente per loro appisolarsi all'aperto, esse si dedicavano a "rezzelà lu mandìle e l'ieldre mbicce". A quel punto i bambini davano sfogo all'impazienza, scorrazzando tra la paglia, si buttavano sulle morbide montagne di "cama" (pula), giocavano “attinguele” (nascondino) finchè non giungevano le ombre della sera.


IL GIOCO DEL CALCIO

Le tradizioni calcistiche torricellane hanno radici profonde. Già negli anni '20 - 30 il gioco del pallone veniva praticato da diversi giovani del paese. Ma il vero boom si ebbe negli anni '50 e '60, in cui tutti i maschi dai sei ai trent' anni, appena si presentava l'occasione ed in qualsiasi spazio libero si mettevano a giocare con una palla o con un pallone.
A quei tempi però si svolgevano partite solo durante il periodo estivo, quindi la nostra squadra non partecipava ad un regolare campionato. Si trattava dunque di incontri amichevoli con i paesi vicini: Gessopalena, Colledimacine, Villa Santa Maria, Casoli, più raramente Palena e Lama. Comunque il termine "amichevole" qui deve essere interpretato con beneficio d'inventario, infatti il clima era piuttosto rovente, non solo per il caldo, ma soprattutto per le frequenti scazzottate tra giocatori e tifosi che facevano parte integrante dello spettacolo. Più di una volta la squadra ospite ritenutasi ingiustamente penalizzata dall'arbitro, niente affatto neutrale, o più spesso per le proporzioni della batosta subìta, serrava le proprie file e poneva fine unilateralmente alla partita. I1 campo sportivo si trovava, come oggi, "abball pe le fuoss" era un po' più piccolo di quello attuale, ma in compenso era erboso, grazie alle pecore che vi pascolavano, tenendo così l'erba fresca e bassa. Su due lati c'era una tribuna naturale formata da un terreno scosceso ed alberato. Gli spogliatoi consisteveno in due grossi olmi frondosi; pertanto la cerimonia della "vestizione" avveniva di fronte ad un piccolo pubblico composto da ragazzini, desiderosi di conoscere nelle più profonde intimità i loro idoli. Tra i calciatori degli anni '50 ricordiamo: Antonio Di Jorio, Camillo Antrilli, Nicola Rotondo, Camillo De Marinis, Giulio Piccone, Giulio De Stefanis, Carlantonio Monaco, Pietro Testa, Nicola D'Orazio, Mimmo Palizzi, Carlo D'Ulisse, Gino Di Martino, Giovanni D'Ulisse, Gianni Materazzo, Tonino Carapella, Ugo Minniti, Gilberto Piccone, Camillo Di Jorio ed altri di cui ci sfugge il nome. Nel 1964 si decise di fare le cose in grande: il cosiddetto ''TROFEO JUVANUM" tra le squadre di Torricella, Gessopalena, Colledimacine ed Altino. Per la prima volta ci sarebbero stati arbitri neutrali, una classifica, un premio fina¬le. La nostra compagine iniziò nel migliore dei modi, se la memo¬ria non ci tradisce (ne sono passati di anni!), ottenne una vitto¬ria in casa e un pareggio a Colledimacine. Sospinti dalle ali del¬l'entusiasmo, la tifoseria nostrana, in occasione della terza partita con Gessopalena, in casa, organizzò una sfilata in grande stile per le vie del paese, al canto di "Ve lo facciamo nero, ne¬ro, ve lo facciamo nero come il carbon". Qualcuno rivolto ai nostri calciatori diceva "Uaiù ni i ni facéte tropp a chiss ca sennò iattocch a pijà nu sacch pe méttece li uoll". Oppure: "Uoje i sema purtà la cannucce pe segnà le uoll!" E invece così non fu, per la prima volta nella storia del calcio gli "odiati" gessani espugnarono il nostro campo, 1asciando tutti nella più tetra costernazione, tranne i soliti “visciarielli' di Falla¬scoso pronti a tifare, come sempre, per gli avversari. Ormai la vittoria finale era seriamente compromessa, ma da Altino giunse una notizia che praticamente salvò capre e cavoli, infatti l'altro incontro tra Altino e Colledimacine era finito a botti¬gliate in testa, in tal modo, di fronte a così poco allettanti pre¬messe, si decise di porre termine al torneo; nè alcuno si azzardò a riproporlo in seguito. Tra i giocatori di quei tempi figuravano: Gaetano Di Pentima, portiere dalle uscite spe¬ricolate, il libero Antonio Ficca, Gabriele Piccone attaccante, i fratelli Camillo, Antonio e Luciano Porreca; Giose Di Jorio e Alberto Carapella, due ali dal tiro possente ed infine Antonio Antrilli che, a giudizio di molti è stato il giocatore torricellano più estroso di tutti i tempi.


LA VENDEMIA

"Quand'é bbèll a ì'ngambagne, quand'è tembe de vellégne... " diceva una canzonetta lanciata da Cesare de Cesaris agli albori degli anni '60. In effetti la vendemmia ha sempre rappresentato un momento di allegria soprattutto in paesi come Torricella dove l'agricoltura veniva praticata con tanti sacrifici ma con scarsi risultati. A ottobre le calde giornate dell'estate erano ormai un ricordo, i villeggianti non invadevano più la pineta; i ragazzi tornavano a scuola; le strade apparivano solitari; l 'autunno avanzava lentamente. La zona più folta di vigne si trovava "a lu Carpene".
Di buon mattino i vignaioli, accompagnati dalle mogli e di pomeriggio anche dai figli liberi dall'impegno scolastico, si recavano verso la campagna chi con 1' asino, chi con il mulo e chi con il cavallo. Le macchine e i trattori ancora non si vedevano da queste parti, se si eccettuano un paio di vecchie "Balilla". Lungo i sentieri che portavano alle vi¬gne era un continuo e allegro vociare di gente indaffarata. Qualche ora più tardi ecco apparire il primo carico d'uva messa nei cesti e ben coperta per evitare le fastidiose ve¬spe ed api. Al ripasso dei vignaioli tanti ragazzi si appo¬stavano per chiedere in regalo qualche "scanda" (grappolo) d'uva. Bisogna dire che il più delle volte le loro attese venivano premiate, specialmente quando c'era una buona anna¬ta . In tempi di ristrettezze ricevere gratis un po’ di frutta certo non dispiaceva! Tra i più espansivi nel donare, me¬rita di essere menzionato Mario Piccoli di Cilloppòmm, da tanti anni emigrato oltre oceano. Quando lo vedevano arrivare, i bambini subito gli si accostavano e lui, con la sua na¬turale bonomìa, senza farsi pregare, fermava il cavallo, scio¬glieva la corda che teneva legato il panno per coprire i grappoli e ne dava un po' a tutti. Negli stessi giorni i falegnami del paese si davano da fare per costruire o per riparare gli attrezzi necessari alla vendemmia: "baunz" (bigon¬ce), pigiatrici, "tiniecce" (tini) , "bagnaròle" e simili.
I negozianti invece esponevano "le vott e le vasciell" (le botti nuove), che bagnandosi sotto la pioggia si stendevano. Le cantine lentamente si riempivano del prezioso prodotto destinato alla pigiatura con i piedi (op¬portunamente lavati), quindi il tutto veniva passato al torchio per un'ulteriore spremitura. Intanto per le strade si spandeva il dolce profumo dell'uva fermentata. E qui il pensiero corre subito alla celebre poesia del Car¬ducci "San Martino". "...ma per le vie del borgo/dal ribol¬lir dei tini/va 1' aspro odor dei vini/l'anime a rallegrar." L'ultima fase consisteva nel versare il mosto nelle botti, dalle quali di lì a qualche mese sarebbe uscito nelle sem¬bianze di vino.
I1 famoso proverbio: "A San Martino ogni mosto diventa vino" per i vignaioli torricelliani era alquan¬to bugiardo,infatti per assaggiare quello novello bisognava attendere le feste di Natale. I1 rito della prima degusta¬zione spettava al più anziano della famiglia dunque a "tatòne" il quale, prima di portare il bicchiere sulle labbra, ve¬rificava la limpidezza del prodotto esponendolo alla fioca luce proveniente dalle "finestrelle" della cantina.
"Gnà è chiare o trovete?" faceva una voce giovanile dalle retrovie "Statt zitt mammocce nell vide pure tu coma è?" gli rispondeva qualcun altro. Dopo l'assaggio, ancora silenzio dal grande vecchio, poi finalmente il fatidico responso: "Pò i " (può andare).
Un lampo di gioia si stampava sul volto di tutti i presen¬ti. Seguiva una meritata sbicchierata per onorare il vino novello che avrebbe tenuto una buona compagnia per tutto il lungo inverno. Cosa c'era di meglio per rendere ancora più gustosa una patata arrostita " a lu furulare "? . Ma la lieta fi¬ne non sempre era garantita, anzi...a volte dopo l'assaggio, il vino appariva "ncetito" (acetoso) oppure "sciacqua, sciacqua" o addirittura aspro al palato. In tal caso bisognava fare buon viso a cattivo gioco
Per concludere è necessario citare un altro squisito deri¬vato dell'uva: "lu mistecott" (il mostocotto) usato come compa¬natico per i bambini inappetenti; come indispensabile ingre¬diente per i rinomati "celli pieni" e per ottenere il prelibato "sanguinaccio" sul cui sapore non occorrono altri ag¬gettivi perchè molti torricellani lo conoscono. Quei pochi che ancora non l'avessero gustato, compresi i numerosi "fra¬stieri" che visitano il paese, si rivolgano a qualche brava massaia che abbia la pazienza di prepararlo: si leccheranno le dita e i baffi quando avranno avuto l'opportunità di assaggiarlo.


IL CINEMA

Spesso, sia la RAI che MEDIASET, trasmettono, tra gli altri, i vecchi film dell'indimenticabile Totò. Ebbene, strano ma vero, buona parte di essi, chi ha ormai i capelli grigi, li aveva già visti in epoca remota nel cinema di Torricella, che si trovava al piano terra della scuola elementare. Esso dapprima fu gestito da Armando Passalacqua, che era anche un ingegnoso elettrotecnico, ma si può ben immaginare quanto poco lavoro avesse da svolgere in tempi in cui gli unici elettrodomestici consistevano in pochi apparecchi radio e in qualche sgangherato grammofono a manovella. Infatti finì per espatriare negli USA dove sicuramente poté mettere a profitto le sue capacità. La gestione del cinema passò quindi alla Ditta Di Sangro Nicola e Figli. Naturalmente, dati i tempi, non certo floridi, la nuova società, nonostante i buoni propositi, si barcamenava tra. mille difficoltà, perciò si doveva limitare a proporre film poco costosi, soprattutto western e comici. Tuttavia vi era un nutrito gruppo di incalliti cinef'ili così impazienti, che per cono¬scere anzitempo il titolo del film in programmazione per la settimana successiva andavano a leggerselo sulla "pizza"spedita da Pescara con la corriera delle cinque. L'inizio dello spettacolo pomeridiano era fissato per le ore quindici di ogni domenica, ma si trattava di un'indicazione del tutto aleato¬ria che, in termini matematici si potrebbe definire come una "variabile dipendente” nel senso che l'avvio della proiezio¬ne cambiava sempre orario e dipendeva dall'afflusso degli spet¬tatori. Per farla breve: quando in sala c'era un discreto nume¬ro di persone si mettevano in moto le macchine, il che avveniva sempre con notevole ritardo, così il pubblico spazientito protestava scandendo ritmicamente e a gran voce: "o ra rio, o ra rio". I1 locale era costantemente pervaso da una densa nuvolaglia di fumo che rendeva l'aria irrespirabile e ancor più offuscate le già sbiadite immagini sullo schermo. Tutti fumavano, anche gli sbarbatelli che, approfittando del buio, davano libero stogo a quel desiderio represso per tanto tempo. Salvo poi ad essere smascherati da qualche "spione" che andava a riferire tutto ai genitori. A volte la visione della pellicola era preceduta dai cosiddetti cinegiornali, che però essendo proposti in ritardo, minimo di sei mesi, riferivano su avveni¬menti ormai superati, per esempio a Natale capitava di vedere immagini di spiagge infuocate gremite di bagnanti, mentre a Torricella c'era un gelo da far rabbrividire. Durante le proiezioni poteva accadere di tutto: ragazzi squattrinati che scagliavano sassi sulle porte. improvvisa mancanza di corren¬te. In quest'ultima evenienza la sala restava completamente buia e così i più scalmanati ne approtittavano per gridare, fischiare o battere rumorosamente i sedili pieghevoli contro il poggiaschiena. Un inserviente allora si precipitava ad aprire le porte rimanendovi nei pressi per impedire che qualcuno approtiffando del trambusto, si intrufolasse furtivamente in sala. La giornata dell'Epifania era de1 tutto particolare. C'era una folla strabocchevole e nelle prime file i soliti schiamaz¬zatori che erano più turbolenti del solito per via delle pisto¬le a tamburo ricevute nella calza. Provate a immaginare (o a ricordare) cosa accadeva se si proiettava un western! Quando non se ne poteva piu, dopo numerosi e infruttuosi richiami, lo spettacolo veniva interrotto, si accendevano le luci e doveva intervenire "zi Nicola" : ''Chi è stato?! Se continuate così vi caccio tutti fuori". Figuriamoci se qualcuno si dichia¬rava colpevole! Né tantomeno chi, innocente, si azzardava ad accusare i più facinorosi: avrebbe rischiato un pre linciag¬gio appena spente le luci, per poi beccarsi il resto un istante dopo aver messo piede fuori dal cinema. Comunque la ra¬manzina di zi Nicola contribuiva a riportare un po' di calma.
Molto spesso sul più bello la proiezione si interrompeva perché "s'ave stuccate la pelliquele" ed anche in tale frangente si levavano bordate di fischi e di grida di disapprovazione. Alla fin fine si trattava pur sempre di film che avevano fatto il giro di tutta l'Italia! Comunque nonostante questi insormon¬tabili contrattempi, il cinema a Torricella contribuì sicura¬mente a migliorare il livello culturale e soprattutto a favori¬re i contatti sociali fra la gente. Era l'occasione propizia per scambiarsi informazioni, novità dell'ultima ora "Li sì ca Necole part pe lu Canadà". "Maestre coma va fijeme a la scole?" Richieste di lavoro: "Ndo, dumane matìne pu menì a la case ca me s’é rott lu lavandine?". C'erano inoltre dei veri e propri appassionati che rivedevano fino alla nausea lo stesso film e se disgraziatamente te ne capitava uno vicino, ti rendeva la vita impossibile perché voleva a tutti i costi anticiparti la trama. Uno di questi personaggi, di cui è meglio non fare il nome per non infrangere la legge sulla privacy, accanito fan di Eddy Costantine, famoso attore poliziesco, ne imitava anche i gesti, con il fondato pericolo di mollarti uno sganas¬sone in faccia! All'inizio degli anni '60 però cominciò l'inelut¬tabile declino delle sale cinematografiche italiane, causato principalmente da uno scatolone di legno con uno schermo di vetro chiamato "televisione". A Torricella fece la sua compar¬sa nel 1956, ironia della sorte, ad opera di Armando Passa¬lacqua poco prima di fare le valige per l'America. A dire il vero quello strano marchingegno non fece una buona impressione. Dopo un'iniziale curiosità, prevalse lo scetticismo o addirit¬tura l'indifferenza nei suoi contronti, pienamente giustificati dal fatto che si vedevano delle ombre che si muovevano, coper¬te da una specie di nevischio "sémbre ca néngh" era il commen¬to di tutti. Nel giro di poco tempo però le immagini migliora¬rono; cominciarono i primi acquisti di televisori, finché ne fu installato uno presso l'UNRRA e poi un altro all’ONARMO. In tal modo, essendo l'ingresso libero e gratuito' nessuno più frequen¬tava il cinema, che già assillato da tanti problemi, fu costretto ¬a chiudere definitivamente i battenti.

IL GENERALE INVERNO

1) Le Abbondanti Nevicate

L'arrivo dell'inverno a Torricella non coglieva certamente di sorpresa nessuno, perciò già in autunno ci si preparava ad affrontarlo adeguatamente facendo copiose scorte di legna. Quando si verificavano nevicate abbondanti, le strade si bloccavano; i contatti con i paesi vicini si interrompevano; non circolavano le corriere e la posta veniva portata dai cosiddetti "procaccia" che viaggiavano a piedi da Gessopalena.
I passeri intirizziti ed affamati si rifugiavano a stormi in un locale posto nei pressi del mulino in cerca di cibo e di un po' di tepore, molti restavano miseramente impigliati nelle trappole (ritrapele) destinati a fare da gustoso contorno alla polenta. Una volta cessata la bufera, una squadra di spalatori si dirigeva verso la via che va "a lu Jéss" (via Peligna) per ripristinare il passaggio dei pullman, ma occorrevano diversi giorni di lavoro prima che si tornasse alla normalità. Poi finalmente l'Amministrazione provinciale di Chieti decise di assegnare uno spartineve da utilizzare in tutta la zona. Le nevicate si presentavano in due modi del tutto diverse: più spesso con il vento gelido (vuoiere) accompagnato da raffiche impetuose (li spruvelizz); più di rado sommessamente, o come direbbe il poeta, "con zampe di gatto". La neve così giunta per i bambini era la più gradita perché appariva d'incanto aprendo al mattino gli sportelli delle finestre. Ma a voler essere pignoli, qualcuno presagiva la lieta sorpresa dai fiochi rintocchi dell'orologio della chiesa e dal marcato bagliore proveniente dalle fessure delle imposte. Fatto sta che appariva un paesaggio incantevole, ad esempio la pineta con i suoi alberi ricoperti dal candido manto simile a morbida bambagia, non aveva nulla da invidiare ai pittoreschi quadretti delle cartoline natalizie. Ma l'atteggiamento degli adulti era meno incantato e molto più prosaico: per loro l'inverno significava maggior consumo di legna, malanni, scarso lavoro, perciò spesso ammonivano : "n'é niend quand néngh, ma quand squaie" e facevano di tutto per risparmare, a cominciare dagli scarponi che venivano abbondantemente cosparsi di "séve" (sego) che garantiva l'impermeabilità delle tomaie. Inoltre per salvaguardare le suole usavano "le cindrélle" cioé dei chiodi corti con testa larga, le quali però sul ghiaccio costituivano un pericoloso incentivo a finire a gambe all'aria. A1 contrario esse si rivelavano molto efficaci quando si doveva "affelà la sciuvelarèll ". La più famosa, menzionata nella conzone "Zia sé" iniziava dalla "ruve di Signuriell" proseguiva davanti al palazzo scolastico ed andava a terminare alla Pastùra.
A volte nevicava per settimane intere, poi improvvisamente usciva il sole, che riflettendo i suoi raggi sul manto bianco, abbagliava la vista; il cielo appariva terso e turchino; tutto il paese si riversava nel Corso; i negozi e "le putéche" riprendevano le loro attività; riaprivano le scuole; molti spalavano la neve davanti alla propria abitazione; gli anziani, chi con i pastrani, chi con cappotti militari "made in USA", si esponevano al caldo sole davanti al garage delle corriere. Le loro conversazioni spaziavano dalle dispute sui massimi sistemi esistenziali ai minimi problemi della sopravvivenza quotidiana, con frequenti digressioni di spicciola cronaca paesana.
Quando però il sole si coricava dietro i monti della Majella, tutto veniva intrappolato dalla gelida morsa del ghiaccio: i canali smettevano di gocciolare, il corso si svuotava, ed era quindi gioco forza che anche la nostra truppa di anziani si trasferisse verso lidi più confortevoli: chi tornando accanto al focolare domestico; altri si recavano presso il "salone Peschi". Quivi le discussioni proseguivano nobilitate dalle strabilianti notizie snocciolate (meglio sarebbe dire: inventate) dal titolare della barbierìa. Ma bisognava pure ammazzare il tempo in qualche modo!
I bambini e i ragazzi, dopo aver assolto il barboso dovere della frequenza scolastica e dopo aver frettolosamente mangiucchiato qualcosa a pranzo; s'involavano verso la pineta per sciare o per rotolarsi nella soffice coltre, infischiandosi delle raccomandazioni delle mamme: "Nin gi ì a la pinéte, ca fa lu frédd, te vé la brunghite. Dope sa stà a lu lett!". Ma era fiato sprecato! Puntualmente però, qualche giorno dopo, si avverava la profezia. Gli sci o la slitta consistevano in pezzi di legno preparati alla bell'e meglio, le racchette erano due manici di scope. Il più delle volte gli attacchi si staccavano al minimo urto, per questo bisognava portarsi dietro tutto l’armamentario adatto alle riparazioni: chiodi, martello, pinze ecc. I giovanì e i ragazzi più coraggiosi invece preferivano recarsi "arréte a cort" dove il dislivello della pìsta era molto più accentuato e consentiva di provare forti emozionì. Nel tornare indietro però, la piacevole discesa diventava un'ardua vetta da scalare (si tenga presente che occorreva trascinarsi dietro dei pesantìssimi sci!) Insomma alla fine della giornata si tornava a casa stanchissimi e zuppi di sudore. Ma cosa non si faceva, pur di trascorrere una giornata in allegria?!

2) Tempo di Lupi

Durante l'inverno si parlava spesso di lupi, o meglio di orme. Una volta un esemplare ebbe l'ardire di spingersi fino al centro abitato dove azzannò a morte un cane legato alla catena, ma non sbranò la povera bestia, probabilmente perché disturbato da qualche rumore. I1 giorno dopo tutto il paese ebbe l'opportunità di notare la lunga fila di "pedate" (orme) che dal luogo del misfatto "arréte a le Prane" conducevano verso "li mund" e forse più in là fino ai boschi di Montenero e di Civitaluparella. La notte successiva legarono un altro cane allo stesso luogo. Dei cacciatori si appostarono dietro le case per sorprendere il lupo, ma evidentemente non avevano fatto i conti con il suo fiuto eccezionale: non si fece vivo né quella notte né mai più. Ormai per il paese si stava diffondendo un'autentica psicosi da lupo. Molti asserivano di averlo visto chi di qua, chi di là e finalmente un pomeriggio si sparse la notizia che tutti aspettavano "anòme accìse lu lupe". Poco dopo, il Corso si riempì di gente nonostante fosse una gelida e plumbea giornata con neve piuttosto alta, apparvero trionfanti i cacciatori, due dei quali portavano penzoloni su una pertica il corpo esanime della famigerata bestiaccia che tanta apprensione aveva suscitato nell'intero circondario. Finalmente il protagonista di tante malefatte veniva ripagato con la stessa moneta. Cappuccetto Rosso, la nonna, l'agnello di Fedro, il cane di Torricella erano finalmente vendicati! Tutti volevano vedere, toccare, quasi increduli. Fu una giornata indimenticabile soprattutto per gli eroici cacciatori, i quali raccontarono con dovizia di particolari come avevano freddato il pericoloso animale. Ma, come capita spesso, c'è sempre qualcuno che vuole rompere le uova nel paniere, insomma vuoi per invidia o per innata sfiducia verso il prossimo, vi fu chi osò addirittura affermare che la bestia ammazzata era un comune pastore tedesco. Ma nessuno gli diede ascolto. Erano passati pochi giorni dalla fatidica impresa, quando un bel dì si seppe che una donna, forse di Montenero, con toni poco rassicuranti andava alla ricerca di coloro che avevano soppresso il suo cane per fargli fare la stessa fine!

3) L’Accendino

I1 lupo fu protagonista di un altro episodio a Torricella, sempre in periodo invernale. Era una di quelle notti che appunto si dicono "tempo da lupi" turbinava un vento gelido da staccare le orecchie; la neve era già alta, si fatatica a camminare; le luci erano spente, non si vedeva anima viva. Un giovane – è impossibile ricordarne il nome e dove fosse diretto - all'improvviso si sentì afferrare dietro la nuca da una morsa che lo immobilizzò. Cercò di divincolarsi, ma inutilmente. Benché sopraffatto dal terrore, capì che si trattava di un lupo, non solo, ma ebbe il sangue freddo di ricordare' che in tasca c'era un accendino. Lo afferrò, cercò di accenderlo, ma non ci riuscì. Nello stesso istante sentì la morsa allentarsi, vide incredulo i1 mostruoso corpo scuro scattare a1l 'indietro e scomparire nella tormenta e nelle tenebre! Lui era salvo grazie ad un'innocua scintilla ... e al vizio del fumo!

4) L’Elicottero

Un anno, forse nel '56, nevicò per una settimana di seguito, con “spruvelizz e vuoiere" che non davano tregua. A ciò si aggiunga la consueta mancanza di energia elettrica e si può immaginare l'apocalittica situazione che venne a determinarsi. Alcuni giorni dopo, quando finalmente tornò il sole, all'improvviso si udì nel cielo un rombo assordante: era un elicottero che si dirigeva verso il campo sportivo. Tutto il paese si riversò per le strade e molti si scapicollarono "abball pe le fuoss" per guardare da vicino quello strano macchinario che nessuno aveva mai visto in vita sua. Dopo l'atterraggio, scesero alcune persone che parlarono con le autorità cittadine.. Finita la chiacchierata, il velivolo ripartì provocando un fuggi-fuggi generale tra la folla a causa della neve sollevata dalle pale rotanti. A distanza di tanti anni è impossibile ricordare quali fossero gli effetti pratici di quell'insolita comparsa, comunque, da quel dì nei disegni dei ragazzi, accanto alle solite case con le immancabili montagne, cominciarono ad apparire con ritmo crescente, scarabocchi somiglianti ad elicotteri.

IL NATALE

I1 Natale è indubbiamente la Festa più amata dagli Italiani. Anche a Torricella era molto sentita, basti ricordare questi detti per capire come fosse intensa l'attesa: "Sanda Necole, Natale a diciannove" "Sanda Cungètt, Natale a diciassètt" "Sanda Lucia, Natale a tridìcine" "San Tumass, Natale a quattr pass". I1 presepe e l'albero, come tradizione consolidata, venivano preparati il giorno dell'Immacolata. Presso il negozio di Gerardo Porreca (dove oggi c'è la farmacia) venivano esposte le statuette di gesso (li pupièzz) e i bambini si assiepavano davanti alla vetrina per ammirare estasiati quei graziosi oggetti ai quali ogni anno si aggiungevano delle novità. Intanto cominciava la ricerca del muschio (muscill): la mattina a scuola ci si metteva d'accordo e il pomeriggio si partiva alla volta di qualche boschetto, ma spesso si ritornava a mani vuote. Per l'albero l'impresa era più ardua. Premesso che non si poteva comprare l'abete, né vero né finto, perché non era in commercio, bisognava ricorrere a "lu inibbele" (il ginepro) un arbusto dalla forma non molto aggraziata, che per di più ha la pessima abitudine di andare a spuntare in luoghi montuosi o poco accessibili, non solo, ma i suoi rami sono ricoperti di fastidiosissimi aghi, pronti a pungerti appena li sfiori. Ciò nonostante parecchi ragazzi torricellani si avventuravano alla ricerca di quelle piante per addobbarle in casa propria o più spesso, per ricavare qualche spicciolo dalla loro vendita. In chiesa una decina di giorni prima del 25, tutte le sere, si svolgeva la novena natalizia. Ai bambini era riservato il posto intorno all'altare, per loro il momento più bello era quando si eseguiva la canzoncina "Bambinello, bello, vieni vieni non tardar". Da un altoparlante si diffondevano le suggestive note dell'Ave Miaria di Gounod. Inoltre durante tutto il periodo delle feste era in funzione una megapesca di beneficenza, al cospetto di un grosso albero, con gli oggetti forniti gratuitamente dai negozianti del paese. I1 premio di maggior valore era un orologio da polso che, sebbene di dubbia qualità, era ambito da molti, non solo, ma si faceva desiderare tanto, infatti il numero ad esso corrispondente, strano ma vero non veniva estratto mai prima del 6 gennaio! Almeno così risulta dagli annali della storiografia torricellana.

Dolci e Pranzi
Nei giorni che precedevano immediatamente il Natale le mamme e le nonne si trasformavano in abili pasticciere. Tra le più assidue in queste piacevoli faccende meritano di essere ricordate zia Iole TETI e zia Rosina PORRECA, la cui abilità nel preparare fritti, celli pieni, calzoni, amaretti, pizzelle, ostie ripiene, (fiadoni a Pasqua), era nota a tutti. Molte giovani donne ricorrevano ad esse per apprendere l'arte di preparare i dolci.
I1 panettone fece la sua comparsa negli anni '60, ai tempi del cosiddetto "miracolo economico" ma per qualcuno l'opportunità di assaggiarlo per la prima volta fu offerta da Gilberto Porreca, il quale, in occasione delle festività, soleva regalarlo ai clienti più assidui del suo negozio. La Vigilia, chi poteva permetterselo, mangiava il capitone, altrimenti si ricoreva al baccalà. La mattina di Natale i bambini si recavano in casa dei parenti per formulare gli auguri, recitare la poesia e soprattutto per ricevere qualche dono in denaro. Prima del pranzo, sotto il piatto del capo famiglia, ponevano la letterina. "Cara mamma e caro papà, in questo lieto giorno di festa e di pace in cui è nato il Bambino Gesù, io vi voglio augurare con tutto il cuore di stare bene in salute, come pure ai cari nonni, agli zii, ai cugini e ai parenti tutti vicini e lontani. Prometto che da oggi in poi sarò più buono, più ubbidiente e più studioso.
Vi prometto che non dirò più le bugie e le parolacce. Tanti saluti e Buon Natale a voi tutti dal vostro affezionatissimo figlio Antonio".
Finalmente iniziava il pranzo con antipasto, brodo di tacchino, pasta alla chitarra, ragù e arrosto di agnello, frutta, dolci, vino a volontà. Dopo la grande abbuffata, tutti al cinema! Generalmente si proiettavano film comici che si confacevano al gusto di tutti: grandi e piccoli, uomini e donne. Dopo il cenone di San Silvestro, ecco infine l'Epifania "che tutte le feste si porta via". Comunque la tristezza per la fine delle vacanze era abbondantemente superata dalla gioia per la sorpresa della calza piena di tanti regali: torroni, cioccolatini, qualche giocattolo (pistole, bambole, cavallucci di cartone...). La chiusura ufficiale delle feste avveniva il pomeriggio del sei gennaio in chiesa mediante il bacio del Bambinello.


LA DONNA VENUTA DAL NORD

I1 nome Margherita Colombo probabilmente non dice nulla ai Torricellani ma se si aggiunge che era "la signorina dell'Urr", quelli non più giovani faranno subito un balzo all'indietro di circa 40 anni con la loro memoria. Proveniva da Rovereto in provincia di Trento; era un'assistente sociale inviata nel '57 dalla cosidetta UNRRA (Amministrazione delle Nazioni Unite per gli aiuti e la ricostruzione) con il compito di dare una mano alla popolazione per riprendersi dalle gravi ferite ereditate dalla guerra. La Sig.na Colombo aveva le fattezze tipiche della gente del Nord, ed anche il carattere: energica e risoluta, puntuale nel lavoro. A queste doti aggiungeva una straordinaria capacità di attirare la simpatia di quanti avevano a che fare con lei, riuscendo ad inserirsi magnificamente nell'ambiente del paese, che per costumi, tradizioni e lingua era ben diverso dal suo. Non aveva soggezione dei potenti ed appariva cordiale con le persone umili e semplici. Quante volte la vedemmo sotto braccio a qualche anziana contadina passeggiare per il corso! Allo scopo di mostrarsi più confidenziale, a volte si sforzava di parlare il nostro dialetto infondendo buon umore nei presenti. Comunque, sia chiaro che qui non si vuole tentare di abbozzare una specie di biografia di una persona che, tutto sommato, ai più è sconosciuta, però riteniamo conveniente rammentare quello che fece in tre anni scarsi per ampliare la crescita culturale dell'intera cittadinanza. E' anche necessario tener presente che al momento del suo arrivo fu aiutata da un avvenimento destinato a rivoluzionare la vita degli Italiani: la diffusione a livello popolare della Televisione. I ricchi del paese ce l'avevano già, ma la stragrande maggioranza ne era priva, pertanto specialmente i bambini alle 17,30 quando c'era la TV dei ragazzi, dovevano sottoporsi all'umiliante operazione di bussare alla porta di qualcuno che consentisse loro di assistere al sospirato telefilm (Campione, Rin Tin Tin, Jim della Jungla..). Quando si sparse la voce che presso i locali della "Signurìne dell'Urr", tutti potevano vedere le trasmissioni televisive, fu come una manna caduta dal cielo. Ma lei non si limitò a questo.Con l'aiuto dell'ins. Germana Piccone, mise su un doposcuola a cui potevano accedere gli scolari delle elementari e delle medie, per eseguire compiti e per dedicarai ai lavoretti, disegni, pitture usando acquarelli, tempere che molti non possedevano per l'alto costo. Fu proprio durante quei pomeriggi trascorsi insieme, che un gruppo di amici, dopo numerosi tentativi, riuscì a realizzare il primo telegrafo con i fili della Storia torricelIana! Grazie anche alla piccola biblioteca da cui fu tratto il volume recante le istruzioni relative alla messa in opera dell'apparecchio elettrico. La signorina "dell'URR” si interessò anche di sport: comprò un pallone di cuoio nuovo, consegnò una maglia tipo baseball e dei pantaloni appartenuti a qualche reggimento di spilungoni americani alti un paio di metri; da essi furono ricavati dei calzoncini che puzzavano di naftalina anche se li tenevi a bagno per una settimana! Per la squadra giovanile di calcio fece confezionare delle maglie di lana (si può immaginare il conforto durante le partite di luglio e agosto!).
Gli adulti assistevano agli spettacoli TV serali: alle otto e mezza c'era il telegiornale, fedelmente allineato sulle posizioni delle autorità costituite. Poi venivano i famosi "Lascia o raddoppia", “Il Musichiere”, "Telematch" , ecc.
Il lunedì, la serata era dedicata ai film made in USA anni '30 e '40, dove imperversavano telefoni, lavatrici, frigoriferi e tanti sorrisi durbans. (Gli americani sono sempre stati maestri della pubblicità occulta e a costo zero!)
Fu istituito un consiglio direttivo eletto dai frequentatori del centro: tra i suoi membri figuravano il presidente e il cassiere. L'UNRRA, come scopo, si prefiggeva anche il compito di aiutare le famiglie bisognose, infatti di tanto in tanto le riforniva di formaggini, gallette, farina lattea, marmellata, ed altri prodotti alimentari, somministrati a spese del governo statunitense. La signorina Colombo con il suo modo d'agire influenzò, sia pure indirettamente, le abitudini soprattutto delle donne atavicamente abituate ad avere un ruolo secondario nei rappporti sociali. Lei invece andava in giro con i pantaloni, d'inverno sciava con i ragazzi, parlava di politica, destando le maldicenze degli anziani, che in buona o in malefede, non erano ancora abituati ad un simile comportamento.
Ma l'interessata non se ne curava, sicura di non offendere la pubblica decenza. In un primo momento le giovani del paese restarono imbarazzate, ma in seguito, anche perchè sollecitate dalle trasmissioni televisive, recepirono le nuove usanze con naturale spontaneità. Un bel giorno, come fulmine a ciel sereno, si diffuse l'inaspettata notizia che doveva andar via da Torricella perchè destinata in Africa. Grandi e piccoli restarono increduli. Si erano talmente affezionati alla sua rassicurante presenza che considerarono quasi un tradimento quell'improvvisa dipartita. Da allora, era il 1959, non si è saputo più nulla di lei. A rendere ancora più amara quella partenza, fu colei che venne a sostituirla: un tipo impenetrabile, scarsamente comunicativa, insomma l'opposto di chi l'aveva preceduta. Qualche mese dopo,il centro sociale dell'UNRRA chiudeva definitivamente. L'era post-bellica cedeva il passo a quella più rassicurante del miracolo economico!


TORRICELLA CELESTE
Le Corriere

Ore 5 del pomeriggio di tutti i giorni, tranne Natale Pasqua e Ferragosto: si ode il caratteristico "tarà, tarà" della corriera della Ditta Fratelli TETI.
Intanto Antonio di Barile e Camillo di Paperabella sono appostati dietro la curva De Stefanis, pronti a balzare sulla scaletta dell'autobus per accaparrarsi più valige possibili. Quando la corriera è prossima alla fermata, ecco sbucare all'improvviso un volpino bianco e nero che abbaia a perdifiato ad un passo dalle pesanti ruote del veicolo: è il cagnolino di Gigi, il principale della Ditta che, tirato in volto per il lungo viaggio, fa una rapida carezza alla fedele bestiola e si dirige a casa per una brevissima sosta. Nel frattempo scendono numerosi passeggeri; cominciano le solite scaramucce tra i due facchini, volano parole grosse, qualche spintone, ma la zuffa si ferma lì, non degenera mai in lotta violenta. A volte bisogna consegnare dei pacchi ai negozianti, ma si deve espletare una semplice formalità: decifrare il nome del destinatario.
I1 guaio è che nessuno dei due ha mai avuto la passione per le lettere. Ma niente paura. Antonio di Barile si rivolge al primo passante e chiede: "Per favore vedete mbò a chi l’aia purtà ssu pacch, ca quist nin zà lègge”. La mitica corriera delle cinque, percorreva una linea a dir poco massacrante: partiva la mattina presto da Palena, passava per Torricella, Casoli, Lanciano, alle nove giungeva finalmente a Pescara da cui ripartiva verso l'una. Si aggiunga che molte strade non erano asfaltate, le curve più strette delle attuali, il servosterzo un'invenzione allo stato puramente teorico. Si può immaginare quale fosse la fatica impiegata quotidianamente dagli autisti o ''sciuffièrr" come si usava comunemente chiamarli. Un'altra linea “storica" era quella delle "sei"; come fattorino c'era Antonio TETI, l'altro titolare della Ditta. Si partiva a mezzogiorno da Torricella per giungere verso l'una alla stazione di Palena, in coincidenza col treno per Sulmona. A fine estate l'autobus era ancora più affollato del solito perchè vi salivano tanti "romani" che tornavano alla capitale dopo aver trascorso le ferie in paese. D'inverno, a causa delle abbondanti nevicate e delle gelature, era particolarmente difficoltosa la guida allorchè si affrontavano gli impervi tornanti per raggiungere il valico della Forchetta. Alle quattro di pomeriggio ripartiva dalla stazione per concludere il suo viaggio a Lanciano alle otto di sera. Nonostante le strade fossero ghiaiose e polverose, le corriere erano tenute sempre ben lustre perchè la domenica mattina venivano lavate e sottoposte a una continua manutenzione. Gigi e i suoi collaboratori erano anche esperti meccanici, ecco perchè le 1eggendarie "ventisei" acquistate appena dopo la guerra, erano ancora efficienti negli anni '70. Per i torricellani , oltre che utile, era anche un motivo di orgoglio avere il servizio di autotrasporti, infatti sulle due fiancate dei mezzi compariva la scritta "Autosenvizi F.lli Teti – Torricela Peligna".


In tal modo veniva pubblicizzato fino alla costa adriatica il nome del paese altrimenti sconosciuto o evocato dal gazzettino d'Abruzzo e Molise solo a proposito di nevicate record. I1 momento più bello per la Ditta fu sicuramente quando venne acquistato il "42 - Baby Luna" un veicolo nuovo di zecca, che fu esposto al largo delle Piane perchè tutti potesero ammirarlo: era veramente un gioiello per quei tempi. Spazioso e confortevole, con i sedili morbidi, gli strapuntini, la radio, una perfetta visione della strada. Con esso vennero attuate numerose gite, sia in Italia che all'estero. Una fu quella del 1960 per gli alunni della scuola media, con destinazione Roma e dintorni. Allora la capitale non era assillata dal traffico infernale e dal degrado ambientale, perciò piazze e fontane apparvero in tutto il loro splendore. I ragazzi poterono vedere per la prima volta la Metropolitana e lo stadio Olimpico da poco costruiti per 1' imminente Olimpiade. Alla guida del pullman c'era Giovannino Teti, che seppe destreggiarsi alla perfezione fra le intricate strade e stradine dal centro storico della città. I1 15 Agosto veniva organizzata l'abituale gita alla Castelletta; a volte capitava che qualcuno dovesse rinunciare alla partenza a causa dei tanti gitanti, appesantiti da fagotti contenenti polli arrostiti, cocomeri e fiaschi di vino. Ma il giorno in cui c'era più lavoro per autisti e fattorini era quello della fiera. I passeggeri diretti a Fallascoso, Montenero o Colledimacine si accalcavano a "crepa surge" sulla corriera, ma ciò nonostante non bastava un viaggio per ricondurli ai loro paesi. I1 piccolo locale posto sotto l'abitazione dei F.lli Teti fungeva anche da ufficio informazioni. Una delle domande più frequenti era: "Cumbà Ndò, oppure cumbà Gì, a che ore part la pustale de le sei". Molti la chiamavano così proprio perchè recava i sacchi della posta da recapitare agli uffici dei vari comuni. Intanto con gli anni '60 comineiava a circolare sempre più nelle strade d`Italia un nuovo veicolo destinato a grande successo di vendite e, ahimè, ad assottigliare gradatamente i bilanci degli autotrasportatori: la seicento.
Per la Ditta Teti, come per le altre consorelle (D'Amico di Villa S. Maria, Madonna di Lama, ecc.) iniziò un lento ma inesorabile declino. Più aumentavano le macchine in circolazione, più diminuivano i passeggeri. “Se foss che lu guvern facess i la benzìne a mille lire lu litre!" dicevano stizziti i due fratelli. Un paradosso certamente. Ma, con il senno di poi, possiamo verificare giornalmente quali siano le conseguenze dell'uso dissennato delle automobili nelle città; mentre si relega il servizio pubblico ad un ruolo subalterno, che oltretutto incide pesantemente sulle spese degli enti locali. Verso la fine degli anni ' 70 le corriere viaggiavano praticamente vuote; così non si poteva più andare avanti e giunse inevitabile la fine. Ma noi siamo certi che Gigi continua a guidare un lunghissimo autobus su strade immense, tra i verdi pascoli del cielo. Ogni tanto si ferma, sale qualcuno; Antonio stacca il biglietto di sola andata. Sulle fiancate della corriera c'è la solita scritta, con una leggera variante:"Autoservizi F.lli Teti - Torricella Celeste ".


MESTIERI IN DISUSO

LO STRACCIVENDOLO (Lu cingiàre)
Andava in giro a raccattare stracci, soprattutto di lana, che metteva in un grosso sacco portato a tracolla. In un braccio portàva un capiente canestro con gli oggetti più svariati: piatti, bicchieri, pettini, quadri, spremilimoni, posate, fiori di plastica profumati (si fa per dire) ecc.
Si trattava di oggetti di scarso valore per povera gente che costituiva però la stragrande maggioranza della popolazione, che faticosamente, ma con dignità affrontava la vita quotidiana. A1 grido di "cingiàre ué" tutte le donne si affacciavano, prendevano i loro stracci da barattare e iniziavano le lunghe trattative per farsi dare più roba possibile.

IL CASTRAMAIALI (Lu sanapurcièll)
Lo si vedeva apparire di buon mattino a bordo della sua scoppiettante Motoguzzi, proveniente da Roccascalegna, con tanto di occhialini per ripararsi dal polverone delle strade. Dopo aver salutato cortesemente i clienti, apriva la sua valigetta con i pochi attrezzi: bisturi, tintura di iodio, cotone, ago e filo. All'aperto e alla presenza di un discreto pubblico, composto per lo più da bambini curiosi, con una calma disarmante, dava inizio all'operazione, che ahimè doveva essere molto dolorosa per il povero maialino, il quale veniva castrato senza la benchè minima anestesia, affinchè potesse ingrassare di più. Per fortuna l'operatore era molto abile nel suo mestiere e quindi il supplizio durava poco. Dopo aver cucito e disinfettato la ferita, dava una pacca affettuosa alla bestiola, augurando ai proprietari: "Pozza fa du qundàle".

L'OMBRELLAIO (Lu 'mbrellàre)
Veniva a scadenza fissa per riparare gli ombrelli rotti, non solo, ma anche i piatti e le "spase" (zuppiere); eh già, in tempi di vacche magre si faceva anche questo; naturalmente se un piatto finiva in mille pezzi, bisognava buttarlo via, ma se si spaccava a metà o era semplicemente “segnato”,si attendeva l'arrivo dell'ombrellaio, il quale, mediante un trapano a mano, operava dei buchi e con del filo di ferro e un po' di colla rimetteva insieme i cocci. Per il pagamento, si accontentava anche di beni in natura uova, fagioli, ceci...o addirittura di una frugale colazione.


LO SPACCALEGNA
Ai primi di ottobre, se non si volevano avere spiacevoli sorprese in inverno, i Torricellani cominciavano a fare abbondanti provviste di legna da ardere nei focolari o nelle stufe. Molti provvedevano personalmente alle operazioni suddette. Ma altri, per vari motivi, ricorrevano a forzuti spaccalegna che, nel corso di una giornata ne facevano fuori svariati quintali. Prima la tagliavano con una grossa sega dentata "lu stucch" sul cavaletto e poi la spaccavano con l'accetta ottenendo le cosidette "scraie". Contemporaneamente veniva requisita una squadra di ragazzini con il compito di portarle in soffitta (lu mèzzepésele) o in cantina dove il padrone di casa le accatastava con la massima cura. Tra i più resistenti spaccalegna va menzionato Antonio di Barile, dotato di una forza sovrumana , che però, al momento del pranzo, dovuto secondo consuetudine dal datore di lavoro, recuperava le energie sprecate nella fatica, mangiando una "spase" di maccheroni ed altrettanto di carne. Alcuni minuti dopo il pasto, senza intervalli di sosta, riprendeva il suo lavoro e non accuvava il minimo calo di rendimento, nonostante la poderosa abbuffata! Ma il progresso vuole la sua parte. Così verso la fine degli anni '50, prese a diffondersi la "sega a petrolio" del tutto simile a quella elettrica usata dai falegnami, però presentava un notevole vantaggio: poteva essere trainata in qualsiasi posto del paese. Inoltre era dotata di un dispositivo con un cuneo tagliente in grado di spaccare la legna più tenera. Faceva un fracasso assordante, tuttavia fu utilizzata per parecchi anni, fino a quando fu soppiantata dalla sega a cremagliera.

IL VENIDITORE DI BIBITE (Lu azzusàre)
Probabilmente molti giovani non sanno che a Torricella nel passato c'erano ben due ditte (Nicola Antrilli & Figli e Domenico Barchiesi & Figli) che producevano bibite (gassose, aranciate, chinotti). Esse durarono per parecchio tempo e se ad un certo punto cessarono la loro attività, lo fecero non per la scarsa qualità del prodotto, ma solo perchè dovettero cedere il passo ad un colosso in questo campo: la San Pellegrino.
Comunque sia, d'estate si faceva largo uso di bevande analcoliche nostrane o d’importazione, e “lu azzusàre” nei giorni di fiera andava in giro a venderle ai numerosi avventori. Si serviva di un secchio in cui versava dei pezzi di ghiaccio che tenevano costantementi fresche le bottiglie.
I1 ghiaccio, in grossi blocchi, era importato poichè i frigoriferi erano considerati ancora un lusso e quindi non erano in commercio.

IL FABBRO (Lu ferràre)
I1 fabbro faceva soprattutto utensili da lavoro: bidenti, zappe, picconi, punteruoli; riparava gli aratri, costruiva grate, finestre, chiavistelli ecc. Molti lettori ricorderanno il continuo ticchettio del martello sull'incudine nell'officina dei fratelli Carlo e Vittorio Porreca i quali operavano proprio accanto al palazzo scolastico. I ragazzi si fermavano per assistere incantati alla trasformazione che subiva il ferro rovente sotto i colpi sicuri dei due abili artigiani. Vittorio inoltre fungeva anche da maniscalco, infatti metteva i ferri ai numerosi animali da soma che affollavano le stalle del paese e dintorni. Quando si trattava di "ferrare" una mucca si radunava una piccola folla di spettatori attratti dall'imprevedibile comportamento dell'animale, che doveva infilarsi in un complicato marchingegno per tenerlo fermo. Evidentemente capiva che doveva capitargli qualcosa di strano, perciò s'innervosiva e tirava calci e cornate a dritta e a manca offrendo agli astanti uno spettacolo inusuale e del tutto gratuito.

IL FALEGNAME
Questo mestiere non può essere annoverato tra quelli in disuso, però bisogna dire che nel passato svolgeva numerose mansioni che oggi vengono espletate dalle industrie. A Torricella operavano ben quattro falegnamerie: Carlo Antrilli, Orlando Di Luzio, Nicola Di Sangro e Edoardo Martinelli. Costruivano di tutto: carriole, tini (tinacci), bigonce (baunz) botti (vascièll), porte, finestre, mobili, cassapanche (casce), armadi (armuarr), ripostigli per alimenti (arche), culle, scaldaletti, sci, monopattini e persino giocattoli. Alla fine degli anni '60, con la massiccia calata di prodotti industriali del Nord, iniziò un graduale declino non solo di questo antico mestiere, ma di tutte le attività artigianali. Cominciarono ad arrivare lavatrici, lavastoviglie, automobili, trattori, mobili, mototrebbie, oggetti di plastica, che però avevano il pregio di rendere il lavoro meno pesante. Gli anziani, forse più per nostalgia del passato che per convinzione andavano sentenziando: "Ai tempi nostri dovevamo fare tutto noi, ci si ammazzava di fatica dalla mattina alla sera. Al mondo d'oggi nessuno ha più voglia di lavorare. I giovani trovano tutto già bell'e pronto. Manca solo una cosa da inventare: "la machenétt che métt a magnà mmocch!".

IL GELATAIO (Lu gelatàre)
Campariva la prima volta alla festa della Madonna delle Rose, a fine maggio dunque. Vendeva i coni a dieci lire l'uno e le coppette a quindici. In mancanza di frigoriferi doveva usare il ghiaccio a blocchi. Anche la miscelatura degli ingredienti doveva essere praticata manualmente con una pala di legno. Ma già agli inizi degli anni '50 a Torricella c'era una gelateria che produceva in proprio. Dopo diversi anni di attività, fu costretta a chiudere a causa della diffusione del cosidetto "pinguino", un gelato alla panna ricoperto da una crosta di cioccolata, prodotto a livello industriale dal la Motta.

IL VENDITORE DI CASTAGNE (Lu castagnare)
I1 suo piccolo desco si trovava nei pressi dell'attuale Cassa di Risparmio. Oltre alle caldarroste, vendeva anche i cachi, ognuno dieci lire. Qualche ragazzo passando per andare a scuola se ne comprava uno come merenda. Si può immaginare cosa potesse accadere a chi aveva la bella idea di infilarlo in cartella tra libri e quaderni!

LO SPAZZACAMINI (Lu spazzacamine)
Gli spazzacamini, ovviamente avevano sempre la faccia nera come "ammond pe la ciumenière". Pròvenivano dalle valli del Trentino. Erano magri come acciughe. Riuscivano ad infilarsi con straordinaria abilità nei camini per ripurirli dalla fuliggine (felìne). Se qualcuno, per taccagneria, rinunciava alla loro opera, poteva pagarla a caro prezzo, infatti bastava una scintilla per provocare un vero e proprio incendio: grosse lingue di fuoco si innalzavano dal fumaiolo attirando una nutrita folla di spettatori, alcuni dei quali però non se ne stavano con le mani in mano, ma aiutavano a spegnere il fuoco portando sul tetto dei secchi d'acqua da versare nella canna fumaria.

LU PAIARINE
La sua attività si svolgeva tutta sulla trebbiatrice, tra il frastuono assordante del trattore, i raggi roventi del sole, la polvere secca dei covoni; per questo indossava una camicia militare abbottonata al collo, con un grosso foulard, un paio di occhiali e una paglietta in testa. A1 suo fianco operavano due ragazze che scioglievano "li manuoppre" e li consegnavano a "lu paiarìne” che, a sua volta, li infilava tra gli ingranaggi della macchina.

IL PANE FATTO IN CASA

Negli anni '50 la stragrande maggioranza dei Torricellani mangiava il pane fatto in casa dalle mamme e dalle sorelle dai dieci anni in su. Solo i cosidetti "ricchi'', cioè coloro che godevano di uno stipendio fisso (ed erano in pochi) cominciavano a comprare in negozio lo sfilatino, un tipo di pane dalla candida mollica, piuttosto insipido, ma che i "poveri cristi" guardavano come l'oggetto di un desiderio impossibile da raggiungere;insomma non era "pane per i loro denti!". Ma affermare che coloro i quali compravano lo sfilatino in negozio lo facessero solo per snobismo, sarebbe ingiusto e non veritiero. Infatti per fare il pane in casa occorreva una serie di operazioni che richiedevano fatica, tempo e sacrifici non indifferenti. Dopo aver lavato il grano, bisognava macinarlo e poi setacciarlo. La sera precedente la cottura, le massaie si facevano prestare il lievito che veniva messo accanto al focolare. La mattina prestissimo, verso le tre, le quattro, passava il fornaio il quale gridava "mbaste" : era il momento di preparare 1'impasto di farina e lievito. Verso le nove le morbide pagnotte venivano accuratamente avvolte in panni di lino, una per una, ricoperte tutte con un telo di lana. Dopo essere state stese su "lu taveléll" erano condotte al forno sulla testa della massaia. Solo in un caso interveniva il marito: quando imperversavano bufere di neve, toccava a lui portare "lu tavelèll" al forno. Siccome il giorno della cottura non era conveniente consumare il pane ancora caldo, le mamme preparavano le pizze e le "ciambellette fritte" con lo zucchero che erano una vera leccornia per i bambini. In inverno, data l'abbondanza di carne di maiale, si facevano le gustosissime "pizze con gli sfrivili" che venivano divorate in pochi istanti da tutta la famiglia, anche perchè la parola "colesterolo" non era ancora presente nella lingua torricellana.

" LA SVECCIATRICE "
Era un ingombrante e pesante macchinario dotato di un grosso cilindro posto in senso orizzontale, munito di una maniglia azionata a mano e con notevole fatica. Inoltre era privo di ruote, perciò negli spostamenti occorreva caricarlo su un apposito carretto trainato da un mulo. A cosa serviva? A setacciare il grano, al fine di eliminarne le impurità dopo la trebbiatura. Ce n'erano un paio in circolazione di cui uno di proprietà della sezione ex combattenti e reduci.

LA MACCHINA DELLE PANNOCCHIE
( La machene de le grandìnie)
Nelle serate autunnali i contadini chiamavano i vicini di casa per farsi aiutare a "spurlucchià le marròcch" cioè a togliere le foglie ormai secche dalle pannochie. La fatica però era ampiamente ricompensata con noci e fichi secchi per i piccoli, con abbondanti libagioni di vino novello, "sfrivele" e salsicce per i grandi. Nulla veniva buttato: le foglie si usavano per fare i materasi, i chicchi di mais (cariossidi) per fare la polenta e "la pizz che le grandìneie" da mangiare con le cime di rapa, i tutoli al focolare per riscaldare. Ma come si potevano staccare i chicchi molto duri dal tutolo? In epoca remota si usavano 1e mani, ma negli anni '50 si utilizzava a nolo una macchina che funzionava grazie a una maniglia attivata dalla sola forza delle braccia. I motori elettrici e quelli a scoppio, sebbene già noti, non avevano ancora avuto una diffusione capillare per il loro costo che, a quei tempi, appariva esorbitante.

IL PACCO DALL'AMERICA
Dopo il 1945 la popolazione torricellana, come del resto tutta l'Italia, dovette subire le conseguenze di una guerra tanto inutile, quanto tragica: fame, freddo, rovine, case abbattute, miseria, giovani soldati morti in Russia, in Africa, in Grecia. Questa era la desolante situazione dell'immediato dopoguerra. Tanti preferirono espatriare, chi nelle polverose miniere del Belgio, chi in America, in Francia, in Australia, insomma in tutto il mondo. Quelli che restarono cercarono di rimboccarsi le maniche, ma da soli non ce la facevano a tirare avanti. Per questo chiedevano aiuto a qualche parente emigrato. Così cominciarono ad arrivare i cosidetti pacchi dall'America, che sebbene non migliorassero un granchè l'economia familiare, tuttavia diffondevano un'atmosfera di gioia in chi li riceveva. Prima di tutto il mittente scriveva una lettera in cui annunciava l'avvenuta spedizione e il contenuto del pacco per controllare che nulla venisse trafugato nel lungo viaggio in "bastimento". Da quel giorno iniziava un clima di euforia che però si trasformava in apprensione quando, trascorso circa un mese, il pacco ancora non era pervenuto. "Vu vedé ca se l'ome arrubbiète!" diceva il marito alla moglie. "Ma none, ce vò lu tembe". Intanto mattina e pomeriggio si faceva la posta al portalettere per scoprire se recasse in mano la fatidica cartolina gialla. Niente! Poi,quando ogni speranza era persa, ecco la lieta novella. "E' rrevate". Tutto il vicinato partecipava all'avvenimento, tranne ad una cosa: l'apertura del pacco. Questo avveniva alla sola presenza dei familiari, dopo aver sprangato porte e finestre per evitare sguardi furtivi. E qui accadevano scene alla Fantozzi. Dato che il cartone era imballato con decine di metri di spago, punzoni e scotc, ci volevano le forbici che, guarda caso, non si trovavano mai in quei frangenti, I1 capofamiglia imprecava verso gli altri: "A sta case nin zi trove mì niend”. Allora si usava il coltello. Quando finalmente lo scatolone era stato aperto, per tutta la casa si spandeva il penetrante odore della naftalina americana. E giù tutti ad arraffare giacche, pantaloni, scarpe, gonne, cappelli ed altre cianfrusaglie. Una volta vuotato il pacco, spenta l'euforia, ciascuno cercava di capire come potesse utilizzare quei capi di vestiario. Per gli uomini il problema non era serio, se una giacca o un pantalone erano grandi, si potevano restringere. Ma per le donne il discorso era diverso; mai avrebbero indossato quelle gonne dai colori sgargianti e dalla foggia strampalata da far ridere tutto il paese! Comunque venivano messe da parte lo stesso, potevano servire ai bambini quando si mascheravano a carnevale.


IL BANDITORE (Lu bannetòre)
Gli spazzini, oltre che tenere pulite le strade, avevano anche il compito di "ittà lu bann" cioè di andare in giro per i quartieri, dare uno squillo di tromba ed annunciare ad alta voce ciò che si vendeva nella piccola piazza adibita allo smercio di vari prodotti: frutta, verdura, pesce ecc. Per avere un'idea più precisa di come avveniva la faccenda, riportiamo il testo di un bando tipico: " In piazza si vende il pesce. Le Sgombri a 50 lire il chilo, Li Merluzzi a 100 lire il chilo”.

LA TRANSUMANZA

La transumanza era il passaggio delle greggi composte da migIiaia di pecore con relativi pastori che in autunno si spostavano dalla Maiella in Puglia e a primavera effettuavano il viaggio inverso. Era una fiumana immensa che avanzava con passo 1ento e belati sommessi attraverso le strade del paese, i cui abitanti si fermavano estasiati a osservare quel passaggio che ricordava migrazioni bibliche di tempi immemori. I pastori, chi a piedi, chi a cavallo, intabarrati nei loro pesanti pastrani o addirittura con pelli essiccate, erano uomini senza tempo, dall'età indefinibile, con i volti anneriti dal sole e da1 vento. Ognuno aveva a tracolla un grosso ombrello per ripararsi dalle intemperie. I1 loro corredo era costituito da tutto ciò che poteva contenere una misera bisaccia.
Gabriele D'Annunzio, tra discorsi roboanti e guerrafondai, sempre in vena di gesti teatrali, nella famosa poesia "I PASTORI", seppe trovare momenti di intensa e (si spera) di sincera commozione nel descrivere la transumanza di quegli umili personaggi, simbolo della semplicità e della temperanza, in stridente contrasto con il suo modello di vita alquanto sregolata. "Ah perché non son io co' miei pastori!" esclama ad un certo punto. Come già detto pocanzi, le greggi passavano anche per le strade di Torricella, anzi il quartiere del "TRATTORE" deve il suo nome al transito dei mitici pastori e delle pecore che, con il loro andirivieni avevano formato una specie di sentiero che si snodava dai selvatici monti d'Abruzzo alla fertile pianura pug1iese, menzionato dal Vate in questi termini "E vanno pel tratturo antico al piano". Comunque, prima della fine degli anni '50, la transumanza era già un ricordo perché non si effettuava più a piedi, ma molto più comodamente con i camion. I1 progresso esige la sua parte, a scapito delle poesie e di chi deve trovare l'ispirazione per scriverle.

P. S. Apprendiamo all'ultimo momento (anno 2000) che una giovane imprenditrice toscana ha lanciato un messaggio via internet per invitare la gente ad adottare a distanza gli agnelli della Maiella se non si vuole evitare entro breve tempo la loro più che probabile estinzione.


GIOCHI E CONSUETUDINI

E' una tranquilla domenica autunnale, Mingh fa il muratore, potrebbe dormire ancora, ma non ha più sonno, si gira e rigira nel letto, non c'è niente da fare. Sua moglie è già sveglia da un pezzo ed è là in cucina indaffarata a preparare il pranzo, a stirare, a rammnendare... Quando uno è abituato ad alzarsi presto è così, anche perché poi ti vengono brutti pensieri per la testa! Visti falliti tutti i tentativi di riaddormentarsi, si decide a scendere dal letto. Ma quando va per infilarsi i pantaloni, trova una poco gradita sorpresa. "Marì chi i sci cumbenate a sti calz?". La moglie dà una rapida occhiata e senza proferire parola si avventa come una furia verso la camera dove dorrnono i figli. Alza le coperte del più grande e comincia a menare fendenti a più non posso. I1 povero malcapitato, del tutto frastrornato cerca di divincolarsi e incredulo chiede: "Ma che so fatt?" "Le sacce i che sci fatt. Brutt lazzarone, sci stuccate tutt le bettune a la vrachétt de piètrete!" gli urla la madre. A1 che, l'autore del misfatto si accorge di non avere attenuanti e non gli resta altra via d'uscita che la fuga, per sottrarsi, almeno per il momento, ad un supplemento di botte da parte del padre I1 breve quadretto farniliare testé descritto è sicuramente paradossale, ma potrebbe essere capitato qualche volta nei lontani anni '50 quando il gioco dei bottoni fra i ragazzi torricellani era molto in auge e per procuraseli qualcuno li staccava di soppiatto dai pantaloni appesi nell'armadio. Se ne praticavano divérsi: il più seguito era quello della palletta che consisteva nel tirare una boccia di legno verso nove buche scavate nel terreno, vinceva tutto chi riusciva a centrare quella nel mezzo. Poi c'era quello del birlix, berlax; del vicinamuro, del santuccio mortò e forse altri caduti nell'oblìo. Un altro gioco era "la sgrénele" cioé con un bastone si dava un colpo ad uno stecchetto appuntito da ambo le parti, mentre schizzava in aria si cercava di dargliene un altro, tipo baseball, per allontanarlo il più lontano possibile. Era piuttosto pericoloso e perciò spesso contrastato dai tutori dell'ordine. "Lu chierchie"invece era del tutto innocuo, infatti si trattava di lar rotolare un cerchio di ferro, vuoto all'interno, sorretto da una specie di gancio: lu ciambriqquele.
LU STUPPAZZ era ricavato da un ramo di sambuco opportunamente svuotato all'interno in cui si infilavano delle palline di corda imbevute di saliva. Si percuotevano con uno stantuffo ed emettevano un rumore che ricordava molto vagamente uno sparo.
Per giocare a CECINO E FASCIUOLI occorrevano minimo sei ragazzi, metà dei quali, a turno si mettevano piegati a 90 gradi uno dietro l'altro, i rimanenti, uno alla volta, dovevano saltare sulla loro groppa senza toccare terra con i piedi, altrimenti dovevano dare il cambio.
I1 gioco delle "STAGNAROLE" si eseguiva con i tappi a corona spinti con una percussione del dito indice in un percorso tortuoso disegnato con il gesso sul marciapiede o lungo i bordi delle scalinate della pineta.
Assai frequente era l'uso dei monopattini o delle "carrozze" le cui ruote venivano ricavate dai cuscinetti a sfera usurati, per cui facevano un fracasso assordante, tale da suscitare le proteste di chi aveva bisogno di tranquillità.
Non mancavano i passatempi con le biglie, solo che non erano di vetro ma di terracotta ed emanavano un odore acre simile allo zolfo.
Le bambine usavano dilettarsi con LA CAMPANA, il salto della corda, il lancio del cerchio, la palla prigioniera, i sassetti, il tris, l'intramontabile "LAVANDERINA" e gli svariati giochi con le bambole.
Tra le usanze tradizionali, bisogna ricordare quella del due novembre detta "COCCE DEI MORTI". I bambini, dopo aver svuotato le zucche e dopo avervi ritagliato il naso, la bocca e gli occhi, vi ponevano una candela accesa e giravano per il paese allo scopo di "Fa mbaurì la gend". Non sappiamo che attinenza abbia questa nostra antichissima consuetudine con la strombazzata festa americana di Alloween. Di certo a Torricella non si adoperavano artificiose zucche di plastica!
L'undici novembre, festa di S. Martino, la sera si trascinavano "Li ciucchili" cioé si legavano vecchie bacinelle, zi peppi, bagnarole e tutto ciò che facesse rumore per trascinarli in giro per il paese.
La sera dell’otto dicembre, 1'Immacolata, c'era l'abitudine di accendere grossi falò nei vari quartieri. Tale usanza era diffusa anche negli altri paesi, tanto è vero che, se il cielo limpido lo consentiva, era possibile ammirare gli innumerevoli fuochi che illuminavano l’ampia valle del Sangro fino al mare.


CENTO ANNI DI VITA AMMINISTRATIVA

Fra la primavera e l'estate del 1988 fu restaurato il Municipio: di Torricella così, effettuando il trasloco del materiale, ricomparvero dei registri contenenti i verbali dei Consigli Comunali e della Giunta Municipale. I più vecchi risalgono al 1877; qualcuno purtroppo fu distrutto durante la seconda guerra mondiale, come annotava testualmente nell'aprile 1944 1' allora segretario comunale Domenico Testa: "L'Ufficio del Comune è stato bruciato, mancano i mobili, lo Stato Civile e le carte d'archivio. Si sono salvati alcuni registri e documenti".
Dalla loro lettura non appare nulla di sensazionale, ma si può chiaramente notare che anche nel passato il paese fu dinamico e laborioso, Chi scrive queste note non nasconde di aver provato una certa emozione nello sfogliare quelle pagine ingiallite dal trascorrere inesorabile degli anni, ma che riecheggiano, spesso in bello stile grafico, atteggiamenti, modi di pensare e di agire, alquanto vicini ai tempi attuali.
Per ragioni di spazio si riportano solo poche delibere o decisioni tra le tantissime lette.
27 agosto 1887: viene stanziata la somma di 105 lire per la manutenzione della linea telegrafica.
28 ottobre 1889: approvato il calendario delle feste per il 1890: 13 e 14 giugno S. Antonio e S. Nicola - 10 e 11 luglio S. Marziale e S. Vincenzo - 1 e 2 settembre: S. Domenico e S. Rocco.
27 febbraio 1890: risultano iscritti 399 cittadini alle liste elettorali.
17 luglio 1928: Fallascoso viene aggregato al Comune ai Torricella con decreto prefettizio.
25 gennaio 1936 e 21 marzo 1936: istituzione delle scuole elementari a Colle Zingaro e a Colle del Ponte.
Inizio di dicembre 1943: i Tedeschi ordinano lo sgombero del paese.
Aprile 1944: i Tedeschi vengono scacciati. L'AMGOT (gli alleati) nomina Quirino De Laurentiis commissario del Comune.
6 ottobre 1946: Data storica: dopo più di venti anni i Torricellani possono eleggere democraticamente i loro amministratori.
Questi i loro nomi, scritti nello stesso ordine del verbale Donato D'Ambrosio, Antonio Manzi, Giuseppe Antonio Teti, Vittorio Porreca, Nicola Piccone, Pasquale Porreca, Lia Teti, Nicola D'Ulisse, Camillo Teti, Antonio Ficca, Alberto Piccone, Michele Taddeo, Antonio Crivelli, Rinaldo D'Amico, Vincenzo Di Cino, Nicola Palizzi Carlo Antrilli, Nicola Antrilli, Angelo Di Loreto, Nicola Porreca, (quest'ultimo sostituito da Camillo Di Renzo perché tra i consiglieri c'era già il padre).
3 ottobre 1949: il Consiglio Comunale fa voti affinché la città ai Pescara venga scelta come capoluogo della Regione Abruzzo.
29 maggio 1955: il Consiglio Comunale all'unanimità chiede che venga istituita la provincia di Lanciano.
23 giugno 1957: viene proposto di installare un Ufficio Postale a Colle Zingaro.
11 febbraio 1959: dieci consiglieri (su venti) si dimettono, decade l'intero Consiglio. Successivamente viene nominato un Commissario prefettizio. Per la prima volta si va alle elezioni amministrative anticipate.
Dai verbali figurano tanti nomi di concittadini che si dedicarono alla pubblica amministrazione, per ovvie ragioni vengono riportati solo quelli di chi ricoprì la carica di Sindaco in fondo a questo libro, precisando che l'elenco è stato compilato desumendolo dai numerosi verbali, in quanto non risulta un'annotazione preordinata con i nomi dei sindaci. Nessuna donna ha mai ricoperto la carica di primo cittadino, però ne figurano due come Consiglieri: Filomena Teti nel 1890 e Lia Teti nel 1946 - 51.

MODI DI DIRE – PROVERBI – SCIOGLILINGUA
(In dialetto torricellano)

Coccia pelate ch' treda capìll, tutta la nott ce cand le grìll, e dapù che cia candate, bonanott cocciapelate.
Chi ne mbò vatt sacch, vatt sacchétt.
Se n'é ite a ziloff. - A ècch, o se trésch o se spicce l'are.
Avoia a fiscà , se l'asene ne vò vévere!
Lu rellogge de lu cumbare, camine quand i pare.
Addì péde de fiquere. - La votta piéne e la moia mbriache.
Acchiappete a ssu péde de fiquere.
Acchiappete a ssu maneche de 'ngine.
Chiss é tutt na manijate. - Mo se ne và chi combre.
Sènza niènd 'nze fa niènd. - A crepa surge.
La puliteche é sporch. - A crépa pèll.
Lu cchiù pulite té la rogne.
Ci s'é mbricucate. - Chi cènd ne fà une n'aspètt.
Piccirill e male cavate.
Gross e asene. - Addò sta naquill de iell, 'nze fa mi iuorn.
Ne nza fa mangh la o che lu becchière.
Ne nza métt mangh lu file all'ache.
Ne nza mangh quanda pare fa tre vuove.
Mittete ngh' chi é meie de té e faie le spése.
La alline féte 1'ove e a lu alle i ngènn lu cule.
Né niend quand néngh, ma quand squaie.
Anniènd me coce e arréte me ngènn.
Ch'é succèss, se n'é ite la att abball pe lu cèss.
Se marz né marzégge, brìle male pènz.
Fatt curagge, ch'apprèss a aprile vé magge.
Sètt e ott sott a lu cappott.
Sètt, quattordece, véndune, vendott, la case, la vigne e la ngott.
Piove e piove a la case de tatone, néngh e néngh a la case de za' Méngh.
A le dù la Canelore, a le tré la Bisciole, (S. Biagio) o ci néngh o ci piove. Se ce fére nu suletéll séme mèzz a mernetèll (inverno). Se ce fére nu sole bbone, da l'mmèrne séme fore.
Recita di carnevale: Fricchie e fricchie damme nu cacchie de salgicce, se tu ne me le vu dà, te se pozza fracetà.
Canzone: Arrizzete tu, ca i mo m'arrizz. Appicce lu foche e cuoce la pizz. Pije lu spéte e tirel' arréte e lévete sse ngustie ca sema magnà.
Setaccia, setacce, coma mi fì, accuscì t'arefacce;
Chi te vò ngiurià, mbasciatore se métt a fà.
Chi le vo cott e chi le vo crude.
Zumb zumbitt, calecagnitt, me romb la cocce e me stièngh zitt.
Péde pedugne, lu mese de giugne che ce vé a cambarì a la fèste de lu rré. Tire ssu péde c'attocch a té.
Muscia att, pan' e latt. Che te magnist l'altra sére? Pan' e latt. Muscia att pan' e latt.
Ruffeiane de la pijazz, chiapp, chippìne e matarazz.
Langianése cul'appése, sacch de paie, cul'a metraie.
Daie e daie, la cepoll devend aie.
Maluocchie e maluocchie, furbeccétt all'uocchie; scatt l'ammideie e crépe le maluocchie. Du uocchie t'aducchiate, tré sand t'ha salvate. I.u nome de lu padre, lu nome de lu fie, lu nome de la sandissema trenetà.
La atta furirèll fa le fie cichiète.
Chi lass la via viecchie pe la nove, sa quéll che lass, ma ne nza quéll che trove.
Té lu core nére, come ammond pe la ciumenière.
Chiss de lu Jéss se magne e fafe alléss.
Coccialuongh de Trucéll. Viscirièll de lu Falascose.
Nzignemeròne, nzignemerone, nzigneme la vì de Rome.
Cunzije de volp, strippazione de galline.
Sémbre na sèrp c'ha perdute lu veléne.
Se va accattà le uà che nen té.
Chi arréte me parl, arréte le tièngh.
I so i e tu si tu, chi e chiù asene i o tu?
A la fine de frebbare, nott e iuorr va pare.
Va truvénn Marì pe Rome.
Lu file va a file, lu piomm va a piomm e lu mure va stuort. Sta bone Rocch, sta bone tutte la Rocch!
Mort de fame e cecate de sonn.

I SINDACI DI TORRICELLA


Dal 1887 al 1889 Antonio Porreca Masciangioli

“ 1889 “ 1890 Donato Piccone

“ 1913 “ 1918 Vincenzo Antrilli

“ 1919 “ 1922 Antonio Persichetti

“ 1926 “ 1936 Ottorino Piccone

“ 1936 “ 1944 Giovanni Verna

“ 1944 “ 1946 Quirino De Laurentiis

“ 1946 “ 1951 Giuseppe Antonio Teti

“ 1951 “ 1959 Domenico Testa

“ 1959 “ 1965 Nicola Rotondo

“ 1966 “ 1967 Mario Di Fabrizio

“ 1967 “ 1972 Camillo Di Renzo

“ 1972 “ 1978 Nicola Ficca

“ 1978 “ 1983 Nicola Rotondo

“ 1983 “ 1991 Mario Martinelli

“ 1991 “ 2000 Davide Piccoli

“ 2000 “ Graziano Zacchigna

Fonti: verbali dei Consigli comunali di Torricella Peligna.

I periodi mancanti sono dovuti alla distruzione dei registri comunali avvenuta durante la.seconda guerra mondiale.
Lo scrivente si scusa per eventuali errori od omissioni.
LA POPOLAZIONE DI TORRICELLA

Anno Residenti Presenti

1861 4460 4440

1871 4765 4651

1881 4794 4637

1901 4734 4129

1911 4611 3689

1921 3954 3443

1931 3800 3678

1936 3989 3886

1951 3964 3714

1961 3322 2897

1971 2334 2129

1981 2031 1934

1991 1832



FONTI: ISTAT:
Popolazione residente e presente nei Comuni - Roma 1985
I1 dato relativo all'anno 1991 è stato fornito dal Comune di Torricella Peligna.
__________________________________________________________


CARTOLINE Ediz. Luigi Piccone
Foto a colori ediz. Ignazio Cocco