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di Giuseppe Amoroso
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Un'aria metafisica, un'astratta sensazione di sgomento, il sospetto di invisibili intrecci che incombono su quelli in primo piano, l'impressione che un semplice gesto sia in grado di tirarsi dietro una carovana di implicazioni circolano in Senza sangue, nuovo romanzo di Alessandro Baricco. Nella pianura vuota, indefinibile, avvolta dalla luce stentata della sera, una vecchia fattoria si staglia " cieca, scolpita in nero ", contro il vasto orizzonte. L'" urlo opaco ", " sporco ", di Roca, che assiste al massacro del figlio " sfrangiato " dalle pallottole; il " gran silenzio " intorno come una spirale di paura; i ricordi di Tito; Nina rannicchiata nel suo buio, e infine i giustizieri che, come " ubriachi ", escono nella notte, mentre Tito parla piano, con una " voce da bambino ", sono le sequenze, ora rapidissime, ora più lente e ribattute, che aprono il varco all'apprensione e all'attesa. Si compie, in un mutare di toni alti e bassi ma nell'identica misura espressiva al limite della nettezza calligrafica, la prima parte del romanzo secco, spedito, con ampi spazi bianchi dove il silenzio assorbe i residui più sonori e tumultuosi, le frasi gridate in un'iterazione ossessiva e frammenti di episodi più neutri, fatti non detti ma minacciosamente serpeggianti e in deriva da un ieri indistinto, suscettibile di congetture. Un vero romanzo, in sordina, di atrocità e follie sta acquattato nel fondo, non esibisce grandi tramiti scenografici, né sviluppi regolari. Ancora, come nella prima sezione, indistinti sono i luoghi, ma a condurre l'azione è ormai una Nina avanti con gli anni, " alta e sicura ", giovane nel portamento. È alla ricerca di qualcuno legato al suo lontano dramma. Ora, seduta al tavolo di un caffè, racconta a un venditore di biglietti di lotteria, appena incontrato, la sua storia, ma in un modo strano, quasi si trattasse della vita di un'altra. A mano a mano tornano i fantasmi di una volta. L'ascoltatore si guarda intorno " senza vedere niente ", immerso completamente nei pensieri, mentre la donna, d'un tratto, pronuncia un nome che pare riempire il silenzio. Nel " vertiginoso " tempo accadono cose imprevedibili: anche che l'uomo della lotteria narri la storia di Nina, rispondendo a un desiderio antico (" Ma aveva iniziato a raccontare, e capii che gli piaceva farlo, forse aspettava da anni il momento di farlo, una volta per tutte, nella penombra di un caffè, con tre musicisti, in un angolo, a staccare il tre quarti di ballabili imparati a memoria "). È sono di fronte, una vecchia signora, sbucata dall'ieri, e uno che si è portato dentro a lungo un segreto, " come una malattia ". Lei sembra seduta da sola, ad aspettare qualcuno; lui è " più piccolo e stanco ". Intorno nessuno si accorge di ciò che sta accadendo. Il microracconto, congelato in movenze meccaniche, determinate dal sentimento della vendetta, genera psicologie bruciate. La vendetta è il " solo farmaco che ci sia contro il dolore (...), la droga con cui ci rendono capaci di combattere ". È un mondo tetro, circondato dal silenzio (una parola tematica, il silenzio, che sembra irrigidire il palpito della vita, la stessa sorte di intrighi e dannazioni), su cui si piega infine un'ombra di pace. Si piegano la pietà e il pianto, mentre le finestre illuminate di una casa contano le serate domestiche, liete o tragiche, di un piccolo recinto di desolazione nel calore stentato di una notte poco resta dei due personaggi: il nome di lui scivola via " senza spigoli, come una biglia di vetro ". Lei si rannicchia nel letto, mimando l'antica posa di bambina, quella sua remota difesa dalla morte. L'" incomprensibile " vita è forse solo il " desiderio di tornare all'inferno ".
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