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di Angelo Morino 
Data di pubblicazione: 10/2002

 

I nomi di luogo non rinviano a una geografia precisa. All'inizio, c'è una fattoria, detta di Mato Rujo, in una pianura coltivata a mais. Lontano, ma senza che di lì l'occhio riesca a coglierne traccia, un paese o una città: Alvarez. Alla costruzione in mezzo alla campagna si arriva percorrendo una strada povera, scavata e secca. Bisogna sorpassare prima un filare di querce e poi un torrente. Quanto allo stile architettonico della fattoria, nessuna indicazione. Sembra di capire che sia formata solo da un piano terreno, diviso in un paio di stanze da una tenda chiusa. Dentro, da una parte e dall'altra, un tavolo, bauli e sedie ammucchiate, attrezzi da lavoro, una cassa di legno, ceste piene di frutta mezza marcia, una botola che si apre su un grande buco scavato nella terra. Il pavimento è fatto di assi attraverso le quali, in quella specie di tana sottostante, filtrano lame di luce. Ci sono vetri alle finestre. Fuori, negli immediati pressi della fattoria, una catasta di legname, una grande quercia, un pozzo.


A questo sfondo ne fa seguito un altro: fra il primo e il secondo spazio - nella pagina in bianco tra l'uno e il due inserita a metà di Senza sangue - è trascorso molto tempo, un cinquant'anni si direbbe, forse sessanta. Adesso è una città: semafori, asfalto sconnesso, gente che va e viene bordeggiando vetrine. In una di queste, televisori e televisori che moltiplicano l'immagine di uno stesso commentatore di telegiornale. Quanto alla topologia urbana, ci sono Calle Medina, la piazzetta del Divino Soccorso, l'Avenida 24 luglio. Ma il luogo che interessa raggiungere è la Galleria Florencia: una volta di ferro e, soprattutto, un piccolo chiosco sulla parete di sinistra, di quelli per vendere biglietti della lotteria. Dopo una breve sosta nella Galleria Florencia, è il turno di un caffè, dove - in un angolo - tre tipi suonano musica ballabile, d'altri tempi. Poi ancora, dopo il bar, è la volta di un albergo su quattro piani. Si chiama California e ha un'insegna con lettere luminose rosse, che lampeggiano e progressivamente si illuminano fino a disegnare la scritta completa. Qui, in una camera al terzo piano, visibile fra le tende trasparenti, l'insegna versa bagliori sulle pareti e sulle cose. C'è un letto, in questa camera, e - vicino alla porta - c'è una sedia su cui è stata posata una borsa da donna.

La fattoria di Mato Rujo e l'innominata città con la Galleria Florencia e l'Hotel California non sono gli unici luoghi cui si fa principale riferimento. Evocati, compaiono pure altri segnali geografici, che rinviano dalla topografia del presente a quella del passato. Dapprima, in un paesaggio travolto da anni e anni di guerra feroce, c'è un ospedale dove individui di una delle due parti avverse sono stati sottoposti a tali atrocità che per loro solo la morte può essere di sollievo. In seguito, almeno mezzo secolo dopo, quando la guerra è finita ma i suoi segni non sono ancora scomparsi da tutti i cuori, si rinvia a un paesino di campagna. Lì ci sono una farmacia e, nei pressi, un altro paese che, a differenza dal primo, viene nominato: è Rio Galvan. Non lontano dalla farmacia, trovano posto pure una specie di taverna, il Riviera, dove si gioca d'azzardo, e - fuori dell'abitato - la fazenda di Belsito. E, qui percorrendo un viale d'aranci in salita, si raggiunge la casa padronale, da cui si può vedere l'oceano. Infine, col passare degli anni e di qualche pagina, c'è una casa di cura, situata a Santander, e si potrebbe anche pensare che Santander sia la città del presente, da cui si sono mosse le rievocazioni dei tempi trascorsi.
Quella con Calle Medina, la piazzetta del Divino Soccorso, l'Avenida 24 luglio, la Galleria Florencia, il chiosco della lotteria, il famoso caffè e, ultimo, l'Hotel California con la sua insegna rossa e quella camera al terzo piano.


Fra tutti questi nomi, l'unico rintracciabile su mappe o atlanti è quello di Santander. Che indica la città spagnola della zona cantabrica, affacciata sul golfo di Biscaglia. Tuttavia, che si tratti proprio di questa Santander nel nord della Spagna finisce in fretta per sembrare cosa improbabile. Innanzitutto, perché di lì è facilmente raggiungibile la fazenda di Belsito e il termine fazenda - e non hacienda - sposta in a un'area di lingua portoghese. Ma poi, anche perché il nome stesso della fazenda - Belsito - è responsabile di un ulteriore spostamento, dal portoghese all'italiano, dal momento che si tratta di un termine in questa lingua. 
Se, così ripercorsa in dettaglio, la geografia di Senza sangue si limita ad alludere a un generico paese latino, europeo o americano che sia, maggiori chiarimenti non vengono forniti neppure dai nomi dei personaggi. Manuel Roca e Salinas, El Gurre e Tito, Nina e Donna Sol, Ricardo Uribe e il conte di Torrelavid: tutti additano la loro provenienza ispanica, ma evitano qualsiasi delimitazione più precisa. E del resto, da un paragrafo all'altro, non emergono neppure immagini di cose o di esemplari del mondo naturale che tradiscano l'appartenenza a una certa zona ristretta. Un tavolo, qualche baule e alcune sedie sono le uniche suppellettili che figurano nella fattoria di Mato Rujo. Quanto ai campi di mais, al filare di querce e al viale di aranci che sale sulla collina, nulla che aiuti a precisare confini in una zona vasta come quella in cui si parla lo spagnolo. Infine, facendo ritorno all'unico termine portoghese - fazenda -, inizialmente viene da pensare a un incidente di percorso, a un inavvertito sconfinamento.

Infatti, per l'occhio e per l'orecchio di chi conosca solo in termini approssimativi questa lingua, non c'è una netta linea di demarcazione che la separi da quella spagnola. Ma, con meno pedanteria, si può anche pensare ad altro. Nel suo oscillare dal portoghese all'italiano, tutta la fazenda di Belsito potrebbe essere il segno più vistoso di quanto si è voluto segnalare. Che la geografia di Senza sangue è fallace e che, leggendo, non si tratta di itinerari da seguire, né di distanze da superare. 

Certo, la prima impressione è che sia tutto uno spostarsi a breve o a lunga distanza e che, intanto, accadano molte cose. Nella prima parte, l'assalto alla fattoria di Mato Rujo e l'eliminazione di Manuel Roca si susseguono con ritmo veloce e ogni gesto viene puntualmente registrato. Ci si apposta, si spara, si coglie di sorpresa. Si tortura, si uccide, si incendia. Una bambina sopravvive, arriva un uomo a cavallo, i due si allontanano insieme. 
Poi, nella seconda parte, è vero che l'incontro fra Nina e Tito - entrambi ormai invecchiati - non comporta movimenti di rilievo. Ma, fra le parole con cui i due ricordano e ricostruiscono il passato, affiorano almeno due omicidi, un matrimonio, una fuga che è pure una scomparsa densa di conseguenze. Resta il fatto che spostamenti e accadimenti coinvolgono solo la superficie di Senza sangue e che, più in profondità, tutto ristagna, tutto finge di procedere. Occorre prenderne atto: quanto rappresentato è da ricercare al di là delle parole e delle immagini più immediatamente percepibili, lì dove, malgrado le apparenze, tutto rimane per l'appunto immobile.
Alla fine lo si scopre con stupore: non ci si è mai allontanati dalle pagine iniziali, quando Manuel Roca - braccato da Salinas e dai suoi uomini - nasconde sua figlia, la piccola Nina, in un buco scavato sotto il pavimento della fattoria. In quei momenti, mentre il padre viene catturato e fatto a pezzi, la bambina assume una posizione descritta in ogni sua piega. Se ne sta rannicchiata su un fianco, con le ginocchia tirate verso il petto, le mani nascoste fra le cosce e la testa un po' piegata in avanti. È la stessa posizione che, trascorso tanto tempo, passata dall'infanzia alla vecchiaia, Nina assumerà sul letto dell'Hotel California, trovandovi il compimento di un desiderio rimasto immutato. Il desiderio di tornare all'inferno che l'ha generata e di abitarvi al fianco di chi, una volta, da quell'inferno l'ha salvata. Sempre lo stesso posto, fra il tepore delle lenzuola o sotto qualche sole pomeridiano, dov'è finalmente possibile chiudere gli occhi e
dormire. Nel passaggio dalla fattoria di Mato Rujo all'Hotel California, non c'è percorso che si muova da un luogo a un altro luogo.
Sì, la geografia di Senza sangue è illusoria, proprio come i suoi nomi. I quali non sono stati organizzati per fare da riferimento, trasferiscono da nessuna parte, sono segnali svuotati della loro funzione consueta. Così, che sia segno di calcolo o di disavvertenza, la fazenda di Belsito - riunendo portoghese e italiano su un fondale di lingua spagnola - finisce per apparire esemplare. Dove siamo? Siamo dentro il testo, lì e solo lì, messi faccia a faccia con le parole. Unico pezzo di geografia che non tradisce è la tana da animale, il guscio, fra i cui limiti il corpo può raccogliersi e, coricato su un fianco, trovare una posizione ordinata, compiuta, esatta. È quello, sotto il pavimento della fattoria di Mato Rujo e sopra il letto di una camera alterzo piano dell'Hotel California, l'unico luogo cui si è voluto dare forma e consistenza. Posizione del corpo e ripiego della mente, incubo che perdura in pieno giorno, figura di un destino cui sembra non sia possibile sottrarsi. Ma anche cartografia del cuore e dell'anima, dura nostalgia del ventre, rassegnata fedeltà all'origine. Tutto insieme, parola per parola, nient'altro.