Paradosso ha voluto che, dopo quell'apologia della fiction in forma di fiction che era "City" ('99), Alessandro Baricco se ne sia stato buono per un triennio, astenendosi dal raccontar storie. Sono venuti, è vero, diversi pezzi giornalistici che in qualche modo, data la penna, a vere e proprie "storie" potevano essere tranquillamente assimilati (fra questi, i quattro interventi sulla globalizzazione poi raccolti, con annessi bonus tracks, in "Next") - ma fiction in senso stretto, ciccia.
Piaccia o no, risulti simpatico o meno (e Baricco è personaggio che difficilmente sopporta le mezze misure: chi non lo adora di norma lo detesta), non si potrà negare che il quarantaquattrenne narratore torinese sia uno dei pochi autori che contano in quest'Italia al passaggio di millennio. D'altronde, "Castelli di rabbia", l'esordio folgorante ed a mio avviso insuperato di undici anni fa, è ancora lì a testimoniare della disinvoltura fabulatoria di uno scrittore che, dietro lo shining accattivante dello stile, ha sempre avuto a cuore i cosiddetti temi forti della Letteratura (uno per tutti, la resistenza del Sogno di fronte a quella pattumiera che è divenuta ormai la realtà). Dunque, meglio non fare tanto i difficili: di questi tempi, è grasso che cola.
Poco più lunga di "Seta" (e in grado pertanto di evitare il rischio di girare voluttuosamente a vuoto come avveniva nel sopravvalutato "Oceano Mare"), questa quinta prova narrativa di Baricco, "Senza sangue", appena uscita da Rizzoli e scandita - in due parti - per brevi paragrafi che si fanno via via più corposi, ha un inizio noir capace di lasciarti secco: ecco una fattoria isolata in mezzo alla pianura, dentro c'è un uomo coi suoi due bambini, il sole che presumibilmente ha trafitto per tutto il giorno la pianura sta calando, una vecchia Mercedes si avvicina alla fattoria, e i quattro individui che la occupano non sembrano certo animati dalle migliori intenzioni. E' un incipit degno di Peckinpah (ma dove saremo? In Spagna? in Sudamerica? Nella nota anteposta alla narrazione, Baricco ci invita a non porci troppe domande). Ora, l'uomo fiuta il pericolo e riesce a nascondere i figli, ma tre dei quattro gli entrano in casa, sparano all'impazzata, lo feriscono - e qui comincia un vero e proprio processo.
Così veniamo a saperne di più. Manuel Roca (è lui che vive là dentro) è un medico "reo" di aver torturato fin quasi alla morte i compagni dei quattro (c'è stata, e forse c'è ancora, una guerra, e in tempo di guerra tutto è concesso - o così almeno si dice): adesso deve pagare. Si intromette il bambino, imbraccia un fucile. Non fa in tempo a dire: "E' mio padre", che una raffica lo riduce in "pasticcio di piombo, ossa e sangue". C'è ancora la bambina. Lo sanno. La cercano. Nel frattempo finiscono il medico. Poi vanno: "la vecchia fattoria di Mato Rujo dimorava cieca, scolpita in rosso fiamma contro il buio della notte. L'unica macchia nel profilo svuotato della pianura". Passano tre giorni. Un uomo giunge, a cavallo, alla fattoria. Trova i muri anneriti, c'è stato un incendio. Seduta per terra, accanto a ciò che è rimasto del muri, la piccola. E' ferita. L'uomo a cavallo la raccoglie e la porta con sé. Fine primo tempo (e, fuori dai denti: finisse davvero così, il racconto - ancorché monco o irrisolto - sarebbe perfetto).
Molti anni dopo, Nina ritroverà uno degli assassini di suo padre (Tito, quello che allora era il più giovane e oggi, male in arnese, vende biglietti della lotteria). Siamo nel centro di una città, ai giorni nostri. La guerra è lontana. Ma lui ricorda, e sa perfettamente chi è lei. Così le chiede di raccontare tutto quello che è successo dal giorno del massacro in avanti. Lei racconta, ma forse è lui a saperne di più. Perché Tito, o Pedro Cantos - come ora dice di chiamarsi - è legato a Nina da un cordone che nessuno potrà tagliare. Nonostante il tempo passato, nonostante le altre umiliazioni subite e l'altro sangue versato (perché chissà se ci può essere un limite alla vendetta…), qualcosa unisce indissolubilmente la bambina di allora a colui che, scoprendola nella botola ma non rivelando a nessuno dove fosse nascosta, le aveva salvato la vita. Chi ha provato l'orrore, non può fare a meno di restare fedele all'orrore, replicandolo all'infinito, per tutto il tempo, istante per istante, giorno dopo giorno. Ma l'odio? Forse solo la presenza di chi, una volta, ci ha tratti in salvo, può trasformare l'orrore in un inferno sì "identico a quello da cui veniamo. Ma d'improvviso clemente. E senza sangue"…
Per questa cavalcata nel buio (la sua cavalcata più buia: anche se qualche luce per così dire "bambina" giù in fondo risplende), Baricco ha allestito - more solito - un linguaggio di forte impatto visivo e introspettivo, nel quale sfondo e dettagli sembrano caricarsi di intensità l'uno con gli altri, e ove l'assoluta credibilità e naturalezza dei dialoghi, come del gioco dei punti di vista, ha un ruolo certo non marginale (quando viceversa bamboleggia filosofando sull'ineffabile, il libro perde quota e vigore). E se pare chiaro che Baricco i suoi padrini letterari continua a sceglierseli "extra moenia" (tanto - questo è l'assunto - nel frullatore della contemporaneità le nostre radici stanno piantate sul Po come a New York come a Bombay), in queste 105 pagine troviamo efficacemente mixati, per il nostro piacere, l'epos contemporaneo di un Marquez, di un Soriano o di un McCarthy col pathos dolente, ma forse non del tutto sconfitto, dell'ultimo, grandissimo Philip
Roth.
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