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di Ermanno Paccagni ni 
Data di pubblicazione: 07/09/2002

Praterie e città, emozioni e pietas, sequenze cinematografiche e trovate teatrali nel romanzo-metafora balzato in vetta alle classifiche


Chissà perché, a Senza sangue di Baricco mi si associa continuamente l' immagine del batuffolo. Forse, per una duplice sensazione: di compattezza, di qualcosa in cui tutto si tiene, nel suo piccolo; ma pure di levità. E, però, d' una leggerezza di doppio significato. Di lettura scorrevole e svelta, salvo almeno due zeppe ragionative, una per parte, la prima delle quali è il lungo, a tratti logorroico discorso agnitivo del vendicatore Salinas. Ma pure di leggerezza quanto a consistenza, propria d' una microvicenda gestita in due spezzoni, alimentata numericamente con giochi tipografici e qualche inserto improprio (la barista della seconda parte), e fasciata con giochi stilistici miranti per buona parte all' effetto. Che è poi, da sempre, una caratteristica di Baricco: del suo miscelare nella scrittura registri diversi e moduli differenti, espressioni del parlato e immagini coniate con ricercatezza (il «profilo svuotato della pianura», la «quiete incurabile»), con chiuse di scene in smorzando (come in Seta) ricorrendo al conio banal-gnomico (come «l' esattezza ti salverà» o «conta la nuvola, il tempo verrà» depositate su una bimba di dieci anni). 

Che Baricco sappia raccontare è indubbio. Soprattutto - e l' ha ribadito l' infelice City - ove adotti la misura breve (e l' esito migliore resta ancora Castelli di rabbia). Su tale proprietà del fiato corto il rischio difficilmente evitato è appunto il ricordato gigioneggiar manieristico, che si appunta anche al gioco dei calchi o di assonanze di immagini. Come in Senza sangue, costruito in due capitoli: uno, risolto soprattutto nell' azione «là nella pampa sconfinata dove le pistole dettano legge», e racchiuso in una sequenza d' assedio a una fattoria per vendette dopo at rocità in una guerra civile, con truci violenze, il buon bandito che risparmia la bimba e chiusa salvifica da «cavaliere della valle solitaria». Il secondo, 52 «anni dopo» la fine della guerra civile e delle immediate vendette, risolto in un incontro tutto parole pensieri e sguardi tra l' ex bandito Tito e Nina, due vecchi sopravvissuti, in un' atmosfera da resa dei conti finale; a trarre le fila, anche qui agnitivamente, di due vite di violenza, ambiguità e troppe verità ripescate dal vuoto dei decenni trascorsi. 

Aggiungo subito che è quest' ultimo capitolo, soprattutto ove il dialogo si impregna di emozione e pietas, la parte migliore del libro. Come quella meglio adatta allo stile naturalmente rallentato di Baricco; la più immediata, sia pur se pensata in funzione della doppia tirata ideologico-retorica sulle doppie verità della utilità o meno della violenza rivoluzionaria (e non solo), e che ribadisce con certa mimetica pomposità ragionativa la realtà di romanzo-metafora di Senza sangue. 

Un inserto che, al pari della ricordata agnizione di Salinas nel primo capitolo, intacca pesantemente la linearità di un testo costruito col «calibro». Attento alla specularità delle due parti. Collocate, rispettivamente, nella prateria e in città. Prevalentemente in ambienti chiusi, con prospettive per gran parte dagli interni (la fattoria in uno; chiosco, caffè, camera d' albergo in due). Con sequenze più cinematografiche in uno, e teatrali, con fattezze dialogiche da teatro da camera in due, unificate nelle parti non dialogiche dalla cadenza recitante, quasi da voce fuori campo, con dettatura talvolta sfiziosa di pause, rallentamenti, tempi. Quasi a invitare a leggere il testo a voce alta, con tanto di indicazioni tipografi che anche irritanti. Come certo abuso dei puntini di sospensione a suggerire silenzio. La voce calcata col maiuscoletto. Giochetti tipografici da inizio a metà riga (peraltro non sempre allineati alla fine: scelta o scherzo del computer?). Che si aggiungono ad altre trovatine - il giochetto verbale su California di pagina 99 o ribattute anaforiche - la cui assenza non avrebbe di certo intaccato quella dichiarata ricerca della musicalità che però a tratti si risolve in boomerang.