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di Irene Bignardi
Data di pubblicazione: 28/10/98
La Repubblica

Tim Roth nei panni di Danny T.D. Lemon NovecentoImmagini incancellabili, come quelle che ci hanno regalato Fellini, Leone, Bertolucci, Amelio.

Capita sempre più raramente di uscire da un film made in Italy portandosi dietro, negli occhi della memoria, un'immagine incancellabile, un fotogramma simbolo - come quelli che ci hanno lasciato la magica apparizione del Rex felliniano, il cortile di L'ultimo imperatore dove corre PuYi bambino, la bambina che balla Amapola in C'era una volta in America, la nave carica di poveracci di Gianni Amelio. 

E invece, buone notizie: da La leggenda del pianista sull'Oceano, l'attesissimo film di Giuseppe Tornatore, si esce con una messe di grandi immagini emozionanti e incancellabili, e con la sensazione che, nonostante le riserve, le crisi, le rinascite annunciate, il cinema italiano ha ancora molte corde al suo arco. 
Perché con La leggenda del pianista sull'Oceano si ripete il miracolo del grande cinema - e del cinema "in grande", a cui il film di Tornatore appartiene di diritto.Non tanto per il suo sontuoso apparato produttivo (quei "production values", come si chiamano nel gergo degli addetti ai lavori, che sono troppo spesso guardati con sospettosa indifferenza quasi inquinassero la creatività e che qui sono garantiti da un budget inusuale, quaranta miliardi tra Medusa e New Line). Quanto e soprattutto perché il film si richiama alla tradizione di un cinema che quasi non c'è più, al cinema inventato, visionario, arrischiato, ambizioso, irrealistico, che così poco fa parte della nostra tradizione - e che nella nostra storia cinematografica ha avuto un maestro come Fellini, da cui molti momenti della Leggenda sembrano discendere, quasi in forma di omaggio. 

In un certo senso si tratta di una sorpresa: perché Tornatore è sempre stato più un regista di idee e di sentimenti che di grande visione cinematografica - anche se a questa visione aveva cominciato ad avvicinarsi con L'uomo delle stelle. È una sorpresa anche che la visione, salvo qualche cedimento minore e qualche stanchezza, si sposi qui con tanto equilibrio a un sentimento che non è mai sentimentalismo - come se Tornatore, che ha scritto da solo la sceneggiatura, ampliando nella dimensione gigante di due ore e quaranta minuti l'agile monologo di Alessandro Baricco (Novecento, Feltrinelli), avesse messo la sordina agli eccessi emotivi, pago della ricchezza della cornice visiva e della forza della sua invenzione. 

Novecento neonatoIl film, che per la sua bella follia si merita davvero il titolo di leggenda, è, come si sa, la storia di Novecento, che si chiama così per essere stato trovato neonato in una cassetta per i limoni sul transatlantico Virginian il primo giorno del secolo, e che su quella nave, da cui non è mai sceso, è diventato un pianista geniale, la cui fama corre per gli oceani - tanto che il grande Jelly Roll Morton decide di imbarcarsi sulla nave solo per sfidare il misterioso collega a un duello pianistico che è una delle scene più belle del film. 

La storia è raccontata in un incastro di flash back da Max, un trombettista che diventa il grande amico di Novecento e che cerca invano di convincerlo a sbarcare, a tentare una vita normale. Idea da cui Novecento si lascia attirare solo per un attimo, quando nella folla che popola la nave intravede una luminosa figura di ragazza (è l'incantevole Mélanie Thierry, che ha solo il torto di sparire troppo presto): ma Novecento non ce la farà a lasciare il Virginian, né di fronte alla tentazione di vedere com'è il mare visto dalla terra, né, più tardi, ritrovato dall'amico Max, di fronte al rischio di saltare in aria con la nave mandata in demolizione. Chiamiamola "l'impossibilità di essere normali".

Il Virginian de "La leggenda del pianista sull'oceano"La leggenda inventata da Baricco può essere letta perfettamente come la metafora della condizione dell'artista, che non sa riconoscersi nei punti di riferimento e negli stili di vita tradizionali, sempre a metà strada tra mondi diversi, capace di parlare solo attraverso la sua arte. Ma grazie ai due attori protagonisti - un Tim Roth secco, contenuto, minimalista, intenso proprio per il suo pudore, scatenato quando è alla tastiera, e il bravissimo Pruitt Taylor Vince, con il suo faccione da bonario uomo qualunque e gli occhi perennemente inquieti - il versante romanzesco, per quanto improbabile e fantastico, prevale sull'allegoria. 

Mentre la sequenza da antologia è quella, di puro virtuosismo registico, che vede Novecento e Max, nel grande salone della nave in mezzo alla tempesta, mentre scivolano avanti e indietro con il piano a coda eseguendo la loro musica. È, alla fine, la musica il collante emotivo di Novecento. Al grande jazz di repertorio e a quello scatenato eseguito per il film da Gilda Buttà, Amedeo Tomasi, la Alexander Rag Time Band e altri esecutori, si aggiunge la bella musica scritta appositamente da Ennio Morricone che inventa un tema seducente, di quelli che ti seguono fuori dal cinema, come ai bei tempi.