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Immagini incancellabili, come quelle che ci hanno regalato Fellini, Leone, Bertolucci, Amelio. Capita sempre più raramente di uscire da un film made in Italy portandosi dietro, negli occhi della memoria, un'immagine incancellabile, un fotogramma simbolo - come quelli che ci hanno lasciato la magica apparizione del Rex felliniano, il cortile di L'ultimo imperatore dove corre PuYi bambino, la bambina che balla Amapola in C'era una volta in America, la nave carica di poveracci di Gianni Amelio. |
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E invece, buone notizie: da
La leggenda del pianista sull'Oceano, l'attesissimo film di Giuseppe Tornatore, si esce con una messe di grandi immagini emozionanti e incancellabili, e con la sensazione che, nonostante le riserve, le crisi, le rinascite annunciate, il cinema italiano ha ancora molte corde al suo arco. Il film, che per la sua bella follia si merita davvero il titolo di leggenda, è, come si sa, la storia di Novecento, che si chiama così per essere stato trovato neonato in una cassetta per i limoni sul transatlantico Virginian il primo giorno del secolo, e che su quella nave, da cui non è mai sceso, è diventato un pianista geniale, la cui fama corre per gli oceani - tanto che il grande Jelly Roll Morton decide di imbarcarsi sulla nave solo per sfidare il misterioso collega a un duello pianistico che è una delle scene più belle del film. La leggenda inventata da Baricco può essere letta perfettamente come la metafora della condizione dell'artista, che non sa riconoscersi nei punti di riferimento e negli stili di vita tradizionali, sempre a metà strada tra mondi diversi, capace di parlare solo attraverso la sua arte. Ma grazie ai due attori protagonisti - un Tim Roth secco, contenuto, minimalista, intenso proprio per il suo pudore, scatenato quando è alla tastiera, e il bravissimo Pruitt Taylor Vince, con il suo faccione da bonario uomo qualunque e gli occhi perennemente inquieti - il versante romanzesco, per quanto improbabile e fantastico, prevale sull'allegoria. |
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