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Home > Ipse scripsit (scritti da Baricco) > Sull'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre 2001

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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 14/09/01
La  Repubblica

Tutti a dire: siamo in guerra. Sarà. Ma certo è una guerra strana. A me colpisce una cosa: è una guerra senza confini. Non nel senso che è dappertutto: nel senso che, fisicamente, non ci sono confini da difendere, o da attaccare, o dove mandare le truppe, o da fortificare. Togliete al concetto di guerra il concetto di confine e vi trovate tra le mani poco più di un nome che significa poco, forse niente. Sono mai esistite guerre senza confini? Quando proprio due nemici non avevano la possibilità di avere un confine in comune dove scannarsi, se lo andavano a cercare: Vietnam, per dire. Ma dove sono i confini di questa guerra, dov'è la prima linea, dov'è attestato il nemico? Il fatto che non ci sia un risposta certa, dovrebbe far pensare: è un anomalia che ha qualcosa da insegnarci. Vorrei provare a semplificare. Dove cade l'idea di confine, cade l'idea che il nemico sia altro da te.

Se non c'è un confine tra te e lui, tu e lui siete, in qualche modo, la stessa cosa. Il nemico è dentro di te. Psicologicamente, e non solo, è una prospettiva terrificante. E infatti, nonostante la palese assenza di confini, anche in questa guerra tutto il pianeta sta cedendo all'istinito di andarli a cercare: si incomincia con l'identificare il nemico in Bin Laden, ma poichè il terrorismo è per sua costituzione nomade e non offre confini stabili, si va al di là tracciando un'immaginaria linea tra mondo islamico e mondo occidentale che sarebbe uno splendido confine se non fosse che, appunto, è immaginario: è una linea che separa due civiltà, d'accordo, ma fa acqua da tutte le parti e non è certo un compatto, lineare fronte di guerra. Così, abbastanza comicamente, si finisce per guardare all'Afghanistan e al Pakistan con la speranza di trovare almeno lì la nettezza di confini, la pulizia di Stati limpidamente nemici, la vecchia rassicurante realtà di frontiere da attaccare o al di là delle quali bombardare qualcosa. Si guarda da quella parte perché gli indizi portano lì, ma anche perché da quella parte troviamo la guerra come la conosciamo, come abbiamo imparato a combatterla, come la possiamo sopportare. L'alternativa, quella sì, sarebbe vertiginosamente terrificante: non ci sono confini, il nemico non è più davanti a noi, ma dentro. E' quell'alternativa che, a ragione, ci rifiutiamo di prendere in esame. Ed è paradossale: perché, a rigor di logica, quella alternativa disegna la possibilità più verosimile. Provo a spiegare. Sarà un'osservazione banale, ma se uno pensa agli anni dalla seconda guerra mondiale a oggi e ricorda i diversi scontri tra l'Occidente e l'impero del male di turno, non può non notare come, fisicamente, i chilometri di confine coinvolti in quelle guerre, si riducano progressivamente fino all'assurdo: dai fronti della Seconda Guerra ai pochi chilometri di fronte israelianopalestinese, passando per la Corea, il Vietnam, l'Iraq e la Serbia, quello a cui si assiste è un restringersi vertiginoso degli spazi fisici in cui l'Occidente è riuscito a trovare un confine in cui combattere. La cosa non è casuale. Deriva da una scelta tattica ben nota: quella, praticata in quei decenni, di metabolizzare il nemico piuttosto che schiantarlo, di comprarlo invece che distruggerlo, di invischiarlo nel propri mercati al posto di distruggerlo. Decenni di una simile tattica (alcuni la chiamano globalizzazione), perseguita con genio e inossidabile costanza, hanno in effetti ottenuto di togliere al nemico la terra sotto ai piedi, riducendo drasticamente i confini a rischio: oggi, di fatto, la parte del pianeta che può dirsi realmente indipendente dai soldi dell'Occidente, e che quindi potrebbe permettersi il lusso di diventarne un nemico, è significativamente esigua: se poi si tolgono i Paesi sottosviluppati (senza la forza di fare la guerra) e quelli in cui la resistenza è legata alla mitomania di un despota (Gheddafi o Saddam), le parti di pianeta realmente ostili si riducono al lumicino. Detto in termini sintetici, l'Occidente è molto vicino ad essere tutto. Che significa: confini, zero. La guerra scoppiata l'11 settembre sembra, con simbolica e accecante esattezza, l'apoteosi di questo processo. Definitivo azzeramento dei confini e unanimità pressoché globale nella condanna dell'attacco agli Usa. Fino a pochi anni fa sarebbe stata fantascienza, ma adesso è il mondo com'è, realmente, in questo momento. Un unico sistema, indubbiamente molto fragile, ancora abbozzato, ma sterminato, che ha quasi ridotto a zero l'altro da sé. Per un sistema come quello, cosa può mai essere la guerra? Lo scontro con qualcosa che viene da fuori? Difficile. E allora: il cedimento o la ribellione di una parte di sé. Ciò che sarebbe logico pensare è: il nemico è dentro al sistema, non fuori. Per quanto sgradevole ci sembri, la cosa più logica sarebbe pensare: il nemico è dentro. Cercatelo lì. La sento già la domanda: e allora chi è stato? Un lobbysta repubblicano, un businessman asiatico rimasto fuori dal giro, un miliardario svedese afflitto da crisi religiosa? Mi rendo conto che messa giù così è grottesca. Ma ho una cosa da dire. Nel modo più semplice: siamo proprio sicuri che Bin Laden sia definibile come qualcosa di altro dall'Occidente? Da dove arrivano i suoi soldi? Perché è miliardario? Con chi ha fatto affari per diventarlo? Trovava oro in una valle segreta fuori dal mondo globalizzato? Quanto denaro gli abbiamo messo in tasca? E quanto denaro ci ha messo in tasca lui mettendolo in circolo nel sistema sanguigno della ricchezza occidentale in tutti questi anni? Provate per un attimo a resettare tutto e immaginarlo così: un uomo d'affari come tanti che a un certo punto però si rivolta contro il sistema. Non è poi tanto inverosimile, no? Ci rassicura pensarlo come un nemico che viene da fuori e basta. Ma se lo pensiamo come una cellula del sistema, in tutto uguale alle altre, che a un certo punto impazzisce e inizia a divorare l'organismo dall'interno, non è che siamo poi così lontani dalla realtà. Certo che non preme ai confini: scava da dentro. Si inghiotte le Twin Towers: e lo può fare, perché lui è qui, non è là fuori, è dentro, non al di là di confini che non esistono più. Posso sbagliarmi, ma a me l'11 settembre sembra il crudele prototipo di quello che può diventare il futuro. Non credo che sarà mai possibile attribuire quell'attacco a qualcuno o qualcosa di integralmente altro dall'attaccato. Penso che lì si sia inaugurata una nuova epoca possibile, in cui guerra sarà sempre o per lo più scontro tra il sistema e parti di sé che, fisiologicamente, degenerano e sfuggono al suo controllo. Penso che vedere tutto il mondo schierato al fianco degli americani non deve indurci a pensare che il nemico è debole o isolato, ma che il nemico non verrà mai più dalla parte da cui è sempre arrivato. Penso che l'ambizione a essere un pianeta unito e pacifico - meravigliosa ambizione - non otterrà mai un mondo perfetto, ma un mondo in cui la parola guerra significherà qualcosa a cui non siamo abituati. Penso che i confini, spariti dalla superificie degli atlanti, sopravviveranno nel tessuto del sistema, come linee che lo attraverseranno verticalmente invece di disegnare, orizzontalmente, sulla superficie della terra, le geometrie di una guerra. Penso che Bin Laden, così come il ragazzo del Black blok che sfascia vetrine con le Nike ai piedi, sta al di là del confine, ma di un confine verticale, non più orizzontale, che non c'entra più niente coi vecchi confini e che non siamo ancora capaci a leggere. Penso che il sogno di diventare un unico Paese globale - meraviglioso sogno - si realizzerà soltanto attraverso la violenza, la sofferenza collettiva, e una sostanziale sospensione della difesa dei più deboli e dei vinti: e penso che tutto questo non sarà cancellato ma sopravviverà come ferita destinata a infettare dall'interno il sistema, in una guerra logorante che non siamo ancora capaci a combattere, ma che non sarà meno inevitabile delle vecchie guerre che abbiamo combattuto per secoli. Penso che tutto questo assomiglia molto a una storia di fantascienza. Ma ho visto un Boeing sventrare le mura di Manhattan. E so che, da quel momento, immaginare il futuro è diventato un gesto da compiere senza prudenza e senza vergogna.

La Repubblica di venerdì 14 settembre 2001.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001