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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 14/06/98
La Repubblica

CHICAGO - Qui non sanno nemmeno bene dire se c'è una squadra di football della città (la risposta sarebbe sì). I Mondiali di calcio sono lontani: come gabbiani in montagna, arrivano da lontano voci di telecronisti ispanici, ogni tanto, a ricordare mari di erba verde e reti a pescar palloni. Qui e adesso lo sport, tutto lo sport, è basket, flipper di muscoli e rimbalzi messo a bagno in schemi pitagorici. I più forti del pianeta giocano qui, questa sera, e si chiamano Bulls. Cinque volte campioni del mondo negli ultimi sette anni.

Una squadra micidiale raggrumata intorno a tre fenomeni. Scottie (pronuncia: Scadi) Pippen: con quel nome in Italia sarebbe finito: nero, occhi da cartoon, palpebre sempre a mezz'asta, sorriso da gigante buono: difesa e attacco, dà lezioni dappertutto. Dennis Rodman, detto "Il verme": quello coi tatuaggi, i capelli colorati, il piercing, cuoio e borchie dappertutto: nero, cattivo, strafottente: salta poco, segna poco, ma se lo paghi può fermare anche un Pendolino. E infine, con la maglia numero 23: Michael Jordan: mister Air, mai nessuno come lui, un mito planetario: roba che Coppi e Alì sfumano a vip di provincia: un miracolo messo a pendolare tra un canestro e l'altro per la meraviglia di tutti: il più grande. Quei tre, più altri nove, più un coach che sembra una cassapanca vestita da Armani, più ventitremila spettatori, più mezza America davanti al televisore, più una squadra da battere, fanno l'istante che sta per accadere. Istante storico, nel suo piccolo. E' una partita, ma l'hanno già ribattezzata: l'ultimo ballo. Il fatto è che tutto finisce e anche i Bulls stanno per finire. Il prossimo anno si cambia, e via un altro ciclo. I grandi Bulls giocano per l'ultima volta, stasera, sul parquet di casa, allo United Center. Ultimo tango a Chicago. Sparirà, forse, Michael Jordan, che ha voglia di smettere, e di stare in poltrona a vedere chi avrà mai il coraggio di scegliere, da qualche parte, la maglia numero 23. La notte degli addii. E giacché la sceneggiatura dello sport è sempre scritta da dio, tutto avviene nel game five della finale Nba, sul 3 a 1. Tradotto: se i Bulls vincono, diventano campioni del mondo e mettono su un addio da non dimenticarselo più. Se perdono vanno a giocarsi tutto in trasferta, a Salt Lake City. Chicago vuole la vittoria qui e ora. Poliziotti a cavallo circondano il centro per salvare almeno un pezzo di città dai tradizionali saccheggi post-vittoria. I media si sognano un Michael Jordan che annuncia il suo ritiro con la Coppa in mano, le lacrime agli occhi, e Chicago ai suoi piedi. Notte speciale: adrenalina per tutti. Ore otto. Si comincia.

Il primo Michael Jordan che vedo dal vivo sorride e fa la bolla col chewing gum. Si scalda, nel casino generale, e sembra uno che sta accendendo i fornelli per cucinare. Serafico. Lui, sospeso in aria, sarà una delle icone del secolo, se solo gli storici avranno un po' di buon senso. L'umanità pesava di più, prima di lui. Generazioni di consumatori hanno volato, in quell'icona, e sicuramente hanno perso, mentalmente, qualche chilo, sentendosi più leggeri. Un'azienda con qualche dirigente geniale l'ha capito, e concentrando tutto l'effetto sulle scarpe, ha messo su un impero. Se vendevano pancetta, avrebbe funzionato lo stesso: mangeremmo pancetta e sogneremmo di volare: tanto quell'icona non lascia scampo. Jordan in aria è tempo arrestato. Lui salta, come tutti, ma poi lassù si ferma, ed è una cosa che non ha senso, ma lui abita quell'aria, ci trova dentro il tempo di fare dei ragionamenti, di vedere pian piano scendere tutti gli altri, di cambiare idea, mano, equilibrio, di rimanere da solo, lui il pallone il canestro, con gli altri ormai giù, gli occhi all'insù. Quando atterra, il pallone sta ancora là in alto, a frusciare nella rete del cesto, come una specie di risarcimento all'aria violata. Pazzesco. Tu guardi, e sei più leggero, sarà stupido ma è così. Lo sei anche se hai le espadrillas ai piedi e non quelle macchine gommate che ha lui. Lo sei perfino se non lo sei. Miracolo. Mister Air. Signor Aria. Come disse una volta Larry Bird, uno dei grandi del basket americano: "Ehi gente, questa sera in campo c'era Dio. Era quello travestito da Michael Jordan").


L'ultimo ballo i Bulls lo iniziano con la testa altrove. Li tiene a galla Toni Kukoc, un croato che infila il canestro da ogni posizione. Un cecchino. E grazie di averci restituito, pulita, una parola orrenda. Di fronte, i Bulls hanno i Jazz Utah, una squadra che macina punti ruotando intorno a suoi due fuoriclasse, Stockton e Malone. Il primo è bianco, piccolo, faccia da ragioniere ordinato, sembra uscito da un televisore in bianco e nero: lui è la mente. Il braccio è Malone, un nero immenso, soprannominato "Il postino": infila palloni nel cesto come lettere nella buca: tranquillo e a mazzi. I Bulls hanno messo in campo, per fermarlo, Luc Longley, uno che è alla sua altezza, ma solo in quanto a centimetri. Per il resto, soffre e sta a guardare. Il postino ringrazia e distribuisce posta per tutti. Allora dalla panchina dei Bulls si alza Rodman, il verme. L'unico che Malone soffre veramente. Rodman gli incolla i suoi tatuaggi addosso ed è collisione continua, uno spettacolo. Bulls avanti di due punti nel primo quarto e di sei a metà partita. Sembra l'inizio dell'apoteosi finale. Ma Pippen scaracolla un po' svagato, e Jordan va a sbattere sulla contraerea dei Jazz. I Bulls si inceppano. Malone vede il canestro al di là dei capelli verdi del verme. Lo vede e lo becca con una regolarità sconcertante. Stockton fa girare la palla come una saponetta, Kukoc non basta più. Vacillano i Bulls. Prende palla Jordan. I ventitremila dello United Center sanno quel che deve fare. Ipnotizzare la partita, e vincerla, anche da solo. Lo sa benissimo anche lui. E ci prova. Il sistema è semplice. Al diavolo gli schemi e dritto in volo a canestro. Specialità del locale. Di solito, quando decide di partire, tira fuori la lingua, in un modo che è diventato mitico. Chi difende su di lui, lo sa. Quando vede apparire la lingua, maledice il momento in cui ha iniziato a giocare a basket. "E' stupido, ma ti viene voglia di fermarti a guardare, e basta", disse una volta Michael Cooper. Stavolta però, i Jazz hanno deciso che lo spettacolo è durato abbastanza. Si chiudono su di lui come un diga di maglie viola, e le ali di Jordan frullano errori. Terzo quarto disastroso. Bulls sotto di quattro punti. In Italia, in uno stadio di calcio, tutto piomberebbe in un silenzio da tragedia. Ma qui il tifo è una cosa strana. Si sgolano, danno di matto, ma è diverso. La partita è una polpetta di carne che si perde in un hamburger fatto di mille altre cose: i giochetti degli sponsor, le telecamere che inquadrano la gente e ne rispediscono l'immagine sugli schermi giganti (questo li fa letteralmente impazzire), le domande da trivial se rispondi vinci qualcosa, i Bulls Brothers che arrivano in moto sul campo durante il time-out e giù tutti a cantare, le ragazze pon pon che a ogni minuto vuoto invadono il terreno snocciolando le curve in coreografie da Domenica In, tutto un gran casino da fiera permanente. E annegata lì dentro, la partita. Un ultras, qui, non potrebbe nemmeno esistere. Intanto avrebbe le mani occupate da una birra e da un hot dog. E poi come fai a scambiare per una guerra un posto dove sul più bello tutti si mettono a ballare il limbo, chi lo fa meglio finisce dritto sui megaschermi? Ti viene da mandare tutto in mona. A sorpresa, emergono dalla fiera le due squadre e si sfidano nel rettilineo finale. Una manciata di minuti che durano un' eternità. E' il bello del basket. Più ti avvicini alla fine, più il tempo si dilata. In manciate di secondi può accadere di tutto. Roba per cuori forti. A tre minuti dalla fine i Bulls sono sotto di cinque punti. Vola Jordan, abbattuto. Vola di nuovo, abbattuto di nuovo. Un minuto e tredici secondi. Bulls sotto di quattro. Jordan si carica la squadra sulle spalle e decolla. Per fermarlo, questa volta, devono riocorrere al fallo. Due tiri liberi. Mastica la gomma, Jordan, fissa il vuoto e poi tira. Dentro. Tira il secondo. Dentro. Bulls a meno due. Tutti in piedi. Malone in area. Roadman gli ringhia addosso tutto quello che gli resta. Malone solleva il suo abbonda nte quintale, frusta la palla con il polso, blocca il respiro a milioni di americani e infila. Bulls a meno quattro. 53 secondi da giocare. Tutti sanno che può ancora succedere di tutto.

L'ultimo tango a Chicago finisce col cronometro che segna tre decimi alla fine. Palla ai Bulls, sotto di due. Una briciola di tempo per resuscitare. Tre decimi per inventare un lampo. Qualcuno lo deve fare. Chi, se non lui? Palla nelle mani di Jordan. A chilometri dal canestro. Tiro della disperazione. Palla che vola. Sirena che suona. Palla che sparisce nel nulla. Apoteosi rimandata. Mister Air se ne esce lentamente, tenendo lo sguardo basso. Non alza gli occhi neppure un istante. Non sembra l'uscita di uno che, lì dentro, con la maglia numero 23, non rientrerà mai più.

La Repubblica, 14 giugno 1998

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001