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Alessandro Baricco |
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Mondiali di Città del Messico, 17 giugno 1970: Italia-Germania 4 a 3 |
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Quando Schnellinger insaccò, un minuto e quaranta secondi dopo lo scadere del tempo regolamentare, io avevo dodici anni. In una famiglia come la mia ciò significava che ero a letto, a dormire, già da un bel po'. Allo stadio Azteca stavano facendo la storia, e io dormivo. Era giugno, il mese in cui ti spedivano dai nonni, al mare, a farti di biglie e di focaccia. Mi immagino mio nonno, solo, davanti alla tivu, fulminato, come Albertosi, dalla palettata di Schnellinger. Dovette succedergli qualcosa dentro, in quell'istante: forse il complesso di colpa per avermi negato per sempre quell'emozione; forse, più semplicemente, pensò che era troppo solo per sopportare tutto quello. Insomma: si alzò e venne a svegliarmi. L' unica altra volta in cui qualcuno era venuto a svegliarmi nel pieno della notte per portarmi davanti a un televisore era poi successo che un uomo aveva messo un piede sulla luna.
Quindi,
quando mi sedetti sul divano, sapevo esattamente che non avrei più
dimenticato. Messico, giugno 1970, semifinale dei mondiali, Italia -
Germania. Per la mia generazione, quella è LA partita: è per la gran
parte di noi è una emozione in piagiama e vestaglia, piedi freddi in
cerca di pantofole, gusto di sonno in bocca e occhi stropicciati. Quel
che di più simile c'è a un sogno. Da lì in poi è confusione. Non ricordo più nulla, intorno a me, e questo significa che doveva esserci un gran casino, dentro e fuori casa. E' strano che io non abbia nemmeno un'immagine in testa di mio nonno che schizza fuori dalla poltrona e, che so, dà di matto sul balcone sparando dei vaffanculo tremendi a gente con cui, dall'8 settembre del '45, aveva qualche conto in sospeso. Niente del genere. Mi spiace, anche, perché terrei con me volentieri un'immagine di lui felice, incontrovertibilmente felice, lui che era un uomo così pudico nelle sue gioie. Eppure tutto, nella memoria, risulta ingoiato da due singole immagini, che hanno cancellato tutto il resto, come due flash accecanti che hanno spento tutto, intorno. E in tutt'e due c'è Rivera. La
prima è lui abbracciato al palo, un istante dopo aver fatto passare un
pallone pizzicato dalla testa di Mueller e spedito proprio dove c'era
lui, sulla linea di porta, lì esattamente per fare quello che però,
all'ultimo, non era riuscito a fare, e cioè interporre un qualsiasi
arto o lombo tra pallone e rete, gesto per cui non era necessaria
nessuna classe, nessun talento, ma giusto la semplice volontà di farlo,
la determinazione di trasformarsi in corpo solido, l'ottuso istinto alla
permanenza che hanno le cose tutte, tutte tranne Rivera su quella linea
di porta, dove vede passare il pallone e guardarlo è tutto, il resto è
un palo abbracciato comicamente e un Albertosi che ti grida dietro
domande senza risposta. Perchè poi tutto questo, chi lo sa. Voglio dire: per quanto bella, era poi solo una partita. Cosa è successo perché dovessimo mitizzarla così? A dire il vero non l'ho mai veramente capito. Mi vengono in mente solo due spiegazioni. Avevamo l'età giusta. Tutto lì. Avevamo l'età in cui le cose sono indimenticabili. E poi: quella sera, quella partita, l'abbiamo vinta. Sembra una stupidata, ma sapete qual è la cosa più assurda di tutta questa faccenda? Che se voi citate a un tedesco quella partita, magari con un' aria un po' complice, come a condividere un ricordo pazzesco e perfino intimo, beh, quello quasi non se la ricorda, quella partita. Cioè, se la ricorda, ma non gli è mai passato per la testa che fosse qualcosa di più di una partita. Anzi, hanno sempre un po' l'aria di considerarla una partita stramba, folklorostica, neanche tanto seria. Non è un mito, per loro. Non è un luogo della memoria. Non è vita diventata Storia. E' una partita. Tutt'al più ti citano Beckenbauer che gioca i supplementari con la spalla fasciata e il braccio bloccato sul petto. Come sarebbe a dire? Tu parli di una cena pazzesca e loro ti citano le patate lesse? Non scherziamo. Tanto quello giocava rigido come una scopa anche se non lo fasciavano, sempre lì a colpire d'esterno, il fighetto, chiedigli un po' notizie di De Sisti, neanche l'ha visto, per tutta la partita, te lo dico io, ma vattela a rivedere poi ne riparliamo, altro che Beckenbauer, vattela a rivedere, tac, interno destro, altro che esterno, comunque per me quella partita abbiamo incominciato a vincerla al 91, credi a me, no, che c'entra Schnellinger, dico al 91, adesso tu non te lo ricorderai, ma è lì che si è deciso tutto, cambio dalla panchina, fuori Rosato, dentro Poletti, ti dico che lì la partita è girata, ascolta me, vattela a rivedere se non ci credi... Prego? Ma guarda te, questo non sa nemmeno chi è Poletti... La Repubblica, 10 giugno 2000. |
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_____________________________________ Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001 |