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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 14/02/01
La  Repubblica

Naturalmente tutti chiedono di Abbado, e dei Berliner, e se davvero siano la meraviglia che si dice, e tu rispondi sì, sono la meraviglia che si dice, e allora loro dicono: in che senso?

Già, in che senso? Mi vengono in mente tre cose. La prima è la forza. La musica beethoveniana è una macchina che produce forza. Lo fa spesso, con una frequenza quasi maniacale, e lo fa perché dietro c'è una precisa idea: gli uomini sono eroi, se vogliamo raccontare gli uomini dobbiamo raccontare degli eroi. La vita è una sfida epica, se vogliamo raccontare la vita dobbiamo raccontare un'epopea. Pronunciare la forza, era un modo di dire il nome dell'uomo. Beethoven sapeva farlo da dio. Il trucco era: niente forza gratuita, slogan vuoti, esplosioni orchestrali senza fondamento. Lui non gridava la forza: la costruiva. Costruiva delle fondamenta, poi incominciava a tirare su il muro, e così via, fino a ottenere la diga, immane. La forza, in lui, non era mai un'esplosione irrazionale: era sempre il risultato di un teorema.

Ti arriva addosso, alla fine, quando è chiaro che nient'altro potrebbe succedere che quello, quell'orchestra lanciata a razzo, a squartare, con eleganza solenne, il paesaggio sonoro. Questo modo di lavorare dava a qualsiasi inflessione eroica, epica, un irresistibile sigillo di inevitabilità, di certezza: dava alla forza, una forza sconosciuta.
Ora. Bisogna averci la testa di Beethoven. Molti direttori non ce l'hanno. Molti direttori, di quella forza, riescono ad esibire solo la parte finale: l'eruzione del vulcano: luce, spettacolo, lapilli, okay, tutto bello, ma: pensate uno che invece vi porta sotto terra, vi fa risalire tra le vene nascoste del mondo, vi fa prendere velocità seguendo il rovente rigurgito del ventre del pianeta, e poi vi spara in aria, a illuminare la notte del comune disincanto. Immaginatevi uno che riesce a rendervi visibile ogni singolo passaggio del teorema. Pensate a uno che di quella partita riesce a ricostruire tutte le mosse. Voilà: Abbado.
Lui sa ricostruire ogni volta la forza da capo. E' un lavoro di pazienza: a parte i muri portanti bisogna anche prendersi cura degli stucchi, e poi le tubature, e i serramenti, e che le scale funzionino, e che ci sia luce, dalle finestre: il fraseggio dei contrabbassi, gli accenti nelle frasette degli strumentini, il suono delle viole, l'esattezza dei timpani. Costruisce. Ho sentito la Quinta, lunedì sera, e la cosa accecante era che tutto ciò che ascoltavo suonava come necessario, non so come spiegarlo, era reale perché necessario, si sarebbe interrotto il mondo se una sole di quelle frasi musicali non avesse partorito effettivamente quella dopo, se qualcuno avesse inceppato il gran teorema, era una macchina che di deduzione in deduzione produceva forza (di passaggio anche dolore, poesia, perfino divertimento) ma soprattutto forza, una forza che nessuna debolezza avrebbe potuto spazzare da lì. Tutti eroi, in sala, alla fine. Zoppicanti, confusi, sconfitti, sbolinati finché volete: ma tutti eroi, lo garantisco.
E questa era una. Una ragione per credere che Abbado e i Berliner sono la meraviglia che dicono. La seconda c'entra con la modernità. E' una cosa un po' noiosa, volendo, ma importante. Se dirigi Beethoven quello che fai è tramandare un pezzo di passato. Non c'è santo. E con ciò puoi anche pensare che il senso del tuo gesto sia bell'e che finito: tramandare un pezzo di passato. Praticamente è come essere una sala di un museo. Detto così sembra una cosa facile. Non lo è. E infatti molti sono applauditi per il solo fatto di riuscire ad esserlo. Però puoi anche immaginare qualcosa di più complicato: prendere un pezzo di passato e farlo risuonare in mezzo alle strade del presente. Non al riparo in un museo, ma allo scoperto, fuori, dove accade il presente. L'operazione è difficile: come riuscire a mantenersi fedeli al passato diventando, però, moderni?
Nel mondo ci sono sei o sette musicisti che, attualmente, sanno rispondere a questa domanda. Una decina, va'. Abbado è uno di quelli. Non che la dica, la risposta, è inutile che gliela chiedi. Però sale sul podio e te la fa vedere. Per me l'ultimo movimento della Settima che ho ascoltato a Santa Cecilia, la sera del primo concerto, è una delle migliori risposte mai ascoltata. Passato e presente. Fedeltà al testo e fedeltà al proprio tempo. Niente di eccentrico, ma intanto, anche solo vent'anni fa, quella musica, suonata così, nessuno avrebbe potuto farla. Essendo in gran parte una questione di ritmo e velocità, tu puoi fare due cose: fare finta che non sia successo nulla da Beethoven in poi, e fare la bella statuina e la sala da museo. O arrenderti al fatto che ritmo e velocità sono due pilastri del presente, che li abbiamo reinventati già tre o quattro volte da quando Beethoven scrisse quella musica: quindi avvitarti sul collo la testa di un uomo moderno, salire sul podio e vedere cosa succede. Se sei Abbado quello che succede è una meraviglia.
E' un meraviglia anche perché (e questa è la terza cosa) con lui c'erano i Berliner. Non so quante orchestre al mondo riuscirebbero a tollerare il tour de force imposto da Abbado in quel finale della Settima. Magari tutte riuscirebbero a correre così veloce, ma quante saprebbero farlo senza perdere pezzi per strada: pulizia, compattezza, pienezza di suono, limpidezza di pronuncia, volume, espressione? Più o meno tutti, soprattutto se costretti perché sotto il tiro di un'arma da fuoco, possono buttarsi giù da un ponte con un elastico legato alle caviglie che ti fa rimbalzare nel vuoto come uno yo yo. Ma quanti potrebbero farlo senza perdere gli occhiali, recitando La pioggia nel pineto e sorridendo alla fidanzata che, imbambolata, assiste all'operazione? I Berliner ci riescono. Stavano lì a rimbalzare in quella specie di labirinto cubista, e sembravano gentiluomini riuniti lì per il the delle cinque. Latte? Sì, volentieri. Solo un attimo perché sta rimbalzando contro il soffitto. Figurati, non c'è fretta. Ecco, è tornato. Giusto una nuvola, grazie. Cose così.
Davanti a cose così, uno pensa che non gli succederà molte altre volte nella vita, e che poi è solo musica classica, d'accordo, ma intanto quella non è stata una serata qualunque, e mai lo diventerà. Già mi immagino tra un bel po' d'anni, cosa ne farà il ricordo: lieviterà a mito, a racconto epico, a iperbole fantastica. Saremo tutti insopportabili, quando racconteremo questi concerti, avremo davanti giovani che ci guarderanno senza ben capire se crederci o no, e noi tra un'artrite e un by pass, lì a fare gran gesti nell'aria, con le mani, e a dire che adesso certe cose non si sentono più, allora sì, quelli sì erano anni, quella era musica, sentitevi i dischi, e imparate. Saremo insopportabili e meravigliosi. Non vedo l'ora.

 Storia siamo noi, è solo un verso di una canzone di De Gregori, ma adesso ho capito cosa voleva dire - risvegliarsi con la Storia addosso. Che vertigine.

Neanche sappiamo esattamente cosa è successo. Ma certo la sensazione è precisa: molte cose non saranno mai più come prima. E molte cose non saranno più, tout court. Invidio l'intelligenza e la lucidità di chi è capace, qui e adesso, di capire quali e di dircelo. Aspetto fiducioso. E intanto non riesco a non ripensare alla frasetta che tutti pronunciano, ossessivamente, senza paura di essere banali: è come un film. E' ovvia, eppure tutti la ripetono, e ci deve essere qualcosa lì dentro che vogliamo dire ma non riusciamo a capire, qualcosa che abbiamo in mente, e che è importante, ma che tuttavia non riusciamo a tirar fuori. Me la rigiro nella testa, la frasetta, e arrivo a capire che c'è qualcosa, in quello che vedo alla televisione, che non quadra, e non sono i morti, la ferocia, la paura, è ancora qualcosa d'altro, qualcosa di più sottile, e mentre vedo per l'ennesima volta quell'aereo che vira e centra il totem sberluccicante nella luce del mattino, capisco quello che mi sembra, davvero, incredibile, e anche se mi sembra atroce dirlo, provo a dirlo: è tutto troppo bello. C'è un'ipertrofia irragionevole di esattezza simbolica, di purezza del gesto, di spettacolarità, di immaginazione. Nei diciotto minuti che separano i due aerei, nello sgranarsi degli altri veri e falsi attentati, nella invisibilità del nemico, nell'immagine di un Presidente che se ne parte da una scuoletta della Florida per andare a rifugiarsi nel cielo, in tutto questo c'è troppa maestria drammaturgica, c'è troppo Hollywood, c'è troppa fiction. La Storia non era mai stata così. Il mondo non ha tempo di essere così. La realtà non va a capo, non concorda i verbi, non scrive belle frasi. Noi lo facciamo, quando raccontiamo il mondo. Ma il mondo, di suo, è sgrammaticato, sporco, e la punteggiatura la mette che è uno schifo. E allora perché la storia che vedo accadere in quel televisore è così perfetta? Perché è già perfetta prima che la raccontino, nello stesso istante in cui accade, senza l'aiuto di nessuno?

Allora mi sembra di capire qualcosa di quella frasetta ripetuta ossessivamente, è come un film. La ripetiamo perché lì dentro stiamo cercando di pronunciare una paura ben precisa, una paura inedita, mai avuta prima: non è il semplice stupore di vedere la finzione diventare realtà: è il terrore di vedere la realtà più seria che ci sia accadere nei modi della finzione. Ti immagini l'uomo che ha pensato tutto quello e puoi forse sopportare la ferocia di quello che ha pensato, ma non puoi sopportare l'esattezza estetica con cui l'ha pensato: come l'ha fatto è spaventoso almeno quanto quello che ha fatto. Ne siamo terrorizzati perché è come se qualcuno, improvvisamente e in modo così spettacolare, ci avesse portato via la realtà: è come se ci informasse che non ci sono più due cose, la realtà e la finzione, ma una, la realtà, che ormai può accadere soltanto nei modi dell'altra, la finzione: e non solo per scherzo, nelle trasmissioni televisive in cui veri uomini diventano falsi per far finta di essere veri, ma anche nelle curve più reali, atroci, clamorose e solenni dell'accadere. Sembrava un gioco: adesso non lo è più.

Non so. Chi sa mi spiegherà cos'è successo l'11 settembre 2001, e cosa è cambiato per sempre, ieri. Io sto giusto pensando che, tra le altre cose, è anche successo che è andato in corto circuito il raffinato meccanismo con cui la nostra civiltà da tempo scherzava col fuoco e drogava la realtà spingendola verso le performences che sarebbero solo a portata della finzione. Credevamo di poter mantenere un sufficiente dominio su quel giochetto. Ma qualcuno, da qualche parte, ha perso il controllo. A nome di tutti. Adesso è facile chiamarlo pazzo, ma è evidente che è pazzo di una pazzia assai diffusa in famiglia. L'abbiamo coltivata allegramente: adesso eccoci qui, con il televisore davanti che ci srotola quella storia smerigliata e perfetta, eccoci qui, col vago sospetto di essere lo show del sabato sera di qualcuno. Qui a guardarci intorno impauriti, giusto per verificare che tutto questo è vita, magari morte, ma non un film.

La Repubblica, 14 febbraio 2001.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001