Parliamo
un po’ di libri?
"Volentieri, di questi tempi agli scrittori si chiedono sempre cose
sul mondo, sulla politica..."
Ci
sono scrittori che lei sente come suoi compagni di viaggio? O pensa che
la sua parabola di narratore sia solitaria?
"No, io ho avuto moltissimi maestri, libri che mi hanno insegnato
molto. Quando ero giovane leggevo i peruviani per dovere, ma la vera
passione ce l’avevo per i francesi, i russi, i nordamericani. Mi
ricordo Malraux... quando lessi La condizione umana, fu una rivelazione.
E Faulkner. Da lui ho imparato il senso del tempo, l’idea di forma, l’ambizione
a strutturare i libri in modo non ovvio... quella sua capacità di
cambiare la voce narrante... mi ricordo che fu il primo che lessi con
carta e penna di fianco al libro: leggevo e prendevo appunti. Una
lezione. E poi Sartre, ma a dire il vero non come scrittore, piuttosto
come maestro di pensiero... diciamo che lui tracciava la linea, lui era
la linea filosofica da seguire... erano gli anni 60 e lui era la linea,
capisce? "
Credo
di sì.
"Lui era la linea. E poi... beh, Nabokov, ad esempio, Lolita, un
libro straordinario, o Joseph Roth, La marcia di Radetzky, quello è uno
straordinario romanzo storico, il racconto del disfacimento di un
impero, passo dopo passo, una meraviglia. Ma anche Balzac, o Flaubert, o
Melville, li leggevo e imparavo l’ambizione a scrivere romanzi
ambiziosi".
Qualche
italiano?
"Il Gattopardo, sì, Il Gattopardo, anche lì la storia di un mondo
che muore, scritta benissimo. Mi ricordo che a un certo punto seppi che
Vittorini ne aveva parlato malissimo, o forse si era rifiutato di
pubblicarlo, adesso non ricordo, però mi ricordo che in quel momento
decisi che non avrei più letto Vittorini, basta, cancellato"
(ride).
Però
son tutti morti. Voglio dire, qualche compagno di strada vivo ce l’ha?
"Beh sì, tanti... Enzensberger, ad esempio, forse lui è quello
che sento più vicino a me, anche lui, come me, è una specie di
cittadino del mondo... lui è un amico".
Lei
di solito scrive in modo spettacolare ma sostanzialmente piano,
semplice. Quando ha scritto Conversazione nella "Catedral",
invece, ha scelto una scrittura molto complessa, che mette in
difficoltà il lettore con cambi di ambiente, di voce narrante, di
tempi... uno legge e spesso si perde. Le piace la complessità? O era
solo un esperimento?
"Sa, in quel libro volevo raggiungere una visione per così dire
sferica della storia che raccontavo... volevo raccontare otto anni di
dittatura e pensai che bisognava riuscire a raccontare tutti i livelli
di quella esperienza, tutti simultaneamente, lo stesso mondo vissuto dai
poveri e dai ricchi, dagli intellettuali e dai servi... Va anche detto
che era una storia tragica ma contemporaneamente grottesca, sentivo che
per darle una certa verità occorreva una scrittura in qualche misura
oscura, non limpida. Cercavo un linguaggio opaco, mi sembrava che fosse
immorale usare per quella storia una scrittura limpida, brillante. E
poi, sa, quando si è più giovani si è portati a credere che una certa
oscurità sia in qualche modo una garanzia di profondità... E’ solo
col tempo che si scopre che è vero il contrario".
Lei
è ormai da anni uno scrittore affermato. Le interessa ancora cosa
dicono i critici da lei?
"Io sono curioso. Per cui li leggo. Ogni tanto mi interessano, ogni
tanto no. Non amo la critica accademica, filologica, esoterica. A me
piace la critica creativa. Voglio dire mi piacciono i critici che usano
i libri degli altri come uno scrittore usa la realtà: come un punto di
partenza per creare propri mondi, proprie interpretazioni. Ma non è che
ne siano rimasti molti di critici così".
La
imbarazza se io le dico qualche nome di scrittore contemporaneo e lei mi
dice cose le viene in mente?
"No".
Don
De Lillo.
"Ho letto un paio di libri... ce n’era uno con una trama non
male... come diavolo si intitolava..."
Philip
Roth.
"Il primo libro era divertentissimo, Il lamento di Portnoy, lì mi
ero molto divertito. Penso che sia uno scrittore un po’ diseguale...
il suo rischio è che scrive troppo facilmente, voglio dire, gli riesce
troppo facile, si vede, e io credo che uno scrittore debba fare un po’
di fatica a scrivere".
Pynchon?
"Mai riuscito a finire un suo libro. Devo dire la verità. Mai
arrivato alla fine".
Sepúlveda.
Da noi è amatissimo.
"Beh, c’è molto García Márquez in quei libri, no?, un po’
troppo..."
Isabel
Allende?
"Stesso discorso".
E
Umberto Eco?
"Beh, lui è uno spettacolo vivente, è una specie di icona
contemporanea, non è solo uno scrittore, è qualcosa di diverso. Il
nome della rosa mi era molto piaciuto, sembrava un Borges postmoderno,
bellissimo libro. Poi Il pendolo di Foucault, quello non l’ho finito,
mi ci sono un po’ perso..."
Saramago?
"No, Saramago no". (ride)
Okay.
Fine del gioco. Volevo sapere cosa ne pensava di alcune parole d’ordine,
o luoghi comuni, che regnano in questi tempi. Ad esempio: lei è
convinto che difendere la civiltà del libro dall’aggressione della
civiltà dell’immagine sia un battaglia sensata, e necessaria?
"Sì, assolutamente. Non possiamo sapere se il libro sparirà,
fatto fuori dalle nuove tecnologie, ma finché c’è bisogna
difenderlo. Io non riesco a immaginare nessun umanesimo capace di far a
meno dei libri. La letteratura produce desideri, ribellione, attenzione
per le differenze. E’ indispensabile. E poi sono convinto che la
cultura dell’immagine sia sostanzialmente una cultura conformista,
molto controllata, sottoposta a troppe regole. La letteratura invece è
libertà. Per cui, sì, penso che si debba difenderla a oltranza".
Un’altra
parola d’ordine è democrazia. Anche quella bisogna difenderla a
qualsiasi costo, anche a costo di smarrirne il significato originario?
"Guardi, io ho vissuto due terzi della mia vita sotto la dittatura
e un terzo in democrazia. Posso dire questo: non ci sono dubbi che la
democrazia è l’unico modello che permette il progresso economico nel
rispetto della dignità e della libertà dell’individuo. I modelli
alternativi hanno tutti fallito: comunismo, fascismo, franchismo... solo
fallimenti. Bisogna però capire che la democrazia è per sua stessa
natura imperfetta. Non esistono democrazie perfette. Ci sono diversi
gradi di imperfezione. Ad esempio la democrazia inglese mi sembra meno
imperfetta di quella francese, ma a sua volta è più imperfetta di
quella di certi paesi nordici, la Svezia, ad esempio. E devo anche dire
che nessuna forma di democrazia può sopravvivere al cinismo, alla
disillusione, alla stanchezza. La democrazia ha bisogno di passione, se
no muore".
E la
globalizzazione? La spaventa o la affascina? O tutt’e due?
"Mi affascina. Penso che sia la cosa migliore che poteva succedere
al mondo. Non capisco ad esempio i francesi che hanno terrore di essere
invasi da Hollywood o dagli hamburger... è un atteggiamento tribale,
obsoleto. Vede, io ho una ferma convinzione: che tutte le apocalissi
dell’umanità sono state generate, in passato, da due cause precise:
la religione e il nazionalismo. E la globalizzazione è un ottimo
antidoto contro entrambe. E’ un vaccino. Per cui non ne ho paura,
anzi. Certo mi rendo conto che in certi casi produce effetti negativi,
ma sono convinto che questo si potrebbe evitare se solo si capisse che
alla globalizzazione è necessaria la democrazia: sono due forze che si
completano. In assenza di democrazia, la globalizzazione può in effetti
generare guasti enormi. E’ il problema del Terzo Mondo".
Senta,
lei con i suoi libri è diventato ricco, ormai...
"Beh, ricco forse è una parola un po’ grossa..."
Volevo
sapere come le piace spendere i suoi soldi.
"Ah, spendo tutto (ride). Sa, io ho tre figli. Faccio di tutto per
assicurare loro un’educazione migliore possibile. Ma l’idea di
lasciare un’eredità mi ripugna (ride). E comunque... i soldi ti danno
libertà, puoi viaggiare, puoi decidere di fermarti a scrivere un libro
per anni... ma io non sono mai stato schiavo del denaro, anche quando
sono arrivato a Parigi, negli anni 60, e non avevo un soldo in tasca, si
campava con un panino al giorno, ma non mi importava nulla. Poi è
successo quel che è successo, ma è stato giusto un accidente
straordinario".
Lei a
un certo punto ha deciso di impegnarsi nella politica, in modo anche
molto diretto e clamoroso, candidandosi alla presidenza del suo paese.
Lo fece perché ne sentiva il dovere, o c’entrava anche il piacere per
il potere, l’ambizione...
"Tutt’e due. Pensavo che potevo essere utile a difendere la
democrazia in Perù. E però c’era anche la fascinazione per la
politica... sa, il gusto per l’azione. Uno scrittore non ha questa
emozione dell’azione. Lì c’era. Poi tutto è stato molto
difficile... violento e ingrato... fu un’esperienza tremenda, ma non
me ne pento, fu una grande lezione di realtà, io credevo di conoscere
il mio paese e poi, quando cominciai a girarlo da capo a fondo scoprii
un paese che non conoscevo. Una lezione di realtà".
Lei
in Europa è considerato un uomo di destra. Si riconosce in questa
definizione?
"Il fatto è che io mi son messo a criticare il comunismo, o Cuba,
in anni in cui questo non si poteva fare. O almeno: era impensabile che
lo facesse un intellettuale. Mi ricordo che proprio in Italia, ad
esempio, erano gli anni 60, beh lì era categoricamente impossibile che
uno fosse un intellettuale e che non fosse comunista (ride, anzi ride
molto). In realtà io sono un liberale, in quegli anni difendevo cose
come le privatizzazioni, o un’idea più leggera di Stato, o i diritti
dell’impresa privata... erano tutte cose inaccettabili dalla sinistra.
Adesso sento parlare Blair, o i socialisti spagnoli, e ci trovo le
stesse cose. Adesso abbassare le tasse è diventato di sinistra (ride).
Lo ripeto: sono un liberale. E se la gente mi definisce in altro modo,
non mi importa".
In
Italia esce in questi giorni un suo romanzo intitolato La festa del
caprone. Cosa le piace di più di quel libro?
"Ci ho speso tre anni della mia vita, questo mi piace. Tre anni per
ricostruire il periodo della dittatura di Trujillo, nella Repubblica
Dominicana. Era una dittatura emblematica, quella, il ritratto quasi
simbolico di qualsiasi dittatura: tragica e grottesca. Una farsa feroce.
In quel libro ho cercato di raccontarla".
Adesso
sta scrivendo?
"Sì, una storia che amo molto. E’ la storia di Flora Tristan, la
conosce?"
No.
"Lei era un donna straordinaria. Era francese di origine peruviana,
vissuta nell’800. Lei adottò praticamente tutte le utopie del suo
secolo, Owen, Saint-Simon, Fourier... fu una delle prime femministe...
ebbe una vita davvero avventurosa. Racconti la sua storia e finisce che
racconti tutto un secolo, o meglio: i sogni di tutto un secolo".
La
Repubblica, 11 novembre 2000