E'
il curatore de Il Romanzo, la grande opera in cinque volumi che l'Einaudi
ha iniziato a pubblicare qualche mese fa. Tra i suoi libri, Opere Mondo,
bellissimo.
Studia
e insegna all'Università di Stanford, ma la cosa credo sia piuttosto
casuale: non ne dedurrei niente circa la fuga dei cervelli italiani
all'estero. " A dire il vero quella definizione l'ho copiata da un
economista, Hirschmann. Lui la usava per definire l'ethos commerciale
della borghesia tra 600 e 700. Una passione tranquilla. Un
bell'ossimoro".
Come
passione è una faccenda antica o è un'invenzione dei borghesi
ottocenteschi?
"No, si può dire che ci sia da sempre. Già con i primi
romanzi ellenistici, era così. Se no, uno come Giuliano l'Apostata non
si sarebbe preso la briga di tuonare contro i romanzi e chi li
leggeva".
Perché
per secoli ce l'hanno avuta tutti con il romanzo?
"Perché leggerlo era un piacere, e il piacere non era ben visto
dalle istituzioni. E poi perché la letteratura era fatta di menzogne.
Adesso noi ci siamo abituati, usiamo la magica parola fiction: ma un
tempo faceva effetto che qualcuno intrattenesse la gente raccontandole
delle storie inventate, completamente false. Era una cosa
destabilizzante".
Tu
tornavi a casa e trovavi tua moglie imbambolata a leggere di principesse
e cavalieri...
"Più o meno".
Destabilizzante.
"Già".
Secoli
a demonizzare i libri e poi adesso a lamentarsi che nessuno legge.
"Non è che proprio li demonizzassero tutti".
No?
"Per dire: mentre Giuliano l'Apostata tuonava, c'erano addirittura
dei medici che teorizzavano le facoltà terapeutiche della
lettura".
Per
curare cosa?
"L'impotenza".
Ah.
"Hanno trovato i documenti, non è uno scherzo".
Probabilmente
pensavano alla letteratura erotica.
"Probabilmente".
Rifaccio
la domanda: secoli a demonizzare i libri e adesso a lamentarsi che
nessuno legge.
"Nessuno legge?".
Dicono.
"Mah".
Possibile
che la "passione calma" sia passata di moda?
"A me sembra che resista. Voglio dire: non è invecchiata. Quel
che si può dire è che ha molta concorrenza. Si amavano i romanzi per
il piacere di seguire un intreccio, e adesso quel piacere è offerto dal
cinema. Così come la televisione ha preso su di sé il fascino del
racconto a puntate, un genere su cui Balzac o Dickens fecero la loro
fortuna. E poi l'elettronica, lei pensi ai videogames, narrazioni anche
quelle...".
Eppure
il libro resiste.
"Ha resistito benissimo. Il suo successo è coinciso con l'alfabetizzazione
di massa: ancor oggi vive della forza di quella straordinaria avventura
collettiva. Bisognerà vedere quando passerà la prossima
alfabetizzazione, quella che probabilmente insegnerà a tutti a usare i
computer. Allora non lo so cosa succederà. Ma è ancora lontano. Qui
all'Università iniziano ad arrivare solo adesso dei giovani che hanno
sostituito, integralmente, il libro con uno schermo. E non sono poi
tanti".
Ma
leggere è mai stato, davvero, un gesto popolare, realmente diffuso? Per
esempio, nell'Ottocento, quanti erano a leggere romanzi?
"E' difficile dirlo. Le cifre sono traditrici, perché c'erano
quelli che leggevano, ma c'erano anche moltissimi che ascoltavano
leggere. Magari non sapevano nemmeno leggere, ma qualcuno lo faceva per
loro, ad alta voce. Quelli che facevano sigari nelle fabbriche cubane
lavoravano mentre qualcuno gli leggeva Il conte di Montecristo: nelle
statistiche dove sono?".
Va
be', ma un'idea vaga la si avrà, no?
"Diciamo che probabilmente a leggere romanzi era il 30, 40 per
cento della popolazione. Non so se questo significa che era un gesto
popolare. Certo in America, per tutto l'800, i romanzi non raggiunsero
la diffusione che avevano i sermoni. Voglio dire: un successo veramente
popolare, tipo quello della televisione oggi, è un'altra cosa".
A
parte la bella definizione di "passione tranquilla", lei come
lo racconterebbe il piacere di leggere un romanzo?
"Io credo che ci siano fondamentalmente due tipi di piacere. Il
primo nasce dal gusto di seguire una vicenda in cui i personaggi restano
sempre uguali, ma una serie di ostacoli esterni ne rimanda la felicità.
Felicità che poi spesso è sintetizzata nell'unione amorosa. Ecco,
quello è un tipo molto particolare di piacere. Dà una certa sicurezza,
perché i personaggi sono come certezze intoccabili: è il mondo, poi,
che li tratta male, e nemmeno per sempre".
Secondo
tipo?
"Un po' più sottile. E' il piacere di assistere alle
trasformazioni di un personaggio. Trasformazioni magari anche in peggio,
non importa. Il bello è vederlo cambiare, crescere, diventare qualcun
altro. Direi che è un piacere soprattutto ottocentesco: e non ha mai
veramente soppiantato il primo".
Guardando
la lista dei libri di Repubblica, mi fa un esempio di quel piacere lì?
"Dedalus... o Il giovane Törless".
E
esempi del primo tipo?
"Beh, è più difficile... questi sono tutti libri del
Novecento... forse Cent'anni di solitudine, benché in un modo molto
particolare".
E
come lo racconterebbe tutto quel che è successo nel Novecento?
"Diciamo che per un bel pezzo del 900 il piacere della lettura
si è perso per strada. Provo a sintetizzare?".
Provi.
"Come diceva Schönberg: venne in mente che si poteva provare a
creare un ordine, nella scrittura, senza ricorrere ai compromessi che
erano imposti dall'imperfezione dei nostri sensi. Le Avanguardie furono
quello: il tentativo di saltare la nostra imperfezione e ripristinare
l'oggettività del materiale. Naturalmente ne vennero fuori libri quasi
illeggibili, ma non per questo inutili. A tanti anni da quegli
esperimenti, resta la forza di un sogno geniale: fare un salto al di là
dei sensi, delle regole della nostra percezione. Saltare di là e vedere
che cosa accadeva. Una bella avventura".
Esempi?
"La Trilogia di Beckett, Aragon, naturalmente Joyce".
Nella
lista non ci sono.
"No, non ci sono".
Quando
l'ha letta, la lista, cos'ha pensato?
"Beh, innanzitutto che mancavano appunto i libri tosti, per
così dire. Che so, Tre esistenze di Stein, o Il contadino di Parigi di
Aragon, o L'anno nudo di Pil'njak, o anche solo il Rilke del
Malte...".
E
degli italiani in lista che ne dice?
"Fenoglio!".
Nel
senso?
"Nella lista non c'è Fenoglio!".
Non
potevano esserci tutti.
"Lo so, lo dico così, è un gioco".
Allora
giochi fino in fondo: ci sarà un titolo che l'ha fatta arrabbiare.
"L'amante... la Duras, ma suvvia, non scherziamo...".
Leggere
romanzi è un gesto difficile?
"In che senso?".
"No, voglio dire, visto che si fa tanta fatica a far leggere la
gente, dobbiamo dedurre che è un gesto difficile, in qualche modo
elitario?".
"Beh, leggere Beckett, sì, è difficile. Ma Hammett, o Simenon...
No, direi che, anzi, il romanzo da sempre è una delle narrazioni che ha
cercato maggiormente di entrare in rapporto con la gente. Ad esempio si
è spesso sforzato di usare una lingua standard, a portata di più
persone possibili. Certo, magari, nel tempo, le cose sono un po'
cambiate. Ma quella ricerca non si è mai interrotta. Posso fare un
esempio?".
Prego.
"L'influsso della televisione. Ho letto uno studio di un
signore che si chiama Todd Gitlin. Lui ha studiato la lista dei best
sellers del New York Times. Quindi non si parla solo di alta
letteratura: si parla di best sellers. Beh, è andato a misurare la
lunghezza delle frasi: nei libri di 50 anni fa e poi, risalendo, fino ai
libri di oggi. Ha scoperto che c'era un'unica fondamentale, differenza:
quando la televisione è diventata uno strumento di massa, la lunghezza
delle frasi si è dimezzata. Come se i libri si fossero rassegnati ad
allinearsi ai ritmi e al battito cardiaco della televisione".
Domanda
finale.
"Sì".
E'
un po' ingenua.
"Faccia pure".
Un'umanità
che legge romanzi è un'umanità migliore?"
Migliore?".
Sì... in qualche modo migliore.
"Chissà. Non saprei. Dovessi dire, se penso ai secoli passati, a
tutti quelli che non sapevano leggere... la parte di umanità cui non
venne permesso di leggere... beh, io sarei stato dalla loro parte,
dovendo scegliere, avrei preferito stare con loro. Ho risposto?".
La
Repubblica, 15 gennaio 2002