Non
sono lì a decidere qualcosa (potrebbero farlo benissimo in altri modi),
sono lì per farsi vedere. Sono lì a fare i testimonial. Di che? Della
globalizzazione. Sono lì a dire che mezzo pianeta si muove ormai come
un unico Paese. Sono lì a testimoniare che il West c'è, è vero, ed è
già una figata pazzesca. Sono lì perché così li vede il piccolo
industriale veneto che ha i suoi primi timidi commerci con la Russia, e
si convince che non deve aver paura a investire laggiù; sono lì per
dire davanti al pianeta che si piacciono e non si faranno mai la guerra,
e che quindi le multinazionali possono andar tranquille, costruire, far
girare denaro, e aspettarsi milioni di volonterosi consumatori; sono lì
per attestare che sono ricchi, volenterosi e moderni, così ai media
sarà più difficile mantenere la lucidità per capire se lo sono
veramente; sono lì per comunicare ottimismo, fiducia nel futuro, e
unità di intenti: lubrificanti senza i quali il motore della
globalizzazione finirebbe in pezzi. Sono lì per vendere il West: il
sogno del West. E i ragazzi in tuta bianca? Che ci facevano lì, a
Genova? Interrompevano lo spot. Pisciavano sul dépliant. Stracciavano
il grande manifesto. Non interrompevano la globalizzazione: ne
boicottavano la campagna pubblicitaria. Istintivamente, miravano al
cuore della faccenda. Sfilare a Genova, davanti al grande spot, e non in
Indonesia, davanti a una fabbrica di scarpe Nike, non è solo più
pratico: colpisce la globalizzazione là dove è più debole:
nell'istante in cui vende se stessa alla gente. Sfasciare tutti i
McDonald's della terra è tremendamente faticoso: ridicolizzare i
testimonial che ce li vorrebbero far passare come una fortuna, questo ha
l'aria di essere più efficace.
Dunque: ecco una cosa da capire sui noglobal: prima ancora di chiedersi
cosa pensano del mondo globalizzato, quelli si indignano per come ce lo
stanno vendendo, e per la propensione collettiva a bersi l'epopea di
quel misterioso West senza farsi troppe domande. Soprattutto i più
giovani: sono noglobal perché è un modo di provare ad avere un
cervello libero, indipendente, non ipnotizzato dalle grancasse del
potere: hanno voglia di uscire dal gregge, e di sbeffeggiare il pastore.
Poi magari non sanno nemmeno bene cos'è la globalizzazione, o non ci
hanno mai veramente ragionato su. Ma, d'istinto, fanno casino. Che sia
Vietnam o globalizzazione, cambia poi poco: c'è sempre una fetta di
umanità che non ci sta, che si rivolta all'inerzia con cui la
maggioranza adotta gli slogan che qualcuno ha inventato per loro. Sono i
ribelli. Dovremmo condannarli, per la sola ragione che non saprebbero
sostenere un dibattito sulla globalizzazione? Non credo. Piuttosto
dovremmo difenderli dall'estinzione: sono la nostra assicurazione contro
tutti i fascismi. Sono il batticuore che ci tiene svegli, nella notte
del nostro buon senso. Dice: sì, ma sulla globalizzazione hanno torto.
Anche se fosse vero non importa. La prossima volta avranno ragione, e
sarà la salvezza per tutti. Non pioveva il giorno in cui Noè si mise a
costruire l'Arca. C'era un sole che spaccava le pietre. Detto questo, è
doveroso aggiungere: non sono tutti ribelli e basta. Ce n'è un sacco
che sanno di cosa parlano, credono sinceramente che la globalizzazione
sia una pessima idea, e pensano di conoscere bene i guasti che può
provocare, o che addirittura già provoca. Molti e autorevoli
commentatori li bollano come irresponsabili che rischiano di fermare un
processo destinato a produrre ricchezza collettiva, progresso e pace.
Possibile che abbiano ragione? Magari un po' confusamente, e ognuno
seguendo i temi che più gli stanno a cuore, i noglobal portano in
superficie un tratto effettivo, mi verrebbe da dire storico, della
globalizzazione: essa non è solo un ampliamento del campo da gioco, ma
anche un cambiamento delle regole del gioco. Detto più semplicemente
possibile: il mondo globalizzato è un paradiso che si riesce a
costruire solo sospendendo una parte consistente delle regole fin qui
rispettate. Un buon indizio è il trionfo delle cosiddette "zone
franche": pezzi di mondo in cui è possibile produrre e commerciare
con una pressione fiscale minima, con insignificanti controlli
sindacali, con nessun problema di tutela dell'ambiente: cioè quasi
senza regole. Non a caso è lì che le multinazionali (e non solo loro)
sono andate a cercare l'ossigeno necessario per realizzare la
globalizzazione. Oggi, in quelle zone, lavorano 27 milioni di persone.
Un'enormità. Poiché spesso sono lontane dall'Occidente, danno
soprattutto l'allegra impressione di un'economia che si globalizza: ma
è indispensabile ricordarsi che esse stanno lì a suggerire qualcosa di
più scomodo: la globalizzazione accade dove è possibile giocare duro.
Non è un caso, d'altronde, che il progetto della globalizzazione sia
nato proprio quando nell'Occidente si è iniziato a inclinare verso una
deregulation generalizzata che lasciasse la mani libere agli
investitori.
Da Reagan e Thatcher fino a Blair e Schroeder, l'idea che si è
affermata è che se si vuole moltiplicare il denaro bisogna cinicamente
concedergli di circolare in libertà, senza asfissiarlo con troppe
regole. L'idea, per quanto possa sembrare cervellotica, è che il
miglior modo di aiutare i poveri è aiutare i ricchi a moltiplicare il
denaro: qualcosa finirà in tasca anche ai poveri. Vera o falsa che sia,
quell'idea rappresenta il puntello ideologico indispensabile per
qualsiasi globalizzazione. E' il prezzo da pagare per l'ingresso al
Paradiso. Se cerco un'espressione, semplice e brutale, per nominare cosa
tiene insieme un sistema del genere, quasi privo di regole, mi viene in
mente: la legge del più forte. Lo scrivo senza prudenze, perché ne
sono convinto: chi vende oggi la globalizzazione chiede in cambio una
libertà d'azione che riconosce un unico principio regolatore: la legge
del più forte. La globalizzazione ha bisogno di una competizione dura,
radicale e impietosa, ha bisogno di grandi profitti per fare grandi
investimenti, ha bisogno di selezione perché fa un gioco duro e non
può tirarsi dietro soggetti deboli. Puramente e semplicemente: le serve
un terreno di gioco dove l'unica regola sia che il più forte vince. A
costo di semplificare, voglio dire che questo è l'esatto punto in cui i
noglobal scendono dal treno e rinunciano al West. Benché le loro
rivendicazioni siano tante e diverse, potete raccoglierle tutte sotto un
unico cappello: il rifiuto di un mondo regolato dalla legge del più
forte. Di volta in volta mettono nel mirino singole tessere del
paesaggio: lo sfruttamento dei lavoratori nei paesi poveri, il divario
vertiginoso tra ricchi e poveri, l'uso e l'abuso dell'ingegneria
genetica, la massificazione culturale, il disprezzo per i diritti dei
consumatori. A discuterle una per una si diventerebbe vecchi: più utile
sembra capire che sono sintomi diversi di un'unica malattia:
l'orientarsi del pianeta verso una competizione con poche regole, dove
quasi tutto è permesso, dove il profitto è l'unico indicatore di
forza, e dove il più forte vince, tout court. E' quel mondo che i
noglobal, non sempre consapevolmente, tengono nel mirino. Chiedervi se
siete pro o contro la globalizzazione non significa chiedervi se siete
favorevoli ai cibi transgenici, o se vi piace la Nike, o se vi fa paura
la scomparsa dei dialetti, o se le paghe dei cinesi che fanno le vostre
scarpe vi sembrano giuste o schifose. Significa chiedervi se, per
abitare un mondo più ricco, siete disposti ad abitare un mondo
selettivo, competitivo, duro, in cui vige sostanzialmente la legge del
più forte, e dove i vincitori vincono e gli sconfitti perdono. Tanto
per aiutare nella risposta, vorrei ricordare che una buona fetta del
secolo appena passato è stata dedicata a evitare un mondo del genere.
Mai come negli ultimi cent'anni si è cercato esattamente un modo di
convivere e arricchirsi senza essere costretti ad arrendersi alla legge
del più forte. In modo eclatante e compiuto, lo hanno fatto due grandi
progetti: il socialismo reale e l'idea di Stato assistenziale. Adesso
suonano entrambe come bestemmie, ma in origine erano esattamente questo:
cercare un sistema che non bloccasse lo sviluppo, ma evitasse un campo
aperto dove il più forte schiacciava il più debole e amen. Perché
cercavano un simile obbiettivo? Perché erano buoni? No. Perché erano
scioccati. Scioccati dalla vita disumana dell'operaio europeo di fine
ottocento, scioccati dalle famiglie americane sprofondate da un giorno
all'altro nella miseria da una crisi di Borsa incomprensibile. Avevano
capito che un mondo senza rete, senza redistribuzione della ricchezza,
senza tutela per i più deboli, era un mondo che produceva inaudite
sofferenze e, oltretutto, ti si poteva rivoltare contro in un attimo:
una specie di centrifuga che tritava destini e che, se non reggevi il
ritmo necessario a rimanere in centro, ti espelleva velocemente verso
orbite di miseria da cui non ti tiravi più fuori. Non erano buoni.
Erano scioccati. Che ne è stato di quello choc? Dimenticato? Perché
suona progressista predicare la liberalizzazione di tutto e tutti,
quando in sostanza non è che la restaurazione di un mondo come quello
che decenni fa abbiamo cercato di far fuori? Nessuno si accorge che i
reportages dalle fabbriche del terzo mondo raccontano un orrore che è
assurdamente identico a quello che Zola raccontava in Germinale,
parlando di minatori che vivevano centotrenta anni fa? Come fanno le
sinistre europee a schierarsi al fianco della globalizzazione senza
riflettere sui risvolti crudeli che avrebbe per i deboli della terra?
Possibile che basti a convincerle l'obiezione che con cinquanta
centesimi di dollaro al giorno almeno si vive, mentre senza la fabbrica
che fa palloni neanche si campa, laggiù? (Era lo stesso per i minatori
di Zola: lo stesso paradosso logico: e 130 anni non sono bastati a
trovare una soluzione più degna?) Possibile che ci vogliano due aerei
lanciati ad azzerare le Twin Towers per ricordare che la legge del più
forte non è una garanzia per nessuno, nemmeno per il più forte?
Possibile. Quel che accade è che gran parte dell'Occidente si sia
innamorato di un'idea (la globalizzazione) e regolarmente rimuova il
ricordo del prezzo che dovrebbe pagare per averla. Si può anche capire.
La globalizzazione, se reale, produce effettivamente ricchezza,
modernità, e pace: obiettivamente ce n'è abbastanza per dimenticare
quelli che, con squisito eufemismo, alcuni hanno definito, nei giorni di
Genova, "degli inconvenienti". L'inconveniente è che quel
mondo più ricco, più moderno, quasi completamente in pace sarebbe un
campo aperto regolato dalla legge del più forte.
La domanda era: i no global sono pazzi o profeti? Io so che chiariscono
i termini della decisione collettiva a cui siamo chiamati: e che ci
mettono davanti al panorama vero del nostro tempo, così diverso dalla
cartolina truccata che vendono negli empori del potere. Per cui aiutano.
E' chiaro però che la loro attendibilità si gioca in un punto ben
preciso: la capacità di formulare un plausibile modello alternativo,
capace di salvare i tratti positivi della globalizzazione (la
circolazione delle idee, la fine dei nazionalismi, l'uso della pace come
vettore economico) senza obbligare a pagare prezzi altissimi in termini
di sofferenza e di barbarie sociale. Quel modello è un'ingenua utopia?
E' qualcosa di più di una cieca fiducia nella possibilità di avere la
botta piena e la moglie ubriaca? Ammesso che una risposta sia già
possibile, ad essa proverò a dedicare il prossimo e ultimo articolo.
(3. Continua)
La
Repubblica di venerdì 23 ottobre 2001. |