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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 20/10/01
La  Repubblica

Quando è scoppiato il pasticcio di Genova, a luglio, per il G8, io ero tutto da un'altra parte, e come tanti me ne stavo davanti al televisore, a cercare di capire. Tra le tante domande che mi passavano per la testa c'era anche: perché non sono lì? Perché, per l'ennesima volta, c'è gente che sfila, o si picchia, o muore, e io non sono lì? Una volta tanto avevo anche la risposta: non sono lì perché non saprei da che parte stare.

Perché so poco della globalizzazione, forse non so nemmeno esattamente cos'è, e quindi non sono lì. Fino a quel momento, a dir la verità, non mi era mai sembrato troppo grave non avere un'idea precisa sulla globalizzazione. In quel momento, mi sembrò, improvvisamente, non solo grave ma anche abbastanza penoso, e sorprendente, e assurdo. Per cui, come molti altri, da quel giorno mi son messo lì, pazientemente, a cercare di capire. Non è mai troppo tardi.

Adesso mi ritrovo in mente una serie di idee che non sono risposte e nemmeno certezze, ma sono, mi sembra, un modo di cercare un paesaggio appropriato alle domande a cui non so rispondere. Meglio che niente. Dato che di mestiere io scrivo, ho pensato di scrivere quel paesaggio in una mini serie di articoli (tre o quattro, vediamo come va). Questo è il primo. Quando ho visto gli aerei sventrare le Twin Towers ho pensato per un attimo che ormai era inutile studiare qualcosa che era morto per sempre. Ma abbastanza presto mi son reso conto che capire quegli aerei e capire la globalizzazione sono forse due modi di capire la stessa cosa. Per cui ho continuato a scrivere. Fine del preambolo. Inizio del primo articolo.
Ovviamente la prima domanda che viene in mente è: cosa diavolo è la globalizzazione? O meglio: cosa vogliamo dire quando usiamo la parola "globalizzazione"? Malauguratamente, un'unica risposta, fondata e unanime, non c'è. Ce ne sono tante, ma, guarda caso, ognuna rende imprecisa l'altra, e nessuna sembra più vera delle altre. Così mi è tornata in mente quella vecchia battuta: non c'è una definizione della stupidità, però ce ne sono molti esempi. Metodo induttivo, si diceva a scuola. Non c'è una definizione della globalizzazione: però ce ne sono molti esempi. Per cui sono andato a caccia di esempi. Ho usato un metodo molto amatoriale, ma che mi sembrava appropriato. Ho chiesto alla gente di farmi degli esempi. Tutta gente che non saprebbe rispondere alla domanda "Cos'è la globalizzazione?", ma che, a richiesta, sapeva farmene degli esempi. Gente normale, insomma. Tra i tanti esempi sentiti, ne ho scelti sei. Li riporto qui così come li ho sentiti, perché la vaghezza della formulazione o l'ingenuità delle parole scelte sono a loro volta significative, insegnano delle cose e fanno riflettere. Eccoli qua.

 

  1. Vai in qualsiasi posto del mondo e ci trovi la Coca Cola. O le Nike. O le Marlboro.

  2. Possiamo comprare azioni in tutte le Borse del mondo, investendo in aziende di qualsiasi Paese.

  3. I monaci tibetani collegati a Internet.

  4. Il fatto che la mia auto sia costruita a pezzi, un po' in Sud America, un po' in Asia, un po' in Europa e magari un po' negli Stati Uniti.

  5. Mi seggo al computer e posso comprare tutto quel che voglio online.

  6. Il fatto che dappertutto, nel mondo, hanno visto l'ultimo film di Spielberg, o si vestono come Madonna, o tirano a canestro come Michael Jordan.

Voilà. Se vi sembrano esempi scemi, provate a chiederne di migliori in giro, e poi vedrete. Bene o male, rappresentano ciò che la gente crede sia la globalizzazione. Ora: ho imparato che c'è una sola domanda utile da farsi davanti a quegli esempi, ed è una domanda apparentemente ingenua: sono veri? Quegli esempi, sono veri? Raccontano fatti reali? Sono esempi veri di globalizzazione? Non chiedetevi se siete pro o contro. Chiedetevi: sono veri?

Prendiamo la storia di Internet, e l'idea che ci si possa comprare tutto quel che si vuole. E' vero? Un'aspirina, un libro in italiano, un mobile d'antiquariato, un biglietto aereo di una linea straniera, una bottiglia di vino francese, un computer, un pacco di pannolini, una stampante. Seduto davanti al mio computer, ho provato a comprarli. Risultato: niente aspirina e niente automobile. Ma il resto, avendo pazienza e una certa fortuna, lo si può effettivamente comprare. Non starei a formalizzarmi sull'aspirina, e quanto all'auto, non conosco gente così imbecille da aspirare a comprarsela in rete. Quindi potrei concludere che l'esempio è vero. Potrei. Ma adesso sentite qui: i pannolini li ho comprati nel sito delle Coop. E' un bel sito, in cui (se abitate a Milano, Roma o Bologna) potete ordinare tutto quello che trovereste in una Coop, e farvelo mandare a casa. Potete farlo. Ma la domanda è: quanti lo fanno davvero? Risposta delle Coop: i soldi che prendiamo dal commercio online rappresentano lo 0,008 del nostro fatturato. Si potrebbe pensare che le casalinghe, tutto sommato, non sono un esempio probante, e forse è vero. Okay, cambiamo esempio. I libri. In genere, quelli che leggono, un computer dovrebbero averlo, no? Bene. Ogni cento libri venduti in Italia, quanti sono comprati on line? Mezzo. Pochino, vero? Non è finita: sapete quanti libri si vendono con il vecchio, obsoleto, ridicolo sistema delle vendite per corrispondenza? Dieci su cento. Che vuol dire: venti volte quelli che si vendono via Internet.
Ora la domanda è: perché quei dieci che comprano i libri per posta non significano niente, e quel mezzo lettore che li compra online sì? Perchè i 199 che vanno in libreria significano meno, per la gente, dell'unico, eccentrico, che preferisce attaccarsi al computer? Perché in lui vediamo il nostro futuro e perfino il nostro presente e negli altri 199 (tra cui con ogni probabilità ci siamo anche noi) non vediamo niente?
La Borsa. E' vero che possiamo comprare su tutte le Borse del mondo? Sì, è vero. Si può dire di più: non è sempre stato così, e quindi è un esempio reale di qualcosa che è cambiato nell'ultimo decennio e che ha modificato drasticamente le abitudini degli investitori. Detto questo, mi viene in mente una vicenda di poco tempo fa. I francesi cercano di comprarsi la Montedison. Interviene il governo italiano e blocca l'operazione. Risultato: i francesi sono costretti a farsi comprare la Montedison da Agnelli. Come, in passato, e per restare a esempi nostrani, la Pirelli non aveva potuto comprarsi la Continental (pneumatici tedeschi), e De Benedetti non aveva potuto comprarsi la SGB (mezzo Belgio). Ci capisco poco di queste storie, ma una cosa la intuisco: se la liberalizzazione delle Borse è un esempio di globalizzazione, descrive una globalizzazione che si ferma, però, davanti ai centri nervosi del pianeta, e in realtà non li intacca. Gran movimento a centrocampo ma pochi goal. Tutto sommato, per definire un fenomeno del genere, basterebbe la meno impegnativa e non nuova parola internazionalizzazione: cioè qualcosa che non genera l'immagine di un pianeta convertito in unico Paese, ma più modestamente quella di un pianeta composto di Paesi in grado di scambiare denaro più e meglio che in passato. Lo spettro del Global sembra ancora piuttosto lontano. Metto da parte l'indizio, e vado avanti.
La Coca Cola. In genere l'impressione che venda dappertutto è generata dal fatto che in quei quattro o cinque viaggi fatti in Paesi strani, si è sempre visto, nei posti più assurdi, l'inconfondibile marchio rosso con la scritta bianca. Forse bisognerebbe controllare. Interrogata, la Coca Cola risponde che non è solo un'impressione: loro vendono i loro prodotti (non solo la Coca) in circa 200 Paesi. Dato che a me risulta che di Paesi, nel pianeta, ce ne siano 189, la cosa suona piuttosto strana. Ma comunque: qualsiasi sia il modo di contarli, 200 Paesi sono tanti, e si possono anche tradurre nell'espressione "dappertutto". Più interessante mi sembra andare a guardare dentro quei dati. Dove si può scoprire, ad esempio, il reale potere di penetrazione della Coca Cola nelle abitudini di un Paese. Un americano beve, in media, 380 bottigliette di bevande della Coca Cola ogni anno (tra parentesi: come fa?). Un italiano, 102. Un russo, 26. Un indiano, 4. E' l'indiano, che mi interessa. Quattro volte all'anno è un numero ridicolo. Se penso a cosa mangio io, solo quattro volte all'anno, devo pensarci un po', e alla fine mi viene, ad esempio, il sushi. Che incidenza ha il sushi sul mio stile di vita? Zero. Che influenza ha la Coca Cola sulla cultura indiana? Minore di quella che istintivamente pensiamo. Dire che la Coca è dappertutto, è vero: dire che conta dappertutto, è un'estensione discutibile. E' una deduzione che ci fa comodo ma che deduce il falso. Allora la domanda da farsi diventa: come mai le quattro bottigliette di Coca che beve l'indiano significano qualcosa, e le centinaia di bottigliette di Coca che non beve non significano niente? Oppure: come mai i litri di Coca Cola che già vent'anni fa si scolava un brasiliano si chiamavano commercio estero, e le quattro bottigliette dell'indiano si chiamano globalizzazione?
Poi c'è la storia dei monaci tibetani. L'immagine dei monaci che, dal loro monastero in Tibet, navigano allegramente in rete nasce da una campagna pubblicitaria della IBM di qualche anno fa ("Soluzioni per un piccolo pianeta"). Come immagine pubblicitaria è geniale. In modo sintetico, suggerisce quella contrazione di spazio e di tempo che sarebbe esattamente il marchio della globalizzazione: i monaci sono qualcosa di antico e di geograficamente molto lontano eppure navigano in rete, cioè convergono felicemente nel cuore del mondo, nel qui e adesso. Se lo fanno loro, cosa aspettate a farlo voi? Sintetico e geniale. Talmente geniale, e facile da usare, che la gente, istintivamente, ne ha fatto un'icona totemica, e si è messa a usarla. Funziona così bene che i più hanno smesso anche di chiedersi se è vera, reputando la cosa di scarsa importanza. I monaci tibetani navigano davvero in rete? Ecco una domanda diventata inutile. Utile, però, è la risposta: no. I monaci tibetani non navigano in rete. Interrogato al proposito, il portavoce dell'Office of Tibet a Londra ha energicamente escluso che lo possano fare. Ha anche aggiunto un'osservazione che chiarisce la situazione: "se circola una voce del genere è probabile che sia propaganda cinese".
Dato che ormai si sarà capito cosa voglio dire quando dico che bisogna chiedersi se quegli esempi sono veri, sui due esempi che restano vado via veloce. E' vero che molte aziende ormai producono all'estero, scegliendo accuratamente dove costa meno farlo. Non fanno eccezione le aziende automobilistiche. Se però vogliamo, ancora una volta, attenerci ai fatti, avrei una notiziola da dare: se avete un'auto del Gruppo Fiat, e non è una Palio o una Siena, la vostra macchina è fatta sostanzialmente in Italia. Qualcosa vorrà dire. Quanto ai film di Spielberg, a Madonna e a Michael Jordan, c'è un'espressione ben precisa per definire cosa sono: colonizzazione culturale. La globalizzazione implicherebbe un flusso circolare di denaro e prodotti. Ma, se prendiamo ad esempio il cinema, le cose stanno così: il mondo vede i film americani, gli americani non vedono i film del mondo. Ho guardato le classifiche degli incassi dell'ultimo weekend: ho trovato un solo Paese, nel mondo, che avesse tra i primi dieci incassi almeno tre film non americani (l'India). Ho trovato un solo Paese che avesse tra i primi dieci incassi un film straniero non americano. In compenso: nella classifica dei 140 film più visti in USA nell'ultimo anno, quanti sono i film non americani? Nessuno. Perché chiamare tutto questo globalizzazione? Perché non chiamarlo col suo nome: colonialismo?
Me la vedo già la reazione seccata: adesso arriva questo a spiegarci che la globalizzazione non esiste. Per cui mi fermo, e chiarisco. Non sto cercando di dimostrare che la globalizzazione non esiste: non lo so, io, se esiste. Ma se cerco di scoprirlo, il primo passo è rendere visibile e poi interpretare questo strano assurdo: la maggior parte di noi tende a leggere come segnali di globalizzazione fatti che non sempre sono reali, e quando lo sono potrebbero anche significare proprio l'opposto di quello che gli vogliamo far dire. Un'indagine sull'e-commerce offrirebbe dei dati che facilmente potrebbero smontare l'idea di una globalizzazione in atto: ma la gente preferisce isolare quell'uno su duecento che compra un libro in Internet e dargli un significato che agli altri 199 non riconosce. La notizia è lui, non gli altri. Perché? Dove nasce questa strana forma di strabismo che ci porta a vedere solo i sintomi della malattia che vogliamo trovare, e non gli altri? Come è spiegabile questa collettiva voglia di usare la categoria di globalizzazione a prescindere da ciò che accade veramente nel pianeta? E' accaduto tutto così, naturalmente, o c'è qualcuno che ha lavorato alla grande per procurare al pianeta (o meglio: all'Occidente) questo singolare strabismo? A chi conviene che la gente guardi il mondo in quella buffa maniera? Domande che non sono prive di risposte. Come si vedrà nel prossimo articolo.
(1.Continua) 
(Ha collaborato Riccardo Staglianò)

La Repubblica di Sabato 20 Ottobre 2001, sezione Commenti.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001