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Alessandro Baricco |
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Immaginare una globalizzazione che non ferisca a morte il pianeta: che sia umana, prodotta "dal basso", civile e morale. Si può? Io, sulla faccenda, non ho certezze da offrire. Posso giusto avanzare un sospetto: la globalizzazione buona è fatta con gli stessi mattoni della globalizzazione cattiva. Usati diversamente, ma i mattoni sono quelli. Ciò che i noglobal tendono a distruggere, sono spesso gli stessi materiali che ci servirebbero per costruire una globalizzazione "buona". |
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Un
moralismo un po' ottuso e una falsa intelligenza vittima dei luoghi
comuni spingono troppo spesso a demonizzare ciò che invece andrebbe
reinterpretato, e usato come materiale per sogni migliori. Provo a
spiegarmi con due esempi. Due spettri della globalizzazione: lo
strapotere dei brand, dei grandi loghi, e la massificazione culturale.
Due realtà su cui, non a torto, si è concentrata la denuncia dei
noglobal. Vediamo. I brand. Nella polemica contro il loro potere si
fondono due critiche distinte: la prima è più circostanziata: le
grandi marche fanno affari sfruttando il lavoro dei Paesi poveri. Come
sempre, è meglio partire da una domanda elementare: è vero? Devo
sintetizzare, e così abbozzo una risposta: sì, è vero, anche se una
certa propensione a non farsi troppe domande e a concludere
sbrigativamente le indagini è rilevabile in tutti i tentativi di dare
una descrizione dei fatti. La faccenda è probabilmente più complessa
di quanto piaccia pensare, ma in definitiva non è errato affermare che
molte multinazionali producono enormi profitti anche in virtù del fatto
che le loro merci sono prodotte, nei Paesi più poveri, a costi
bassissimi, in certo modo illogici, e probabilmente immorali. Seconda
critica: i grandi brand si sono impossessati dell'immaginario
collettivo, lo gestiscono a loro piacimento e trasformano gli individui
in consumatori lobotomizzati. Dato che nessuno gli sbarra la strada, la
loro presenza è ormai talmente invasiva da individuarli come il vero
Potere, assai più efficace, capillare e onnipresente dei poteri
politici, o religiosi, o civili. Com'è ovvio, qui l'obbiezione suona
più irrazionale ed evanescente. Ma, va detto, non è campata per aria.
Una bella ricostruzione di tutta la faccenda la potete trovare
effettivamente nel fortunato libro di Naomi Klein, No logo: leggete le
prime 200 pagine e vi farete un'idea. Abbastanza lucidamente vi si
raccontano i fatti, puri e semplici. Non tutto sarà vero o ben
compreso, ma se solo metà di quello che c'è lì dentro fosse reale, ce
ne sarebbe già abbastanza per crederci. Ora: di fronte a fatti del
genere l'istinto, ovviamente, è quello di puntare i piedi e resistere.
Muro contro muro, e poi si vedrà. Ma quella che vorrei suggerire è
un'altra possibilità: prendere quei fatti e guardarli da vicino, e
provare a pensarli da capo. Ad esempio: si potrebbe prendere sul serio
la circostanza, effettivamente curiosa, che, nonostante la diffusa
avversione per le multinazionali, la gran parte di noi se ne serve senza
nessun problema. Se non siete dei militanti noglobal, è probabile che
abbiate delle scarpe Nike o Adidas, che fumiate Marlboro o Philip Morris,
che portiate i vostri bambini a vedere i film della Walt Disney, che
mangiate da McDonald's e che in questo momento abbiate addosso delle
mutande Calvin Klein. Cerco di dirlo in modo più esatto: è probabile
che alla gran parte di noi il mondo allestito sulla rete delle grandi
marche non sembri affatto un luogo inumano, ma al contrario, un mondo
vivo, in qualche modo ricco, e comunque interessante da abitare. E'
abbastanza normale che ci appaia come un mondo sostanzialmente libero,
una specie di giostra su cui saliamo quando vogliamo, scendiamo quando
vogliamo, saliamo pensando Che boiata, scendiamo pensando Torno domani.
Dobbiamo concludere che siamo ormai così lobotomizzati da non capire
più niente? Sarebbe comodo. Ma temo che la verità sia diversa. La
verità è che siamo solo blandamente lobotomizzati. Siamo lucidi,
quando partecipiamo alla grande festa, lo facciamo con il cervello
innestato, con una parte del nostro cervello che non possiamo sminuire,
ma se mai dobbiamo capire. La nostra intelligenza si muove così perché
conosce quel terreno. E quando l'istinto al moralismo non la ferma,
smette di barare con se stessa e si attiene ai fatti. I fatti sono che
quando comprate una scarpa della Nike pagate centomila lire per pagare
il nome e cinquantamila per comprare la scarpa. Siete scemi? No. State
comprando un mondo, che ve ne frega di quanto valga, in cuoio, gomma e
lavoro, quella scarpa? Comprate un mondo. Gente libera che corre, quasi
sempre bella, tendenzialmente elastica come Michael Jordan, comunque
molto moderna. Voi, in quel mondo. Con 150 mila lire. Se vi sembra un
gesto infantile o idiota, allora pensate a questo. Andate a concerto.
Beethoven. Musica di Beethoven. Avete pagato il biglietto. Cosa avete
comprato? Un po' di musica? No, un mondo. Un brand. Beethoven è un
brand, costruito nel tempo sulla figura di un genio sordo e ribelle,
alimentato da due generazioni di musicisti romantici che ne hanno creato
il mito. Da lui discende, direttamente, un brand ancora più potente: la
musica classica. Un mondo. Voi non avete comprato un po' di musica: nel
prezzo c'è anche la sala da concerto, la gente che vi sta attorno,
quella sensazione di essere intelligenti e nobili, l'iscrizione a un
club piuttosto riservato e tendenzialmente selettivo. Avete affittato un
mondo. Per abitarlo. Ve l'hanno costruito con infinita abilità, e voi
lo comprate. L'hanno costruito perché erano buoni e intelligenti? Forse
lo erano, ma certo l'hanno costruito per la stessa ragione che ha spinto
la Nike a costruire il suo: soldi. Che mi risulti Beethoven scriveva per
soldi, e da lui fino all'odierno discografico, e al pianista che sta
suonando per voi, quel che avete comprato è stato costruito da gente
che voleva tante cose, ma tra le tante una: i soldi. Lo so che fa
effetto dirlo, ma quello che tanto ci fa senso, quando si tratta di
scarpe o di hamburger, è un'esperienza che facciamo, senza nessuna
resistenza, quando in ballo ci sono cose più nobili. Beethoven è un
brand. Lo sono gli impressionisti francesi. Lo è Kafka. Lo è
Shakespeare. Lo è anche Umberto Eco. E perfino Repubblica. Sono mondi.
Che significano assai più di quel che sono. Hanno le loro regole, e noi
le accettiamo. Per dire: ci convinciamo che le patatine di McDonald's
sono buone con la stessa illogica arrendevolezza con cui accettiamo che
Beethoven non abbia mai scritto un pezzo brutto e inutile, che tutto
Shakespeare sia geniale, e che Repubblica scriva sempre la verità. Fa
parte del gioco. Ed è un gioco di cui noi abbiamo bisogno. Noi siamo
portati a preferire tutto ciò che ci si offre con la forza organica di
un mondo, non solo con la pura presenza di un oggetto, per quanto bello.
Noi siamo grati a chi riesce ad allestire mondi. Sono assicurazioni
contro il caos, sono organizzazioni salvifiche del reale. Non credo ci
sia bisogno di annotare come il mondo allestito da Kafka sia più ricco,
complesso e intelligente di quello studiato dai McDonald's. Lo sappiamo.
Ma questo non ci deve impedire di capire che il gioco è lo stesso, che
il tipo di esperienza è la stessa, che il mondo di Kafka non è più
vero di quello di McDonald's, che la visita a una mostra di
impressionisti francesi muove il nostro cervello esattamente come un
giro a Niketown, e che, insomma, noi quella esperienza la conosciamo, ne
facciamo largo uso, la usiamo per tramandare cose degnissime, e
finalmente non la temiamo, non crediamo sia il demonio, se c'è il
demonio, è altrove. Dice: sì ma Beethoven non sfruttava indegnamente
gli indonesiani, per fare le sue scarpe. Al che si potrebbe obbiettare,
a voler essere cinicamente polemici, che gran parte della musica
classica nacque perché pagata da un mondo aristocratico che quanto a
sfruttamento non scherzava affatto. Ma il punto, in realtà, è un
altro. Se la Nike sfrutta i lavoratori va fermata e basta. Ma far
riverberare la nostra condanna, tout court, sul concetto di brand,
demonizzando il tipo di esperienza che suggerisce, è controproducente:
rende inservibile una categoria, quella di brand, che invece è
storicamente insita nella nostra cultura, e che probabilmente è
inscindibile da qualsiasi idea di globalizzazione, comprese quelle più
umane e positive. Come costruire qualcosa se buttiamo via gli strumenti
per farlo? Posso fare un altro esempio scomodo? La massificazione
culturale. E' vero che la globalizzazione porta a un mondo
monoculturale, coagulato sull'asse di una medietà tendente al basso?
Probabilmente è vero. Se dovete fare un film che, assurdamente, deve
piacere a tutto il pianeta (è esattamente quello che fanno a Hollywood)
dovete procedere per stereotipi comprensibili a tutti, dovete essere
chiari fino all'idiozia, dovete parlare un linguaggio universale, dovete
sintetizzare e semplificare fino all'assurdo. Centinaia di film del
genere contribuiranno a creare un preciso gusto nel pubblico,
allineandolo sull'asse di una facile medietà: e con questo è avviato
un circolo vizioso che, effettivamente, tende a riassumere le infinite
differenze del pianeta in una sintetica ammucchiata al centro. Detto
questo, adesso provate a pensare. Omero. Iliade e Odissea. Grandi
enciclopedie in versi, in cui trovate l'indice completo del sapere dei
Greci, dalle ricette di cucina alle regole della guerra. Capolavori
altissimi, si dice. Lo specchio esatto di una grande civiltà. Giusto.
Ma a che prezzo? Pensateci. Se dovete raccontare l'Uomo Greco, è chiaro
che dovete innanzitutto produrlo, prendendo l'infinita varietà e
ricchezza degli uomini greci e riassumendola, semplificandola,
sintetizzandola in un unico modello tipico. Quel che ottenete alla fine
è qualcosa di molto efficace ma irrimediabilmente riduttivo. E tutti
quei greci a cui Achille sembrava un pazzo sanguinario, e la geografia
degli dei una roba obsoleta, e il culto della guerra un'idiozia? Dove
son finiti? Non esistevano? Eccome, se esistevano. Possibile che ci
fosse un solo modo di costruire uno scudo, o di vestirsi, o di intendere
la vita? No. La Grecia era piena di greci che in Omero non ci sono, come
il mondo è pieno di gente che nei film di Hollywood non è prevista.
Omero è la cultura dei vincenti, dei più, di quelli che avevano avuto
successo. Rassegnatevi: Omero era gli americani. Questo non ci impedisce
di considerare, a ragione, l'Iliade un capolavoro, e l'Odissea uno dei
pilastri dell'immaginario occidentale. Non è strano? Accusare la
globalizzazione di contrarre la libertà collettiva, riducendo la
complessità del mondo a pochi modelli riassuntivi, è un modo di
partire da premesse vere per arrivare a conclusioni false. E' vero che
la globalizzazione tende a muoversi in quel modo, ma non è vero che la
cosa, in se per sé, sia da demonizzare. La storia dell'occidente è, in
definitiva, la storia di analoghi compressioni della libertà
collettiva: una delle più deleterie globalizzazioni, quella che
costrinse l'arte dell'intero occidente a essere solo arte sacra,
tagliando via di netto la vita quotidiana dai suoi soggetti, ha prodotto
alla fine centinaia di capolavori, e secoli di grandezza artistica: il
fatto (di per sé assurdo) che potessero solo dipingere madonne, confuta
la bellezza di quelle madonne? Neanche per sogno. E la vertiginosa
raffinatezza della filosofia scolastica, è in qualche modo
ridimensionata dal fatto, di per sé assurdo, che quella intelligenza
era confinata nella galera del pensiero teologico? Non credo. E la
musica classica? Il linguaggio armonico di Mozart, confrontato a quello
di un polifonista fiammingo del 500, suona come una semplificazione da
asilo infantile: ma senza quella assurda contrazione delle possibilità
espressive, non sarebbe mai nata quella che noi chiamiamo musica
classica. I brand, la massificazione culturale. Volevo suggerire come
capire i termini del problema non sia così semplice come sembra. La
prima risposta non è quella che conta. L'opposizione istintiva, pura e
semplice, non è quello che ci serve. Quei temi, come mille altri, sono
un campo aperto in cui un pensiero capace di resistere ai luoghi comuni
saprebbe allestire un futuro vivibile, sottraendone la gestione ai
manager di turno. Posso sbagliarmi, ma l'idea che una globalizzazione
umana sia possibile, passa attraverso quella rivoluzione culturale:
implica che il mondo accetti di pensare il futuro, e la smetta di
difendere un passato che non è mai esistito. Non credo che se c'è una
globalizzazione "buona" la possano realizzare cervelli che
distruggono i McDonald's o vedono solo film francesi. Ho in mente
qualcosa di diverso. Ho in mente gente convinta che la globalizzazione,
così come ce la stanno vendendo, non è un sogno sbagliato: è un sogno
piccolo. Arrestato. Bloccato. Ostaggio dell'immaginario di manager e
banchieri. Sognare quel sogno al posto loro: questo, e nulla meno di
questo, sarebbe il nostro compito. La Repubblica di martedì 30 ottobre 2001, sezione Cultura. |
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_____________________________________ Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001 |