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Alessandro Baricco
Data di pubblicazione: 30/10/01
La  Repubblica

Immaginare una globalizzazione che non ferisca a morte il pianeta: che sia umana, prodotta "dal basso", civile e morale. Si può? Io, sulla faccenda, non ho certezze da offrire. Posso giusto avanzare un sospetto: la globalizzazione buona è fatta con gli stessi mattoni della globalizzazione cattiva. Usati diversamente, ma i mattoni sono quelli. Ciò che i noglobal tendono a distruggere, sono spesso gli stessi materiali che ci servirebbero per costruire una globalizzazione "buona".

Un moralismo un po' ottuso e una falsa intelligenza vittima dei luoghi comuni spingono troppo spesso a demonizzare ciò che invece andrebbe reinterpretato, e usato come materiale per sogni migliori. Provo a spiegarmi con due esempi. Due spettri della globalizzazione: lo strapotere dei brand, dei grandi loghi, e la massificazione culturale. Due realtà su cui, non a torto, si è concentrata la denuncia dei noglobal. Vediamo. I brand. Nella polemica contro il loro potere si fondono due critiche distinte: la prima è più circostanziata: le grandi marche fanno affari sfruttando il lavoro dei Paesi poveri. Come sempre, è meglio partire da una domanda elementare: è vero? Devo sintetizzare, e così abbozzo una risposta: sì, è vero, anche se una certa propensione a non farsi troppe domande e a concludere sbrigativamente le indagini è rilevabile in tutti i tentativi di dare una descrizione dei fatti. La faccenda è probabilmente più complessa di quanto piaccia pensare, ma in definitiva non è errato affermare che molte multinazionali producono enormi profitti anche in virtù del fatto che le loro merci sono prodotte, nei Paesi più poveri, a costi bassissimi, in certo modo illogici, e probabilmente immorali. Seconda critica: i grandi brand si sono impossessati dell'immaginario collettivo, lo gestiscono a loro piacimento e trasformano gli individui in consumatori lobotomizzati. Dato che nessuno gli sbarra la strada, la loro presenza è ormai talmente invasiva da individuarli come il vero Potere, assai più efficace, capillare e onnipresente dei poteri politici, o religiosi, o civili. Com'è ovvio, qui l'obbiezione suona più irrazionale ed evanescente. Ma, va detto, non è campata per aria. Una bella ricostruzione di tutta la faccenda la potete trovare effettivamente nel fortunato libro di Naomi Klein, No logo: leggete le prime 200 pagine e vi farete un'idea. Abbastanza lucidamente vi si raccontano i fatti, puri e semplici. Non tutto sarà vero o ben compreso, ma se solo metà di quello che c'è lì dentro fosse reale, ce ne sarebbe già abbastanza per crederci. Ora: di fronte a fatti del genere l'istinto, ovviamente, è quello di puntare i piedi e resistere. Muro contro muro, e poi si vedrà. Ma quella che vorrei suggerire è un'altra possibilità: prendere quei fatti e guardarli da vicino, e provare a pensarli da capo. Ad esempio: si potrebbe prendere sul serio la circostanza, effettivamente curiosa, che, nonostante la diffusa avversione per le multinazionali, la gran parte di noi se ne serve senza nessun problema. Se non siete dei militanti noglobal, è probabile che abbiate delle scarpe Nike o Adidas, che fumiate Marlboro o Philip Morris, che portiate i vostri bambini a vedere i film della Walt Disney, che mangiate da McDonald's e che in questo momento abbiate addosso delle mutande Calvin Klein. Cerco di dirlo in modo più esatto: è probabile che alla gran parte di noi il mondo allestito sulla rete delle grandi marche non sembri affatto un luogo inumano, ma al contrario, un mondo vivo, in qualche modo ricco, e comunque interessante da abitare. E' abbastanza normale che ci appaia come un mondo sostanzialmente libero, una specie di giostra su cui saliamo quando vogliamo, scendiamo quando vogliamo, saliamo pensando Che boiata, scendiamo pensando Torno domani. Dobbiamo concludere che siamo ormai così lobotomizzati da non capire più niente? Sarebbe comodo. Ma temo che la verità sia diversa. La verità è che siamo solo blandamente lobotomizzati. Siamo lucidi, quando partecipiamo alla grande festa, lo facciamo con il cervello innestato, con una parte del nostro cervello che non possiamo sminuire, ma se mai dobbiamo capire. La nostra intelligenza si muove così perché conosce quel terreno. E quando l'istinto al moralismo non la ferma, smette di barare con se stessa e si attiene ai fatti. I fatti sono che quando comprate una scarpa della Nike pagate centomila lire per pagare il nome e cinquantamila per comprare la scarpa. Siete scemi? No. State comprando un mondo, che ve ne frega di quanto valga, in cuoio, gomma e lavoro, quella scarpa? Comprate un mondo. Gente libera che corre, quasi sempre bella, tendenzialmente elastica come Michael Jordan, comunque molto moderna. Voi, in quel mondo. Con 150 mila lire. Se vi sembra un gesto infantile o idiota, allora pensate a questo. Andate a concerto. Beethoven. Musica di Beethoven. Avete pagato il biglietto. Cosa avete comprato? Un po' di musica? No, un mondo. Un brand. Beethoven è un brand, costruito nel tempo sulla figura di un genio sordo e ribelle, alimentato da due generazioni di musicisti romantici che ne hanno creato il mito. Da lui discende, direttamente, un brand ancora più potente: la musica classica. Un mondo. Voi non avete comprato un po' di musica: nel prezzo c'è anche la sala da concerto, la gente che vi sta attorno, quella sensazione di essere intelligenti e nobili, l'iscrizione a un club piuttosto riservato e tendenzialmente selettivo. Avete affittato un mondo. Per abitarlo. Ve l'hanno costruito con infinita abilità, e voi lo comprate. L'hanno costruito perché erano buoni e intelligenti? Forse lo erano, ma certo l'hanno costruito per la stessa ragione che ha spinto la Nike a costruire il suo: soldi. Che mi risulti Beethoven scriveva per soldi, e da lui fino all'odierno discografico, e al pianista che sta suonando per voi, quel che avete comprato è stato costruito da gente che voleva tante cose, ma tra le tante una: i soldi. Lo so che fa effetto dirlo, ma quello che tanto ci fa senso, quando si tratta di scarpe o di hamburger, è un'esperienza che facciamo, senza nessuna resistenza, quando in ballo ci sono cose più nobili. Beethoven è un brand. Lo sono gli impressionisti francesi. Lo è Kafka. Lo è Shakespeare. Lo è anche Umberto Eco. E perfino Repubblica. Sono mondi. Che significano assai più di quel che sono. Hanno le loro regole, e noi le accettiamo. Per dire: ci convinciamo che le patatine di McDonald's sono buone con la stessa illogica arrendevolezza con cui accettiamo che Beethoven non abbia mai scritto un pezzo brutto e inutile, che tutto Shakespeare sia geniale, e che Repubblica scriva sempre la verità. Fa parte del gioco. Ed è un gioco di cui noi abbiamo bisogno. Noi siamo portati a preferire tutto ciò che ci si offre con la forza organica di un mondo, non solo con la pura presenza di un oggetto, per quanto bello. Noi siamo grati a chi riesce ad allestire mondi. Sono assicurazioni contro il caos, sono organizzazioni salvifiche del reale. Non credo ci sia bisogno di annotare come il mondo allestito da Kafka sia più ricco, complesso e intelligente di quello studiato dai McDonald's. Lo sappiamo. Ma questo non ci deve impedire di capire che il gioco è lo stesso, che il tipo di esperienza è la stessa, che il mondo di Kafka non è più vero di quello di McDonald's, che la visita a una mostra di impressionisti francesi muove il nostro cervello esattamente come un giro a Niketown, e che, insomma, noi quella esperienza la conosciamo, ne facciamo largo uso, la usiamo per tramandare cose degnissime, e finalmente non la temiamo, non crediamo sia il demonio, se c'è il demonio, è altrove. Dice: sì ma Beethoven non sfruttava indegnamente gli indonesiani, per fare le sue scarpe. Al che si potrebbe obbiettare, a voler essere cinicamente polemici, che gran parte della musica classica nacque perché pagata da un mondo aristocratico che quanto a sfruttamento non scherzava affatto. Ma il punto, in realtà, è un altro. Se la Nike sfrutta i lavoratori va fermata e basta. Ma far riverberare la nostra condanna, tout court, sul concetto di brand, demonizzando il tipo di esperienza che suggerisce, è controproducente: rende inservibile una categoria, quella di brand, che invece è storicamente insita nella nostra cultura, e che probabilmente è inscindibile da qualsiasi idea di globalizzazione, comprese quelle più umane e positive. Come costruire qualcosa se buttiamo via gli strumenti per farlo? Posso fare un altro esempio scomodo? La massificazione culturale. E' vero che la globalizzazione porta a un mondo monoculturale, coagulato sull'asse di una medietà tendente al basso? Probabilmente è vero. Se dovete fare un film che, assurdamente, deve piacere a tutto il pianeta (è esattamente quello che fanno a Hollywood) dovete procedere per stereotipi comprensibili a tutti, dovete essere chiari fino all'idiozia, dovete parlare un linguaggio universale, dovete sintetizzare e semplificare fino all'assurdo. Centinaia di film del genere contribuiranno a creare un preciso gusto nel pubblico, allineandolo sull'asse di una facile medietà: e con questo è avviato un circolo vizioso che, effettivamente, tende a riassumere le infinite differenze del pianeta in una sintetica ammucchiata al centro. Detto questo, adesso provate a pensare. Omero. Iliade e Odissea. Grandi enciclopedie in versi, in cui trovate l'indice completo del sapere dei Greci, dalle ricette di cucina alle regole della guerra. Capolavori altissimi, si dice. Lo specchio esatto di una grande civiltà. Giusto. Ma a che prezzo? Pensateci. Se dovete raccontare l'Uomo Greco, è chiaro che dovete innanzitutto produrlo, prendendo l'infinita varietà e ricchezza degli uomini greci e riassumendola, semplificandola, sintetizzandola in un unico modello tipico. Quel che ottenete alla fine è qualcosa di molto efficace ma irrimediabilmente riduttivo. E tutti quei greci a cui Achille sembrava un pazzo sanguinario, e la geografia degli dei una roba obsoleta, e il culto della guerra un'idiozia? Dove son finiti? Non esistevano? Eccome, se esistevano. Possibile che ci fosse un solo modo di costruire uno scudo, o di vestirsi, o di intendere la vita? No. La Grecia era piena di greci che in Omero non ci sono, come il mondo è pieno di gente che nei film di Hollywood non è prevista. Omero è la cultura dei vincenti, dei più, di quelli che avevano avuto successo. Rassegnatevi: Omero era gli americani. Questo non ci impedisce di considerare, a ragione, l'Iliade un capolavoro, e l'Odissea uno dei pilastri dell'immaginario occidentale. Non è strano? Accusare la globalizzazione di contrarre la libertà collettiva, riducendo la complessità del mondo a pochi modelli riassuntivi, è un modo di partire da premesse vere per arrivare a conclusioni false. E' vero che la globalizzazione tende a muoversi in quel modo, ma non è vero che la cosa, in se per sé, sia da demonizzare. La storia dell'occidente è, in definitiva, la storia di analoghi compressioni della libertà collettiva: una delle più deleterie globalizzazioni, quella che costrinse l'arte dell'intero occidente a essere solo arte sacra, tagliando via di netto la vita quotidiana dai suoi soggetti, ha prodotto alla fine centinaia di capolavori, e secoli di grandezza artistica: il fatto (di per sé assurdo) che potessero solo dipingere madonne, confuta la bellezza di quelle madonne? Neanche per sogno. E la vertiginosa raffinatezza della filosofia scolastica, è in qualche modo ridimensionata dal fatto, di per sé assurdo, che quella intelligenza era confinata nella galera del pensiero teologico? Non credo. E la musica classica? Il linguaggio armonico di Mozart, confrontato a quello di un polifonista fiammingo del 500, suona come una semplificazione da asilo infantile: ma senza quella assurda contrazione delle possibilità espressive, non sarebbe mai nata quella che noi chiamiamo musica classica. I brand, la massificazione culturale. Volevo suggerire come capire i termini del problema non sia così semplice come sembra. La prima risposta non è quella che conta. L'opposizione istintiva, pura e semplice, non è quello che ci serve. Quei temi, come mille altri, sono un campo aperto in cui un pensiero capace di resistere ai luoghi comuni saprebbe allestire un futuro vivibile, sottraendone la gestione ai manager di turno. Posso sbagliarmi, ma l'idea che una globalizzazione umana sia possibile, passa attraverso quella rivoluzione culturale: implica che il mondo accetti di pensare il futuro, e la smetta di difendere un passato che non è mai esistito. Non credo che se c'è una globalizzazione "buona" la possano realizzare cervelli che distruggono i McDonald's o vedono solo film francesi. Ho in mente qualcosa di diverso. Ho in mente gente convinta che la globalizzazione, così come ce la stanno vendendo, non è un sogno sbagliato: è un sogno piccolo. Arrestato. Bloccato. Ostaggio dell'immaginario di manager e banchieri. Sognare quel sogno al posto loro: questo, e nulla meno di questo, sarebbe il nostro compito. 
(4. Fine. Le tre puntate precedenti sono uscite il 20, il 23 e il 26 ottobre)

La Repubblica di martedì 30 ottobre 2001, sezione Cultura.

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Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001