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Alessandro Baricco |
Staples Center, cuore della tele-democrazia - Dal palco messaggi chiari e veloci come in uno spot; fuori le proteste e i cortei di quelli che non si allineano LOS ANGELES - Succedono cose come questa. A metà pomeriggio il governatore dello Stato di Washington (dico, il governatore, non Daniele Piombi) invita gongolante sul palco tale Marilyn Casey, di Chantilly, Virginia. Parte un filmato. Il filmato spiega che la signorina ha avuto un genitore malato terminale. Poi spiega che lei ha potuto astenersi dal lavoro, senza perderlo, e curare il genitore fino alla sua ultima ora. E questo grazie a un provvedimento di legge che è stato la prima cosa fatta dall'Amministrazione Clinton-Gore. Finisce il filmato, applausi. |
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Non
basta. Il governatore si avvicina a Marilyn e inizia a intervistarla:
con una scioltezza che Bruno Vespa non avrà mai. Lei non sbaglia una
battuta e conferma tutta la storia. Durata: tre minuti. Cosa stanno
facendo? Grande televisione, stanno facendo. In tutto e per tutto,
quella è roba da palinsesto televisivo; i tempi, la logica, la tecnica,
la sequenza drammatica, il materiale, la scenografia: è tutta
televisione. Sto seduto allo Staples Center di Los Angeles alla
Convention dei democratici: e quello che vedo è gente che fa la
televisione. Ancora un passo indietro. Perché hanno bisogno di mandare messaggi chiari e veloci? La prima risposta che viene è: così la gente capisce. Però non è la sola risposta possibile. Ce n'è una più scomoda: perché quello che hanno da dire è così povero ed elementare che tre minuti e il linguaggio televisivo sono più che sufficienti. Perché non hanno niente da dire che noi già non sappiamo. Perché stanno ripetendo delle parole d'ordine. Perché non stanno spiegando qualcosa da capire: stanno ripetendo slogan da imparare a memoria. Non stanno inventando qualcosa: stanno mitizzando l'esistente. Ho passato ore, là dentro, e non ho sentito una sola domanda che non fosse retorica: di cui già non si sapesse la risposta. Nessun dibattito, nessuna obiezione, nessuna apertura di nuovi scenari. Solo l'ossessivo, quasi ipnotico, ripetersi addosso alcuni slogan. Fino a quando non finisci per crederci. Tutto ciò ha molto a che fare con la contrazione del paesaggio politico di cui si diceva ieri: con la grande e allegra corsa verso il mitico centro, con la eliminazione delle differenze, con l'avvento di una sorta di Pensiero Unico, che ha poi interpreti con stili e genealogie diverse, ma insomma sempre quello è: la politica come gestione del necessario, non come invenzione del possibile. Per questa politica, capace ormai di muoversi solo in un terreno di scelte obbligate, di percorso già tracciato, di assenza di alternative vere, la limpida velocità del linguaggio televisivo è necessaria perché ruba il tempo alla riflessione, tramanda lo slogan e tiene lo sguardo incollato a un orizzonte molto vicino. L'incubo è che qualcuno si sottragga a quella bonaria ipnosi e si ricordi che, volendo, sapremmo guardare più lontano. Quelli
che se ne ricordano, qui a Los Angeles, stanno fuori, braccati dalla
polizia e tallonati dai media. Chiamiamoli il popolo di Seattle?
Chiamiamoli così. In realtà sono un mondo che nessuno ha ancor ben
capito. C'è di tutto, da quello che ce l'ha con i Mac Donald's, a
quello che difende il diritto di andare in bicicletta. C'è,
letteralmente, di tutto. Ma se cerchi un minimo comun denominatore quel
che trovi è proprio ciò che la politica teme: quella è gente che non
ci sta ad allinearsi. Non crede che la Storia proceda col pilota
automatico, non crede all'inevitabilità delle cose, e non vuole
intrupparsi al centro per la sola fragile ragione che, tutti stipati
lì, le cose funzionano meglio. Non ne farei degli eroi, e probabilmente
a conoscerli uno ad uno ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Ma
sono quelli fuori dal gruppo. Sono quelli che continuano a tenere aperto
il campo da gioco, mentre la politica ha ormai deciso di giocarsi la
partita in un fazzoletto di campo. C'è troppa polizia, qui intorno, per
pensare che siano un fenomeno come un altro. Io tanta gente così, in
divisa e in assetto di guerra urbana, l'ho vista solo in Godzilla. Viene
da chiedersi cosa mai possano fare, quelli là, per essere così temuti.
Di cosa sono simbolo per atterrire così. Mi viene in mente solo una
cosa: fanno paura perché non ce l'hanno con Gore, ma con qualcosa che
sta ben sopra Gore. Sono lì a dire che l'esercizio della democrazia
può diventare una forma di tirannide. Quelli là fuori sentono puzza di tirannide. La parola dà fastidio? Fa fatica sovrapporla a quella, deliziosa, di democrazia? Sì. Molto fastidio. Tanto da scomodare l'intera polizia della Contea. Sono dei pazzi? Credono di vivere in un film di fantascienza con il Grande Fratello che li frega? Sono mitomani? Sono semplicemente cretini? Stacco. In
una breve pausa tra un automa parlante e l'altro, via con la musica.
Melissa Etheridge, chitarra in mano, dirige il coro. Compilation di
canzoni buoniste. E il popolo della Convention ci sta, canta e balla.
Tutti in piedi, le telecamere vanno in orgasmo, vecchie signore coi
capelli gialli e ragazzini neri con il cappellino dei Lakers diventano
una sola America, scatta a tradimento un Woody Guthrie infallibile,
Questa terra è la mia terra, decolla la fierezza patriottica, vicino a
me il giornalista della radio che ha sonnecchiato allegramente fino a
quel momento accende il registratore, allunga il microfono e forse
neanche si accorge che sta cantando anche lui, è di una radio del
Nevada, pensa te, quel coro arriverà in qualche assurdo incrocio di
freeway in mezzo al nulla, in un bar dove qualcuno ci spenderà una
lacrima, abbiamo costruito un ponte verso il nuovo millennio, ha detto
Clinton, l' abbiamo attraversato, ha detto, e non torneremo indietro. La Repubblica, 18 agosto 2000. |
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_____________________________________ Ultimo Aggiornamento_Last Update: 10 Nov. 2001 |