A starci
attenti, ti accorgi che la sinistra vergine ha cinque parole d'ordine
forti. Le prime tre sono quasi commoventi: assistenza sanitaria per
tutti, scuole pubbliche allo stesso livello di quelle private, impegno a
disarmare il Paese (non l'esercito, per carità: la gente, quelli che
girano con la pistola sul cruscotto). Giuro che, sentite qui, sono cose
di sinistra. In Europa farebbero sorridere. Qui no. Le altre due parole
d'ordine suonano un po' meno obsolete: difesa dell'ambiente, tutela dei
diritti delle donne. Su queste, anche l'Europa sta ancora
lavorando.
A questo pacchetto di buone intenzioni si aggiunge una curiosa posizione
sullo Stato assistenziale. Di solito la frase è: dare alla gente una
chance per uscire dalla palude, dalla rete, del Welfare. E' Clinton che
ha iniziato con questa acrobazia, tipicamente centrista: il Welfare è
un dovere, ma anche una trappola. Il disoccupato va aiutato (e da queste
parti la cosa non è scontata), ma un disoccupato che vive con i soldi
dello Stato è un binario morto, uno spazio bianco, una cellula del
Paese immobilizzata. Non basta farla sopravvivere: bisogna rimetterla in
movimento. Per il bene suo e del Paese.
Al di sopra di queste indicazioni, la sinistra vergine usa una trinità
di superslogan che fa decollare gli entusiasmi. Il primo è molto
americano: dare a tutti, e cioè a ognuno, l'opportunità di diventare
ciò che vuole diventare. Suona bene, ma è chiaro che può voler dire
di tutto. Infatti è una parola d'ordine anche della destra. Il secondo
superslogan è più chiaramente anti-repubblicano: siamo il partito
della gente, non dei privilegi. Put people first. Metti la gente davanti
a tutto. Scandito bene davanti a una folla di delegati caricati a molla,
è una cosa che fa saltare il banco. Comunque, il migliore superslogan
è il terzo. Ci si vede dietro la mano di un buon copy. L'ha scandito
forte e chiaro Hillary. Leave no child behind. Più o meno: non
lasciamoci dietro nemmeno un bambino. Che sembra la frase di un marines
pazzo in procinto di radere al suolo un villaggio vietnamnita, ma che in
realtà significa: stiamo percorrendo a grande velocità la strada del
progresso e della prosperità: facciamo in modo che nessuno dei nostri
figli possa rimanere indietro.
Questa dei children, dei bambini, è, per loro, un'autentica ossessione.
Si può dire che infallibilmente, ogni volta che parlano in pubblico,
prima o poi, cascano sui bambini. E' come il crepitare di un'antica
paura, che continua ad accompagnarli, in modo irrazionale, anche adesso
che non ci sarebbe più motivo. E' come se fossero ancora dei pionieri
che ogni giorno lavorano come bestie e sanno che creperanno prima di
vedere i frutti della semina, e allora guardano i loro figli, e i figli
sono il senso della loro fatica, e il fallimento dei loro figli sarebbe
il loro fallimento. Non è più così, ma quel modo di vedere le cose è
rimasto il loro modo di vedere le cose. Dunque: leave no child
behind.
Dopo ore di slogan così, mi son trovato seduto in bus che mi riportava
a casa. Subito fuori dallo Staples Center c'è un enorme quartiere dove
vedi solo facce ispaniche. Case cadenti, macchine scassate, giardini
spelacchiati. All'angolo tra due strade male illuminate il bus ha
rallentato per girare. Era già buio, sera tardi. Lì all'angolo c' è
una specie di piccolo parco giochi disastrato. Due porte da calcio,
piccoline, fatte con tubi da idraulico e lembi di reti sudicie che
penzolano dalla traversa. Cemento per terra, con le erbacce che crescono
nelle spaccature. Scheletri di poltrone, intorno, una vecchia coperta,
un carrello da supermercato. E dei bambini. Quattro contro quattro,
pallone di gomma. Dato che la sola luce è quella, gialla, dell' unico
lampione superstite lì intorno, la partita ha qualcosa di surreale,
macchiata da zone d' ombra completa: se scatti sull' ala e vai a
crossare dal fondo, scompari in un buco nero. Il pallone, in area, ci
arriva come sputato dal nulla. I bambini si sono fermati a guardare
l'autobus. Io mi sono fermato a guardare i bambini. Leave no child
behind.
Non c'è bisogno di conoscere le cifre per capirlo: basta girare un po'
l'America a caso, o imboccare una via di Los Angeles e farla da cima a
fondo, per capire che si sono lasciati indietro non qualche bambino, ma
un sacco di gente. Non se ne sono accorti, là, dentro lo Staples
Center? Oppure lo sanno benissimo, ma si raccontano storie? Certo, più
che dei mentitori incalliti sembrano allegroni colpiti da un'ilare
amnesia. Con la stessa leggerezza con cui, ad esempio, passano quattro
giorni di Convention senza mai citare la pena di morte, o ricordando il
Kossovo con ottusa fierezza, con quella stessa noncuranza non riescono a
rendersi conto che una significativa parte di ciò che dicono è
regolarmente smentita a quattro isolati di distanza: non dico nel terzo
mondo; dico dietro l'angolo.
Così mi è venuto in mente lo svedese. Lo svedese è il protagonista di
un romanzo bellissimo di Philip Roth che si intitola Pastorale
americana. E' uno da Staples Center. Una specie di Al Gore. Quello che
giocava da dio nella squadra di football, e poi ha sposato Miss New
Yersey, ha ereditato il lavoro dal padre, è un uomo giusto, legato ai
valori americani, ricco ma non con protervia, vagamente di sinistra,
onesto, felice, meravigliosamente a posto. Non si allontana mai dal
dettato di una corretto e civile cammino. Tutto ciò, per quelli dello
Staples Center, è un teorema: scientificamente dovrebbe produrre
progresso, prosperità, e una generazione in più di beata America. Roth
però è uno scrittore crudele, non un governatore democratico. Così,
quello che fa quel libro è raccontare lo sfascio della vita dello
svedese, l'inopinato ribellarsi della vita quotidiana all'elementare
meccanismo di causa effetto che dovrebbe, da un americano esemplare, far
sgorgare un'America esemplare. Il teorema impazzisce, e intorno allo
svedese brulicano rovine e domestiche apocalissi.
Allo Staples Center è pieno di svedesi che si rifiutano di perdere la
propria fede nel teorema. I fatti contano poco. Si direbbe che non li
vedano neppure. Chiusi nel loro set televisivo, storditi da quella
interminabile Domenica in, si ripetono ossessivamente che tutto va bene,
e che la replica di se stessi è il progetto per il futuro. Il vice di
Gore, Lieberman, uno che ha l'appeal di Dini, ha staccato una frase, nel
suo discorso, che la diceva lunga. A un certo punto ha rischiato il
salto mortale e l'ha detto: a quarant'anni da Kennedy, noi, di nuovo,
abbiamo una nuova frontiera. Arrivato lì era un po' come uno stopper
partito in dribbling nell'area avversaria. Ero curioso di vedere come ne
usciva. Ma la nuova frontiera, ha proseguito, non è davanti a noi. Ah
no? La cosa si faceva sempre più interessante. Dove diavolo può essere
una nuova frontiera? Dietro? La nostra nuova frontiera è dentro di noi.
Proprio così ha detto. E' dentro di noi. Poi ha detto qualcosa d'altro,
ma a me quello bastava. Era esattamente quello che cercavo di capire da
giorni, ma non riuscivo a sintetizzare in una frase. Eccola lì la
frase. La nuova frontiera è rimanere sul posto, e fare di quel posto un
monumento, migliore possibile, ma immobile. L'elettrizzante piano è:
tramutarsi in se stessi.
Cosa può imparare la sinistra europea da un sinistra così? Faccio
fatica a capirlo. Penso a quello slogan, leave no child behind, e mi
viene in mente che dopo quattro giorni di lavaggio del cervello, di
inesausta digestione di un granitico modello di umanità, senza
incrinature e senza dubbi, mi sembra più ragionevole uno slogan
opposto. Date ai bambini almeno una chance di rimanere indietro. O di
scappare di fianco. O di saltare oltre. Inventatevi qualcosa perché
crescano con almeno una piccolissima possibilità di pensare che questo
non è l'unico mondo possibile. Lasciateli andare. Tanto non la berranno
a lungo questa storia che la nuova frontiera è il giardino di cosa
vostra, e conquistarla significa tagliare l'erba ogni settimana e non
rovinarla quando si fa il barbecue. Prima che arrivino lì con un camion
di letame e ve lo scarichino sul vialetto del garage, lasciateli andare.
La
Repubblica, 19 agosto 2000. |