Renzo Nanni (1° Premio assoluto
Rabelais 1997)
"Il vino in
tasca"
Sparse
dimezzate colonne cento volte rifatte tra schianti di fuoco e
gelo, ventitré giorni su piste contorte nel bianco saliscendi
di infinite ossessive colline, sbiadita la memoria della vasta
accogliente estate dei girasoli, coi loro sorrisi così
slontanati così tinti di scherno. Cadevano perdute baldanze di
guerra-lampo, i cori dei gesti giovani, soffrivano solo mani
rinsecchite di gelo, passi legnosi a sghimbescio a reggersi
col fiato racimolato dai miraggi di casa, occhi supplici
increduli di tante smisurate lontananze.
Fu alla svolta
d’uno di quei dossi ripetitivi improvvisa la macchia grigia di
camion sventrato contorto mostro capovolto nell’aria di
cristallo. “Vedi la targa! E.I.! “, e dunque targa Italia, un
altro rottame di noi seminati a caso - alpini, carri, muli,
slitte - come sterpi di prati inutili. Accostammo accorti
girando a ventaglio, stringendo l’antico fucile “novantuno”-
ragazzi, baionetta in canna per l’assalto, avanti Savoia! –
ma così inutile l’arma delle esercitazioni, così povero
l’animo rabbrividito, le mani senza presa, ora incerte a
segnare il metallico mostro. Pareva animale dissanguato, tra
incredibili cerchi di tracce porpuree, di certo segni di corpi
frantumati negli squarci del mezzo, chiazze addensate
come in brevi coppe di neve.
Fu primo il Gianni alpino
di Verona a gridare “El xe vin!” e ridere come i cercatori
d’oro dei films. Un rosso crostoso, ancora non screziato di
polvere di neve e dunque un giovane sangue di terra spillato
da poco: parevano polle di fresca sorgiva quei cenni di vita
intatta, un altro miraggio strambo fuori dai calcoli
dell’inutile guerra pianificata. E noi via, le nostre forze
residue, a battere vocianti col calcio del fucile in
sangue cupo dell’avventura, il segno di casa, l’eco – forse –
di damigiane rotte nella tinaia di famiglia. Anche la
damigiane morivano per una guerra insensata. Ma noi, chini a
cogliere pezzi di vino, ficcarli nelle tasche, ci
sentivamo magici salvatori di tracce di vigne e d’acini.
Mario alpino di Trento ora scuote lo zaino, lieto peso
evocando dei gerli sulle terrazzate, nelle basse vigne a
spalti sotto chiome d’abeti e larici, in alto le rupi che
trascolorano, i mobili tramonti di dolomia. Berto, friulano di
Tarcento, scorda l’impeto d’acque ladre, raccatta schegge di
vino schegge di voci dei tondi caminetti resinosi, le pievi di
legno su alterni sentieri di malghe e scoiattoli. E il piccolo
ruvido Noris valtellinese parlava di feste di grappoli, i
carri con Bacco e Arianna rubicondi contadini, giri di coppe
impampinate e fiaschi e fior di ragazze gettando rose. Sisto
abruzzese, furetto rinato sotto crostosa barba stellata di
gelo, pareva squarciare i colli inseguendo un pallido fiorire
d’oliveti, e disegnò stupito su neve di Russia povere viti
sassose eternamente superstiti per ripetute caparbie fatiche, le
pecore nella tinaia, col caratello acidulo dell’acquata.
Vasinto pesarese evocava viti sposate ad alberi, vendemmie
arrampicate e dondolare di gelsi nel tiepido canoro autunno
delle api: ma cosa cosa fa negli Alpini un marittimo da
porto-canale, e io livornese che forse avrei dato l’Aleatico
d’Elba casereccio in cambio di una conchiglia odorosa di
libecciate cariche di sale.
Andavamo, cavando a tratti di
tasca preziosi semi d’aria paesana: giri il colle ed è
svoltare l’angolo dell’osteria della piazza, stringere mani
amiche negli auguri con l’albero milleluci la torta di ricotta
i piccoli occhi gioiosi - a intingere il dito nella coppa
spumosa delle solennità. Fu un caldo bere ricordi,
trarne colmi respiri a scrivere vita ancora vita sulla
pagina bianca dei giovani recuperi. Pareva sfaldarsi la steppa
degli inganni, e gemme nascere come segni di cielo poco prima
dell’alba operosa dei tralci da scegliere e legare alle salde
promesse di raccolti di gioia.
Ora più deciso prese
corpo il nostro procedere a ritroso nel tempo diretti alla
cerchia sofferta delle attese. Così coprimmo coi piedi secchi
come dighe di botte gli ultimi spazi girovaghi verso casa. E
furono brindisi in lieti calici quel nostro masticare, fra
complici furtivi sorrisi d’occhi, frammenti di memoria nel
breve disciolto sapore di una goccia di
vino.
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