I DISTURBI DI ATTACCHI DI PANICO (DAP)

di Adele Sandri

Panico deriva dal grco “panikòs”, che significa del dio Pan, figlio di Hermes e di una ninfa; mezzo uomo e mezzo animale, colui che incuteva paura ai viandanti.

Sul vocabolario la parola panico è definita come:

timore repentino che annulla la ragione e rende impossibile ogni reazione logica.

Il “Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali” Dell’American Psychiatric Association descrive in questo modo gli attacchi di panico:

Gli attacchi di panico si manifestano con l’improvvisa insorgenza di un’intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati a sentimenti di catastrofe imminente. I sintomi più comuni durante l’attacco sono: dispnea(difficoltà di respiro), palpitazioni, dolore o malessere toracico, sensazione di sentirsi strozzati, sbandamento o vertigine, sentimenti di essere instabili, sentimenti di irrealtà (depersonalizzazione o derealizzazione), parestesie, vampate di calore o sensazione di freddo, sudorazione, senso di svenimento, tremori a piccole e grandi scosse, paura di morie, di impazzire o di fare qualcosa di incontrollabile durante l’attacco. Una complicanza comune di questo disturbo è lo sviluppo di una paura anticipatoria di impotenza o di perdita del controllo durante l’attacco di panico, cosicché l’individuo diventa riluttante a stare solo od in posti pubblici lontano da casa.

Il paziente che soffre di attacchi di panico ne è colto all’improvviso ed inaspettatamente.

Durante l’attacco viene colto da un’intensissima angosciante  profonda sofferenza e, nei periodi di intervallo tra gli attacchi, vive l’attesa ansiosa e timorosa che l’attacco si ripresenti, senza preavviso e senza una prevedibile logica.

La ripetizione degli attacchi prevede che si strutturino nel soggetto una serie di limitazioni: evitare i luoghi e le situazioni che teme possano scatenare l’attacco (guidare, usare l’ascensore, frequentare un supermercato); procedendo nel tempo il numero dei luoghi a “rischio” si amplia fino ad arrivare alla paura degli spazi aperti (agorafobia), limitando la propria vita esclusivamente alle mura domestiche.

L’attacco di panico è un crudele scherzo del nostro sistema nervoso che simula le sofferenze di una morte imminente quando, invece, tutto funzione benissimo.

Peraltro questi attacchi sono curabilissimi, la patologia da DAP è del tutto benigna. Importante è rivolgersi ad uno psichiatra per il riconoscimento effettivo della patologia e per le prescrizioni del caso.

La terapia farmacologia, a base di psicofarmaci, è assolutamente innocua.

Questi farmaci appartengo alla categoria degli antidepressivi, infatti i DAP rappresentano i prodromi di un’iniziale forma depressiva.

Gli attacchi di panico colpiscono soggetti apparentemente sani e non necessariamente in situazione di stress.

I sintomi psichici sono :

  • un’improvvisa paura o terrore

  • una sensazione di morte improvvisa o di perdita del controllo delle proprie idee ed azioni.

Associano sintomi come: tachicardia, dispnea, vertigini, vampate di calore, brividi di freddo, tremori, sudorazione.

Negli attacchi più gravi il soggetto può perdere il contatto con la realtà (derealizzazione)  con la sensazione di vivere in una realtà nuova o la sensazione di essere una persona diversa e di non riconoscersi più (depersonalizzazione).

La sintomatologia acuta dura dai 15’ ai 30’.

I veri attacchi di panico di interesse clinico colpiscono il 2-3% della popolazione con una particolare prevalenza nei giovani dai 25 ai 30 anni, di sesso femminile.

Per chi soffre di attacchi di panico il mondo del lavoro presenta notevoli difficoltà:

  • l’ansia per dover raggiungere da solo il posto di lavoro.

  • l’ansia del dovere mettersi a confronto con le proprie capacità e con colleghi e superiori. Si può arrivare ad un’autoesclusione graduale chiedendo periodi sempre più lunghi di assenza per malattia o di cassa integrazione fino ad essere costretti a dare le dimissioni od ad essere licenziati.

Coloro che soffrono di DAP trovano, solitamente nell’ambito familiare, persone disposte a prendersi cura di loro, a rinunciare anch’esse ad una vita sociale per dedicarsi interamente “al malato”.

Ciò ingenera un perverso meccanismo di reciproca dipendenza che può portare addirittura all’ammalarsi del familiare accudente, qualora il malato inizi a riacquistare un minimo di autonomia.

Questo per non perdere quella profonda unità creatasi in anni di dedizione assoluta.

Vi sono alcune regole di comportamento che possono essere seguite per evitare l’innescarsi di questo meccanismo:

  • assicurare il proprio affetto dando disponibilità all’ascolto

  • valorizzare i momenti di autonomia e non sostituirsi mai alla persona nei compiti che è in grado di svolgere anche se con fatica

  • sostenere la ripresa dei comportamenti normali.

 


Webliografia:

http://www.guidamed.com/larubricadelbenessere/default.phtml?na=41 

http://lidap.org/aliment.html   

http://www.lidap.org/familiar.html