Il ministero terreno di Gesù s'incentrò sull'annuncio del regno di Dio.
Il Nuovo Testamento ci descrive un Gesù che confidava nell'imminente avvento del regno di Dio (vedi Mt. 10,23; Mc. 1,15; 9,1; 13,30; Lc. 10,23-24; 11,20). Tutti questi brani documentano una "attesa a breve scadenza". Infatti, la prima generazione di cristiani confidò di poter assistere all'avvento del regno di Dio durante il suo tempo (vedi 1°Tess. 4,15; 1°Cor. 7,29.31; 15,51; Fil. 4,5).
Solo su questo sfondo si possono comprendere tanti incalzanti discorsi e parabole di Gesù. In previsione di questo imminente avvento del regno, Gesù non intese fondare una comunità particolare, distinta dal popolo d'Israele, una comunità con una propria professione di fede, un proprio culto. Durante tutto il suo ministero, Gesù non si rivolse mai ad un gruppo particolare allo scopo di isolarlo dal popolo ebraico, come invece fecero gli esseni ed i monaci di Qumran. Gesù non voleva isolamenti e separazioni, egli chiamava a raccolta tutto Israele.
I Vangeli non menzionano discorsi pubblici di Gesù nei quali si incoraggi programmaticamente l'adesione ad una comunità di eletti, nei quali si annunci l'istituzione di una "chiesa". Gesù non ha mai detto che, per entrare nel regno di Dio, sia necessario appartenere ad una "chiesa". Tutto questo significa che Gesù non ha fondato una "chiesa" durante la sua vita terrena. Ma qual è il senso della parola "chiesa"? Il termine italiano "chiesa" deriva dal greco ecclesìa, che indica un gruppo di persone riunite insieme. Con le uniche eccezioni di Matteo 16,18 e 18,17 la parola ecclesìa non compare nei Vangeli. Pertanto, poiché Luca usa questo termine negli Atti per ben 23 volte, ma mai nel suo Vangelo, è evidente che egli lo riferisce ad una realtà che non apparteneva al periodo del ministero terreno di Gesù.
Per quanto riguarda Mt. 18,17, in base al contesto, ecclesìa va intesa come il gruppo concreto, che vive e si riunisce in un certo luogo. Più complessa è l'interpretazione di Mt. 16,18 anche perché di questo brano non esistono riscontri paralleli in Marco e Luca. Inoltre, non si può essere categorici sul ruolo attribuito a Pietro, dato che, da quanto si sa, della primitiva comunità cristiana, Pietro non era l'unica colonna (vedi Gal.2,9; Atti 11,1 ss.). La questione si complica se si considera che, fin dai primi secoli dell'era cristiana, diversi esegeti hanno compreso che il riferimento alla "pietra" fosse rivolto a Cristo stesso.[1]
Infine, il riferimento ad un tempo futuro ("edificherò") è la prova che la fondazione della ecclesìa non riguardava il tempo di Gesù. Solo dopo la morte e la resurrezione di Gesù i primi cristiani parlano di ecclesìa. Pertanto, la chiesa, intesa come particolare comunità distinta da Israele, è indiscutibilmente una realtà postpasquale. Per questo possiamo dire che Gesù non fu quello che comunemente viene definito fondatore di una religione. Sulla base di queste premesse possiamo azzardare una prima definizione di chiesa cristiana: la comunità di coloro che hanno abbracciato la causa di Gesù Cristo e la testimoniano come speranza per l'umanità. L'apostolo Paolo usò inizialmente ecclesìa per indicare una congregazione cristiana locale. Nelle sue quattro lettere ai cristiani tessalonicesi e corinzi, egli si rivolge all'ecclesìa di Dio rispettivamente a Tessalonica e a Corinto; nella lettera ai galati, egli saluta le congregazioni (al plurale) della provincia della Galazia.
Così Paolo, almeno nelle sue prime lettere, non sembra sviluppare alcun concetto di "chiesa" che vada oltre la congregazione locale: l'Apostolo parla costantemente di cristiani come di una "chiesa" che si riunisce in un luogo particolare; anche quando si hanno numerosi gruppi in una singola città, le singole assemblee non sono considerate come parte dell'ecclesìa in quel luogo, ma come una delle "chiese" che si radunano lì. Ciò fa pensare che ciascuna delle chiese locali sia espressione tangibile della "chiesa celeste", concetto sul quale torneremo. E' importante ribadire che prima della Pasqua esisteva solo un movimento escatologico di raccolta; soltanto dopo la Pasqua si ha una comunità -ecclesìa- ancora orientata in senso escatologico. Pare che le comunità primitive si riunissero in case che fungevano da "chiese" e tutti quelli che vivevano in una casa, che normalmente comprendeva una famiglia in senso esteso con schiavi ed altri dipendenti, potevano servire da fattore di coesione nel tenere unita la congregazione. Vi è anche sufficiente evidenza che mostra che le "chiese" usavano come modello le associazioni volontarie o società riconosciute sotto la legge romana. Poiché i membri di tali associazioni - note in latino come societas e in greco come koinonia - dovevano essere della "stessa mente" nel promuovere gli interessi dell'associazione, essi servivano come eccellenti esempi per il tipo di associazione che Paolo descrisse. L'idea che vi fosse una perfetta unità nelle primitive chiese cristiane non è condivisa oggi da diversi studiosi. A questo proposito Hans Kung scrive: "Teologie e stili di vita differenti, tensioni sociali e problemi connessi alla struttura comunitaria emersero fin dal principio ... A Gerusalemme gli <ebrei> entrarono in polemica con gli <ellenici>, ad Antiochia gli esponenti di un cristianesimo svincolato dalla Legge si scontrarono con i propugnatori della circoncisione. Paolo scongiura i diversi gruppi formatisi a Corinto di mantenere la concordia, mentre egli stesso si vede trascinato in un'accesa disputa con i missionari giudaizzanti, segnatamente quelli della Galazia. Ci furono così cristiani di estrazione giudaica e cristiani di estrazione pagana" [2].
Sappiamo che i primi cristiani, che gravitavano nell'ambiente giudaico, erano considerati un partito o una fazione, la setta dei nazareni. In quei primi tempi essi erano disposti a rimanere all'interno della sinagoga, avendo come precipua caratteristica quella di credere che Gesù era il Messia. Così, quando si cominciarono a formare congregazioni separate dalla sinagoga, esse rapidamente adottarono la forma di governo comune nella sinagoga: essi mutuarono il concetto di corpo degli anziani e l'idea che si dovessero scegliere alcuni tra loro versati nella Legge come insegnanti. Tutto ciò venne all'esistenza con molta naturalezza, perciò la forma di governo, che le chiese adottarono, era stata ereditata, non era qualcosa di nuovo, stabilito in base ad una precisa disposizione di Gesù e degli apostoli. Naturalmente, ben presto ebbe luogo l'istituzionalizzazione delle comunità cristiane; come dice H. Kung: "Nella tradizione palestinese aveva preso piede già molto presto l'istituzionalizzazione mediante l'adozione dal giudaismo del collegio degli anziani e dell'ordinazione. ... Nel Nuovo Testamento si trovano diversi modelli di ordinamento e direzione della comunità, che non si possono ricondurre l'uno all'altro, anche se nel corso del tempo si sono mescolati. Il Nuovo Testamento, quindi, non consente di canonizzare una sola costituzione comunitaria" [3].
Tutto il Nuovo Testamento attribuisce agli apostoli un ruolo fondamentale nella fondazione delle prime chiese cristiane; tuttavia, tensioni sociali e problemi connessi alla struttura comunitaria sorsero fin dal principio. Come abbiamo già accennato, la chiesa di Gerusalemme era una comunità decisamente giudaizzante, mentre quella di Antiochia propugnava un cristianesimo svincolato dalla Legge mosaica. Ogni ecclesìa era un'unità a sé stante, non sottoposta all'autorità di alcun corpo direttivo centrale. Il caso di Antiochia è particolarmente significativo. Atti (11,19-20) narra che numerosi profughi da Gerusalemme fondarono un'ecclesìa ad Antiochia e cominciarono a convertire i Gentili senza alcuna direttiva da organi centrali (v.21). Successivamente la chiesa di Gerusalemme seppe del loro operato e mandò Barnaba per assisterli (v.22), non per dirigerli o sorvegliarli. Inoltre, non va trascurato che l'appellativo "cristiani" nacque ad Antiochia e che furono i profeti ed i maestri di Antiochia, non quelli di Gerusalemme, che sospinti dallo Spirito santo nominarono Paolo e Barnaba come missionari ai Gentili (Atti 13,1-3). Alcuni, compresi i Testimoni di Geova, hanno usato il racconto di Atti cap.15 per sostenere l'autorità centrale di un corpo direttivo della chiesa di Gerusalemme su tutti i primi cristiani. Atti 15 descrive la controversia sulla circoncisione che scoppiò ad Antiochia (Atti 15,1-2). Per comprendere il senso dell'intera questione, va nuovamente puntualizzato l'ambiente in cui scoppiò la controversia. In Atti 6,1 per individuare un particolare gruppo di cristiani della comunità di Gerusalemme, si adopera il termine greco ellenistài ad indicare probabilmente che essi non vivevano secondo la Legge.
Secondo Atti 11,20 alcuni di questi si recarono a predicare il vangelo ad Antiochia. Il connubio tra giudeo-cristiani e Gentili convertiti pose nuovi problemi: non si correva il rischio di contaminarsi ritualmente dividendo il pane e il vino con tanti Gentili? l'esistenza nella chiesa di tanti ex pagani non avrebbe provocato gravi deviazioni dottrinali e morali, evitate fino ad allora grazie alla comune eredità ebraica del primitivo nucleo di cristiani? Pertanto, Atti 15,20.27-29 va inteso anche in funzione del tipo di associazione praticata nella primitiva comunità cristiana: a volte la piena associazione implicava il condividere un pasto in comune in quelli che erano chiamati "conviti d'amore" (Giuda 12). Perciò dalla riunione di Gerusalemme partì questa indicazione: i cristiani Gentili avrebbero dovuto rispettare le limitazioni imposte, altrimenti i giudeo-cristiani non avrebbero potuto riunirsi con loro nei conviti e non avrebbero potuto godere della piena associazione. Va precisato che Paolo e Barnaba andarono a Gerusalemme non per chiedere l'emanazione di regole da parte dei responsabili della chiesa di Gerusalemme, ma per addivenire ad un amorevole accordo. Infatti, lo stesso Paolo aveva già ricevuto una direttiva sulla questione, direttamente dallo Spirito santo (Gal.2,1-10).
In altre parole, Paolo non si sentiva vincolato dalla necessità di accettare le decisioni di altri apostoli, né egli pensava che una chiesa avesse autorità sulle altre. Tutto ciò contribuisce a ritenere che nel primo secolo non esisteva una gerarchia dottrinale ed amministrativa che fungesse da corpo direttivo mondiale. Invece, lo Spirito sceglieva individui diversi per rivelare nuove verità, per profetizzare e per evangelizzare4. Il fatto puro e semplice è che le prime comunità cristiane avevano bisogno d'essere guidate, ed i primi cristiani fecero ciò che meglio potevano per conseguire tale scopo. Le evidenze neotestamentarie indicano che: - probabilmente vi erano degli anziani che avevano già servito in tale ruolo nella comunità giudaica e che furono accettati senza difficoltà nella stessa funzione anche nelle chiese cristiane (Atti 15,6.22-23); - vi erano anziani che non erano stati nominati da un'autorità superiore, ma erano scelti dalle chiese sotto la direttiva dello Spirito. Sembra che ad Antiochia, prima comunità cristiana organizzata fuori Gerusalemme, accadesse proprio questo (Atti 11,19-30; 13,1-3); - vi erano anziani nominati dagli apostoli o da loro rappresentanti (Tito 1,5).
L'eccessiva importanza attribuita ad alcuni doni miracolosi ha sempre creato problemi alle chiese cristiane fin dal primo secolo. 1°Corinti, capitoli 12-14, mostra che la chiesa di Corinto era una comunità carismatica in cui vi erano problemi connessi all'abuso dei doni miracolosi. Pertanto, mentre Paolo non si opponeva al dono della glossolalia, egli mise in guardia i suoi fratelli dal rischio di abusare d'esso (1°Cor. 14,1-4). Anche la Didaché (11,9.12) mostra come i primi cristiani fossero costantemente afflitti da falsi profeti e millantatori di ogni sorta 5. Il Nuovo Testamento ci dice che anziani (greco presbyteroi) o sorveglianti (greco episcopoi) e diaconi svolgevano un importante ruolo nella guida morale e liturgica delle chiese. E una metafora paolina ci illustra come dovrebbe funzionare una chiesa in 1°Corinti 12,12-27. L'idea di paragonare un'associazione ad un corpo umano era molto comune nel primo secolo; essa si era sviluppata originariamente con gli stoici, che consideravano non solo la società umana ma l'intero cosmo come interdipendente nei suoi componenti. Così era cosa ordinaria, concetto della vita quotidiana in tutto il mondo romano ed anche in quello giudaico, questo modo di considerare la società. Dopo aver descritto i vari doni e la loro ispirazione divina, Paolo afferma: "Cristo è come un corpo che ha molte parti.
Tutte le parti, anche se sono molte, formano un unico corpo. E tutti noi credenti, schiavi o liberi, di origine ebraica o pagana, siamo stati battezzati con lo stesso Spirito per formare un solo corpo, e tutti siamo stati dissetati dallo stesso Spirito" (1°Cor. 12,12-13). La chiave di lettura di questa struttura collettivista è l'intensità della fede di ciascun credente (1°Cor. 13,13): da tutti si esige una vita individuale e sociale coerente col vangelo. Una chiesa veramente cristiana non potrà mai essere un centro di potere perché i suoi membri devono essere liberi dal legalismo, dal peso della colpa, dalla paura della morte (1°Cor. 7,23). In questo tipo di chiesa nessuno ha il diritto di manipolare la libertà altrui, sostituendo alla sovranità di Dio una sovranità di uomini su propri simili. Si ricordi che si aderisce ad una chiesa solo per un atto di libera scelta di fede, ogni altro tipo di adesione è destinato a durare poco e a far naufragare la propria fede. L'unica vera autorità consentita in una chiesa cristiana è quella fraterna, non quella che induce a dire: "ti dico che devi agire così!", ma quella che porta a dire: "tu ed io dobbiamo attuare quel dettato cristiano". Tornando alla storia del primo cristianesimo, in sostanza le singole chiese del primo secolo partecipavano tutte alla ecclesìa celeste , chiaramente descritta da Paolo in Col. 1,18: "egli (Cristo) è il capo del corpo, la chiesa".
Questo passo, come l'analogo verso 24 è collocato in un contesto che mostra come i cristiani siano già parte del celeste regno di Cristo. Infatti Colossesi 1,13-14 ci dice che "Egli (Dio) ci ha liberati dal dominio delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo diletto Figlio, nel quale abbiamo redenzione, il perdono dei nostri peccati". I versetti 21-23 dello stesso capitolo affermano: "e voi, che una volta eravate estranei e ostili nella mente, facendo opere malvage egli ha riconciliato nel suo corpo di carne mediante la sua morte, per potervi presentare santi e senza biasimo ed irreprensibili dinanzi a lui, facendo sì che continuiate nella fede ... ". In maniera ugualmente significativa Paolo sottolinea:"Se, comunque, foste destati col Cristo, continuate a cercare le cose di sopra, dove il Cristo è seduto alla destra di Dio. Tenete la mente rivolta alle cose di sopra, non alle cose della terra. Poiché voi moriste, e la vostra vita è stata nascosta col Cristo unitamente a Dio. Quando il Cristo, nostra vita, sarà reso manifesto, anche voi sarete resi manifesti con lui, in gloria" (Col. 3,1-4).
Questo significa che la chiesa descritta in Colossesi non è un'istituzione umana, temporale; essa è divina, celeste. Ogni perplessità viene chiarita dal linguaggio della lettera agli Efesini, dove è detto che Dio "ci ha resi viventi insieme a Cristo e ci ha destati con lui nei luoghi celesti in Cristo Gesù" (Ef. 2,5-7). Quindi, qualsiasi cosa l'apostolo Paolo pensi della chiesa, a prescindere dal senso di comunità locale, egli la considera un'istituzione celeste (Ef. 1,3.22-23). E' a questa "chiesa come realtà celeste" che Paolo si riferisce quando fa uso di metafore descriventi la chiesa come un'estensione del Cristo stesso (1°Cor. 6,15; 12,27; 2°Cor. 6,15; Ef. 2,19-22; 5,21-27.29-30). Parlare in questo senso di chiesa come realtà celeste difficilmente potrebbe equivalere a chiesa universale, cioè un'organizzazione religiosa internazionale sotto la direzione di un'amministrazione umana (Gal.4,25-27; Fil.3,20-21) [6]. Comunque, trascorso il periodo apostolico, caratterizzato dall'attesa per l'imminente avvento del regno di Dio, subentrò il periodo dell'espansione del cristianesimo in cui acquisì particolare rilievo la necessità di conservare intatta la testimonianza apostolica.
Nel successivo sviluppo storico i vescovi s'imposero rispetto ai profeti, ai maestri e ad altri detentori di carismi, in qualità di unici direttori delle chiese locali.
Successivamente si andò affermando l'episcopato monarchico di un solo vescovo che dirigeva le chiese di un intera regione e s'instaurò in maniera definitiva la separazione tra clero e laicato. Per quanto riguarda il Cattolicesimo, va notato che non si può sostenere con fondatezza storica che i vescovi siano in senso diretto ed esclusivo i successori degli apostoli. Infatti, in qualità di inviati di Gesù Cristo e di primi testimoni diretti, gli apostoli non potevano avere, in linea di principio, successori in grado di sostituirli e rappresentarli in tale funzione.
Per l'individuazione di una chiesa veramente cristiana, è opportuno ribadire che non è determinante la dimostrazione d'essere i continuatori della tradizione apostolica, ma è fondamentale l'adempimento, il servizio praticato ad imitazione dei fondatori delle prime chiese (Lc. 22,32). Nel corso della storia si sono affermate varie denominazioni religiose, ognuna delle quali ha sviluppato le proprie caratteristiche: i Cattolici hanno il papa, gli Ortodossi orientali prediligono la "tradizione", i Protestanti hanno sostituito all'autorità del papa quella di un libro, la Bibbia.
Quando le denominazioni diventano esclusive si verifica ciò che accadde a Corinto: "purtroppo alcuni della famiglia di Cloe mi hanno fatto sapere che vi sono litigi tra voi. Mi spiego:uno di voi dice:<Io sono di Paolo>; un altro:<Io di Apollo>; un terzo sostiene:<Io sono di Pietro>; e un quarto afferma:<Io sono di Cristo>." (1°Cor. 1,11-12). Dimostrando grande imparzialità, Paolo trascurò anche i suoi estimatori per rendere il dovuto onore solo a Dio (1°Cor.1,30-31). Una chiesa veramente cristiana dovrebbe avere la consapevolezza della propria provvisorietà in vista del decisivo avvento del regno; non dovrebbe atteggiarsi a comunità di unici puri, eletti, asceti, isolati dal mondo, perché con tale atteggiamento si diventa insensibili, presuntuosi, disumani.
E' pure importante che la chiesa non sia intesa come uno strumento di semplice socializzazione, chi assume questa veduta impoverisce la propria dimensione spirituale e si intiepidisce (Apocalisse 3,16). Senza fede in Dio è impossibile che nasca una comunità con saldi principi morali perché, per usare le parole di C.G.Jung, "l'individuo che non è ancorato a Dio, non sarà in grado di resistere al potere fisico e morale del mondo basandosi soltanto sulle proprie opinioni personali. A tal fine l'uomo ha bisogno della testimonianza della sua esperienza interna, trascendente, che sola può difendere dallo scivolare, altrimenti inevitabile, verso la massificazione"[7].
Se intendiamo prendere a modello il concetto paolino di chiesa, dobbiamo ritenere che storicamente quell'idea s'identifica nel "principio congregazionalista" delle comunità cristiane. Ciò significa che la chiesa dovrebbe tenere nella dovuta stima i "doni" presenti in ciascuno dei membri e farli fruttare per la reciproca edificazione (Gal. 5,1).
1 Si veda, per esempio, Cirillo Alessandrino citato da John N.D.Kelly, Il pensiero cristiano delle origini, Bologna 1972, p.499.
2 Hans Kung, Essere cristiani, Mondadori Oscar 1979, p.549.
3 Ibidem, pp.555,558.
4 Si vedano i casi di Pietro in Atti 10, di Paolo in Galati 2, di Agabo in Atti 11,28, delle figlie di Filippo in Atti 21,9.
5 La Didaché o Dottrina dei dodici apostoli è un documento che risale all'ultima parte del primo secolo o alla prima metà del secondo.
6 Si veda anche Didaché 9,4; 10,5.
7 C.G.Jung, Civiltà in transizione: Dopo la catastrofe., Boringhieri 1986, p.113.