di Luigi Cherubini
Pare che fu un certo cardinale Lodovico Scarampi vissuto intorno alla
metà del Quattrocento a introdurre a Roma le grandi cacce. Un gustoso
trattatello edito nel 1540 ci parla delle cacce nella campagna romana.
L'autore, tale Domenico Boccamazza, non parla per sentito dire: era il
capocaccia di Leone X de' Medici, grande amante dell'arte venatoria. Si
cacciava in due modi, ci informa, "scampagnando", cioè
correndo la campagna con cavalli e mute di cani, oppure da fermo, vale a
dire con dei campi "apparecchiati" secondo la moda francese
delle "tele", sorta di reti particolarmente adatte
all'uccellagione.
I cervi e i cinghiali già allora scarseggiavano? Ecco allora Papa Leone
riservare a sé e alla sua corte un'enorme fetta di campagna, la più
ricca di selvaggina, dalla Storta sulla Cassia al Tevere fino alla foce
e da qui lungo il litorale fino all'Arrone. Al centro di quella bandita
di caccia c'erano il
casale della Magliana
e il castello di Palo, padiglioni prediletti dal Papa.
Piccoli passatempi inframezzavano la caccia. Come la
"gazzarra", ossia una voliera non solo di gazze, ma di
palombi, aironi e altri volatili che venivano fatti volare per darli in
preda ai falconi e agli astori e godere così dello spettacolo. Allo
stesso modo veniva aperta la conigliera per far predare quelle bestiole
dai furetti, sorta di donnole che hanno per istinto quello di scovare e
uccidere i conigli. Tutti i gusti sono gusti!
Ma il vero spettacolo era la caccia. Non bisogna credere che Leone vi
prendesse parte attiva, inseguendo e uccidendo le fiere egli stesso. Si
contentava di dare il segnale d'inizio della battuta e di assistervi da
una loggetta del castello o da un baldacchino, sempre colla lente
all'occhio, senza la quale era quasi cieco. Così, al suono di trombette
e di corni un esercito di cavalieri, falconieri, battitori,
palafrenieri, partiva per i boschi insieme a falangi di cani. Tra
bracchi e levrieri, solo quelli del Papa, ammontavano a 60, 70, senza
contare quelli dei cardinali e degli altri gentiluomini. Avevano un che
di eroico e di grandioso, le grandi cacce. Vi partecipavano giovani e
ardimentosi esponenti delle maggiori famiglie d'Italia. Erano fatte di
mille episodi che poi, a fine giornata, venivano riferiti a corte
suscitando, a seconda dei casi, risa o ammirazione. Erano ammirati la
destrezza e il coraggio di chi affrontava grossi e inferociti bestioni
come i cinghiali; errori, esitazioni o peggio la goffaggine e la
codardia non erano perdonati.
E se volete il resto...