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Del repubblicanesimo
note per un dibattito europeo

Maurizio Viroli nel suo ultimo libro, Repubblicanesimo, edizioni Laterza, ha mirabilmente sintetizzato i lineamenti di una tradizione, coniugandoli con istanze concrete, vicine, europee, nazionali e internazionali, spesso da noi sollecitate su queste stesse pagine. Si tratta di un percorso di lunga gittata, sviluppatosi in ambiti culturali diversissimi in tempi e luoghi lontani, non riconducibile (per fortuna, ammonisce egli stesso) a "un corpo dottrinario sistematico", né a un unico interprete messianico, seppure i nomi di Machiavelli, di Tocqueville, Mazzini, Cattaneo ricorrano spesso, uniti a quelli dei principali interpreti e studiosi contemporanei del neorepubblicanesimo. L’obiettivo dichiarato è chiaro e ineludibile: costituire "la base di una nuova utopia politica capace di risvegliare quelle passioni da cittadini liberi che gli ideali politici che dominano la scena di questo fine secolo (...) non sono in grado di mantenere vive e tanto meno di far nascere." Il riferimento va, innanzitutto, sia al liberalismo che al liberismo, spesso inopinatamente confusi non solo nell’immaginario collettivo, ma anche presso gli addetti ai lavori, non si sa fino a che punto artatamente. Ma il discorso è rivolto pure alle varie forme di socialismo: democratico, liberale, ecc. e alle diverse versioni del comunitarismo.

Il repubblicanesimo si differenzia sostanzialmente in vari punti da tali visioni della politica che pure stanno dominando questo scorcio del millennio. La sua storia, lunga molti secoli, costituisce un viatico e un’opportunità a condizione che le tensioni ideali che da essa emanano siano rielaborate e rivissute nell’atto della ri-costruzione della società. Si tratta dunque di un grande progetto culturale, politico, sociale che è stato abbozzato e che rivendica grande attenzione in Italia, in Europa, nell’Occidente intero e nel resto del mondo.

Il repubblicanesimo si coniuga, inoltre, esemplarmente con le teoriche della virtù repubblicana, della responsabilità civile, come premessa per l’esercizio della libertà, del patriottismo, nettamente distinto dal nazionalismo, dell’europeismo che tende all’Europa dei cittadini, dell’ethos civile che dovrà segnare la società democratica multiculturale, pena rischi gravissimi per la stessa identità delle nostre comunità, con le unioni sovranazionali che interessano solo i potentati, anziché proporsi come mezzo per connotare i popoli e consentire una convivenza pacifica nella salvaguardia delle rispettive identità.

Ora un punto interrogativo s’impone: riteniamo che questo repubblicanesimo, declinato da Viroli e, sotto molti punti vista, "praticato" anche dalla nostra rivista in questi anni sia conciliabile col mazzinianesimo? Fino a che punto? Con quali conseguenze?

Carte in tavola. È ovvio che chi scrive queste righe ritenga il messaggio storico mazziniano non solo conciliabile col neorepubblicanesimo, ma addirittura, sotto molti aspetti, sovrapponibile ad esso, sia a livello di prassi, sia a livello di elaborazione teorica. Una convinzione che si è rafforzata, mese dopo mese, nelle lunghe ore trascorse con Viroli a riflettere sui punti cruciali che legano il mazzinianesimo con la storia lunga del repubblicanesimo, con la prassi della democrazia, della libertà, del socialismo mazziniano o associazionismo, fino, appunto, alle moderne teoriche del neorepubblicanesimo. Rinfrancati dai sempre proficui e stimolanti incontri con Giulio Cavazza, dalle discussioni e dal confronto, sulle pagine di questa rivista e altrove, con gli amici e gli studiosi, anche giovani, in questi ultimi anni abbiamo ribadito e chiarito che le culture locali e nazionali, spesso, esprimono dei bisogni, a volte si presentano come nuove forme di aggregazione, promuovono istanze, dopo l’epoca del comunismo, che tendeva ad avocare a sé diversi rivendicazionismi. Ancora: si sono poste come luoghi della partecipazione (era, ed è questo il senso del nostro federalismo possibile, che non ha nulla a che vedere con il separatismo), in risposta a una globalizzazione che tende a porre in discussione gli stessi mezzi della democrazia, fino a svuotarli dei loro contenuti di fatto. Pensiamo a uno stato sovrano che decida di far sorgere una centrale nucleare a poche decine di chilometri dai confini di un paese che abbia scelto di non rischiare col nucleare; oppure guardiamo alle grandi imprese economiche, che scavalcano sistematicamente e disinvoltamente i confini (e le leggi) dei singoli stati e dei continenti, mentre il popolo viene chiamato a decidere ancora in ambiti comunali, regionali e statali. L’europeismo e l’euroatlantismo, visti sotto queste prospettive, non costituiscono solo un obiettivo da cogliere, ma ormai una necessità se si vuole salvare il metodo democratico, rinnovandolo su scala mondiale. Ma l’Europa non può essere costruita solo dalle banche o comunque imponendo vaghi universalismi alle culture nazionali; deve nascere dalla libera unione di popoli, che, prima di tutto, hanno coscienza della loro identità, amano e rispettano le loro tradizioni civiche e, attraverso questa pratica, rispettano, comprendono e cominciano ad amare le culture degli altri popoli. Non è pensabile una vera unione sovranazionale senza una contemporanea valorizzazione del tessuto connettivo micro-sociale, costituito da imprese medio-piccole, cooperative, comuni, associazioni e quant’altro serva a riportare la dimensione "globale" a una misura umana.

Naturalmente, perché ciò sia possibile, almeno come tendenza, occorre battere una concezione che vede la politica come tornaconto individuale o al servizio di interessi particolari e di gruppi. Non è praticabile nessun "passaggio etico" se non viene stabilito un chiaro rapporto tra libertà individuale e libertà comune, attraverso il rafforzamento dei meccanismi che garantiscano l’universalità delle leggi (e non le leggine, espressione di piccole consorterie), l’indipendenza dei tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), e così via.

I meccanismi di selezione della classe dirigente, consentono poi la scelta dei migliori? O non sta prevalendo, piuttosto, una concezione meramente neocontrattualistica, per cui il politico finisce per legarsi indissolubilmente ai gruppi che lo eleggono, impegnandosi ad ostacolare ogni iniziativa che non sia in sincronia con gli interessi dei suoi grandi elettori? In tal modo più che la democrazia si esercita la sua pantomima; il livello di frammentazione tende all’infinito, perché ogni gruppo economico, sociale, culturale tenderà a farsi "tutelare" dal "suo" rappresentante, vincolandolo in nome di bisogni immediati, di interessi specifici e allontanando praticamente dalla politica tutti gli esclusi. Ampi strati popolari che non hanno avuto la forza o l’opportunità di incidere rischiano la vessazione, la solitudine, l’abbandono, la riduzione a uno stato di perpetuo servilismo in attesa della benevola munificenza del "neosignorotto" di turno. Non c’è sistema elettorale proporzionale o maggioritario che sappia correggere queste incongruenze se, a monte, non si ri-stabilisce un’etica, la pratica di una virtù (repubblicana). Corruzione, vuoti di rappresentanza scaturiscono anche da queste situazioni, da cui può derivare che qualche cittadino "potente" possa ergersi sopra le leggi, magari da lui stesso votate, o possa infrangerle impunemente. Ma nessun problema di ordine pubblico potrebbe essere risolto in uno scenario che presentasse queste premesse, perché le leggi o valgono per tutti o non valgono per nessuno. Il mondo repubblicano e mazziniano ha le idee chiare in proposito. Può dirsi altrettanto per la gran parte della classe politica italiana? E di quella europea?

Il neorepubblicanesimo, quindi, in questi anni, ha teso ad analizzare i problemi di fondo della nostra società, operando, contemporaneamente, a livello propositivo e a livello storico, cosciente della interazione continua tra spazi, tempi e tra passato e futuro.

Si è assistito, inoltre, a un curioso rimescolamento delle carte. Si sta sovente invocando un’ampia libertà per coloro che già ne godono e ne hanno sempre goduto: libertà di impresa, fino al quasi monopolio, libertà dai lacci statali, libera concorrenza fra i lavoratori (meritocrazia), libertà di istituzione di scuole private, ecc. Se poi spingiamo l’analisi più nel dettaglio è agevole notare che spesso, dietro alla libertà di impresa, si è nascosta l’assistenza sistematizzata dello stato alle imprese, dietro alla libertà delle scuole si cela la richiesta di un finanziamento pubblico alle scuole private, dietro alla flessibilità e alla mobilità del lavoro si nasconde, sovente, una minor tutela del lavoratore. Il tutto in formato sovranazionale, mentre il singolo cittadino è ancora confinato entro la ragnatela di una burocrazia spesso asfissiante, certamente anacronistica e grottesca nell’epoca del computer. Si è rinnegato, giustamente, il comunismo, si è parlato, con sprezzo, di società socialistoide, invocando più libertà. Ma siamo sicuri che alle centinaia di migliaia di disoccupati, alle centinaia di milioni di poveri che premono alle nostre frontiere interessi questo concetto di libertà? Una libertà legata all’avere più che all’essere, finisce per non tenere in alcun conto la giustizia sociale, così come si cura solo formalmente della rappresentanza, privilegia la "non interferenza" e qui si ferma, senza alcuna cura per le questioni sociali lasciate sovente in balìa del volontarismo elevato a sistema, dell’assistenzialismo generatore di dipendenze gravissime, se consente un controllo dall’alto su vasti strati della popolazione, indirizzata dal bisogno. In effetti oggi sono davvero oppressive certe caratteristiche della burocrazia evocanti i "fasti" del socialismo reale, ma che in Italia hanno origini che risalgono almeno allo stato papalino. Una situazione però, a ben pensare, di comodo proprio per potenti, i gestori del potere; umiliante per i cittadini trasformati in sudditi. Nel contempo, la macchina burocratica si inceppa, paradossalmente, verso l’alto: la nebbia costituita dalla miriade di leggi che ci affligge avvolgendoci in un manto da cui sembra davvero arduo, anche per i meno sprovveduti, districarsi, pare improvvisamente alzarsi di fronte alla "libertà" di qualche grande industria, di qualche intoccabile. E allora notiamo che la "libertà" di guardarsi una partita di calcio o un film porno (che ogni dittatore peraltro può tranquillamente garantire perché aiuta a "mantenere l’ordine") non può essere barattata con l’arbitrio di qualcuno. Il grande bluff del gioco della democrazia, ormai svuotata dei suoi contenuti essenziali, si perfeziona dunque con un motto, "libertà per tutti" che, anziché diffondere libertà e creare condizioni di libertà, favorisce pochi privilegiati, finisce per opprimere ulteriormente i deboli e, aggiungiamo, si esalta nella retorica comunitaria, allorquando diventa esaltazione di una razza specifica.

Noi che non siamo, e mai siamo stati, comunisti, abbiamo il dovere di indicare agli intellettuali, alle forze politiche, ai cittadini la via del repubblicanesimo, che è insieme un percorso culturale e una prassi. In questo momento, in Italia e in Europa , questa teorica non ha uno specifico ed esaustivo riferimento partitico, ma anche alla luce delle considerazioni che abbiamo svolto, si differenzia e si pone oltre i limiti del liberalismo, del socialismo e del comunitarismo. Per questo non condividiamo affatto la manichea e strumentale alternativa proposta da Marcello Veneziani in Comunitari o liberal? (Edizioni Laterza). Abbiamo criticato negativamente il finto liberismo di una vasta fascia della destra che non può fare a meno dell’assistenzialismo, statale e non, ma neppure comprendiamo la ginnastica dei post-comunisti che vogliono trasformarsi in pochi mesi in liberal, rendendo omaggio a un improvviso contagio da epicureismo benthamiano e finendo quasi per tradire una latente sindrome da orwelliana Fattoria degli animali. E poi siamo davvero sicuri che, con la scomparsa del comunismo, siano superate le contraddizioni sociali e le crisi di valori che il socialismo, pur con forme che sovente non condividevamo, ha denunciato nel corso di un intero secolo? Il repubblicanesimo mazziniano aveva sovente segnalato gli stessi problemi, con analisi altrettanto serrate rimaste sovente lettera morta per eventi della storia che in questa sede non è possibile ripercorrere e anche per negligenze organizzative, per mancanze dei repubblicani stessi. Ma ora, perché non attingere da quel patrimonio? Perché precipitarsi tra un liberalismo che non basta, un liberismo che favorirebbe solo i già ricchi, un comunitarismo che potrebbe far riaffiorare nuovi totalitarismi? Ci spieghino il senso sociale di questo continuo ondeggiare tra una "libertà televisiva", una comunicazione che avviene per spot, una soluzione dei problemi economici che avviene con le rapine o con le elemosine. Sono questi gli interrogativi che ci sentiamo di porre agli altri.

Per noi la stessa consapevolezza di qualche anno fa: la coscienza che questi temi di fondo, possono essere affrontati unitamente dal repubblicanesimo, oltre la diaspora provocata da carenze ideali, da pochezza dirigenziale, da ambizioni e carrierismi ma non da mancanza di potenzialità, proprie del repubblicanesimo, che sta vivendo una nuova, straordinaria fortuna sul piano degli studi e dell’attenzione dei maggiori intellettuali del mondo.

Sauro Mattarelli