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Fa discutere il nuovo libro di Norberto Bobbio e Maurizio Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, appena uscito per i tipi di Laterza.I due studiosi, uniti dalla passione civile e dalla preoccupazione per il future, hanno discusso, in una serie di Conversazioni che si sono svolto tra l'agosto e il dicembre del 2000, alcuni grandi temi politici, e si sono interrogati sulla fede religiosa, sul significato della vita e della storia, sulla ragioni e i limiti dell'etica laica.
I lettori di Tigullio Repubblicano conoscono Maurizio Viroli sia per i suoi testi, che vi appaiono regolarmente, sia per la sua attività come presidente dell' Associazione Mazziniana Italiana. Noi, questa volta, crediamo di fare una cosa gradita riproducendo di seguito ampi stralci del settimo capitolo. Riproduciamo anche due articoli apparsi, lo stesso giorno (1 giugno 2001) su due quotidiani completamente diversi: la Stampa di Torino, e l' Avvenire.
Naturalmente la presentazione e il taglio degli articoli è differente, eppure entrambi testimoniano una attenzione
ai problemi di una società oderna che merita rispetto.


 (Viroli) Un dialogo intorno alla repubblica che si rispetti non può non toccare i mali che affliggono la nostra vita civile e, se possibile indicare qualche rimedio. Seguendo l'insegnamento dei classici mi sembra che la minaccia più seria alla sopravvivenza di una repubblica democratica sia sempre venuta delle fazioni, intese come gruppi di uomini fedeli a un capo che hanno quale fine principale quello di ottenere vantaggi e privilegi. Ciò che rende pericolose le fazioni è che esse perseguono vantaggi e privilegi e che i suoi membri sono leali a un capo. Nella realtà odierna mi pare che si assista a un ritorno delle fazioni nella forma dei "partiti personali", come tu li hai definiti, e soprattutto nella forma del "partitone personale", ovvero l'organizzazione politica di Forza Italia.

Francesco Guicciardini, che di politica se ne intendeva, ha scritto che "mutati solum e visi delli uomini et e colori estrinseci, le cose medesime tutte ritornano; né vediamo accidente alcuno che a altri tempi non sia stato veduto.Ma el mutare nomi e figure alle cose fa che soli e prudenti le riconoscono: e però è buona et utile la istoria, perché ti mette innazi e ti fa riconoscere e rivedere quello che mai non avevi conosciuto né veduto". Proviamo a essere prudenti e cerchiamo di capire quale fenomeno politico già visto si nasconde sotto il nuovo nome e sotto i nuovi colori dei partiti personali e di Forza Italia?

(Bobbio) Quando parlo di "partito personale" intendo sottolineare il partito creato da una persona in contrasto con il partito in senso proprio, che consiste per definizione in un'associazione di persone. Il partito personale è cosa diversa dal fatto che i partiti hanno un leader o dei leader. Tutti i partiti, come ha spiegato Roberto Michels, hanno un leader. Tant'è vero che un partito che non ha un leader ma più leader è considerato un partito anomalo. La Democrazia cristiana, che è stato un grande partito e come tale ha dominato per anni la vita politica italiana, ha sempre avuto tanti leader. Per questo era giudicato anomalo. Ma il partito di norma ha un leader. Pensa a Nenni nel Partito socialista, a Togliatti e poi Berlinguer nel Partito comunista, a Ugo La Malfa nel Partito Repubblicano. Un partito non può vivere senza leader. Ma tanto Forza Italia quanto il partito di D'Antoni, per citare l'ultimo nato, sono una cosa ben diversa dai vecchi partiti con il loro leader.

I partiti che tu haì nominato avevano un leader, ma non vivevano per il leader e in virtù del leader, tent'è vero che hanno conosciuto nella loro storia più di un leader. Nei caso dei partiti personali il partito vive per il leader e in virtù del leader fondatore. E' sempre azzardato avventurarsi in previsioni, ma credo proprio che in questi partiti se scompare il leader scompare anche il partito: se Berlusconi uscisse di scena, credo proprio che Forza Italia si dissolverebbe come neve al sole o si scinderebbe in diversi partiti. Nei partiti tradizionali la scomparsa del leader non metteva in pericolo resistenza del partito. Questa differenza si può spiegare tenendo conto del fatto che i vecchi partiti avevano, oltre al leader, un'ideologia, delle memorie e delle strutture organizzative consolidate.

Il partito dì Berlusconi è un partito personale in senso proprio, in quanto non è un'associazione che ha creato un capo, ma è un capo che ha creato l'associazione.

Per questo è diverso la natura della lealtà che lega i militanti e i membri del partito al leader.

Berlusconi si rende perfettamente conto che un partito personale non può vivere a lungo. Per questa ragione egli sta trasformando il partito, cercando di radicarlo nel territorio. Mentre i vecchi partiti di massa hanno cessato di essere tali, il partito personale potrebbe diventare un partito di massa nel senso tradizionale della parola.

Ma Forza Italia, per non parlare degli altri partiti personali, manca tuttavia l'ideologia, almeno per ora, per diventare più simile al partito tradizionale. Per ideologia intendo un insieme di princìpi condivisi, una qualche rappresentazione del futuro e del passato.

Credo che un'ideologia Forza Italia l'abbia. Magari è un'ideologia soltanto negativa, l'ideologia dell'antistatalismo in contrapposizione allo statalismo che Berlusconi imputa a tutta la sinistra. Un'ideologia antistatalista in nome del mercato che pur se negativa fa presa, anche perché Berlusconi identifica lo statalismo con il comunismo ed è riuscito a persuadere che l'Italia, poiché è stata statalista, è stata comunista. Il che significa che per liberare l'Italia dal comunismo bisogna liberarla anche dallo statalismo.

I vecchi partiti avevano una galleria degli antenati, avevano un passato. Potevano invocare una tradizione alla quale si appellavano nei momenti di difficoltà, per ritrovare la fede perduta, o per rinnovarsi in nome dei princìpi fondativi o per legittimare scelte di rinnovamento. Oggi non ci sono quasi più partiti importanti che possono esporre una galleria di antenati illustri, meno di tutti Berlusconi. Credi che cercherà in qualche modo di costruire una sua tradizione ideale e politica, magari prendendo a prestito figure di altri partiti?

Forza Italia è una reazione allo stato di cose esistente. Anche il fascismo fu un movimento nuovo, dichiaratamente nuovo, che nasceva come reazione nei confronti della realtà politica e sociale che si era creata negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Il partito che Berlusconi ha fondato è un partito nato per liquidare la prima Repubblica. Una d'elle ragioni della forza (e per me anche della pericolosità) di Berlusconi consiste nell'aver segnato una tappa nuova nella storia del paese: nell'essere e nel presentarsi come fondatore di un partito nuovo in contrapposizione ai vecchi partiti considerati decadenti, e che come i fascisti si presentavano nei confronti dei vecchi partiti dell'Italia liberale.

Mussolini si proclamava infatti nemico della democrazia decadente.

Mussolini considerava gli altri partiti dei partiti finiti, dei partiti che avevano esaurito il loro compito. Proclamava la necessità di un rinnovamento generale. La nascita di Forza Italia è in questo senso molto simile alla nascita del Partito fascista, nel senso, come ho spiegato, di partito nuovo. Anche se si definisce il partito della libertà, anzi, il centro di un Polo delle libertà, Forza Italia non si riallaccia affatto alla tradizione liberale italiana. Non ha nulla di simile al liberalismo di Einaudi, per citare il nome più significativo. Non ha neppure i caratteri del classico partito conservatore. Forza Italia è dunque un partito eversivo, e Berlusconi se ne rende perfettamente conto.

A mio parere il carattere eversivo di Forza Italia consiste nel fatto che si tratta di un partito fondato sulla lealtà incondizionata nei confronti del capo, non nei confronti di un'idea o dì un progetto, o di un'utopia che trascende il capo. Ho l'impressione che il dirigente locale, il raccoglitore di voti, il sostenitore di Forza Italia si senta leale a Silvio, non a un'idea.I dirigenti e i militanti del vecchio Partito comunista, o del Partito socialista o del Partito repubblicano erano impegnati primariamente a dìfendere idee e interessi, non a sostenere Berlinguer, o Nenni, o La Malfa.

Anche nei partiti della prima Repubblica vi eranò ovviamente fenomeni di lealtà clìentelare, soprattutto nella Democrazìa cristiana. Si parlava infatti, nel "gergo politico corrente e nel linguaggio politico più colto, di "fanfaniani", "demitiani", "andreottiani" e così via. Ma a parte il fatto che si trattava di più capi e non di uno solo, il carattere clientelare (nel senso classico: un potente che distribuisce favori ai "clientes" che si prostrano e offrono la loro lealtà) e personalistico della Democrazia cristiana (e in misura più o meno accentuata anche di altri partiti) era additato come un elemento di corruzione della vita politica italiana. Oggi, al contrario, l'opinione pubblica accetta senza sussulti l'esistenza di un grande partito personale che sì fonda sulla lealtà nei confronti di "un" capo. Accetta, come un dato normale un fenomeno politico che ogni persona che abbia un minimo dì coscienza civile dovrebbe guardare con la massima preoccupazione.

Berlusconi non solo ha fondato un partito personale; fa anche di tutto per accentuare il carattere personale di Forza Italia. Prova ne sia che esibisce ovunque la sua faccia. La sua faccia sempre sorridente sempre sicuro di sé, l'uomo benedetto da Dio, anzi, addirittura "l'unto del Signore", come egli stesso si è proclamato.

C'è un altro aspetto del partito di Berlusconi che presenta un'analogia significativa con i movimenti totalitari. Mi riferisco al fatto che la parola di Silvio è creduta come se fosse la parola profetica. Può proclamare le menzogne più ridicole ed essere creduto. Ha proclamato, e continua a proclamare che dal 1945 a quando egli è diventato presidente del Consiglio, l'Italia è stata governata dai comunisti, e ci sono milioni di italiani che gli credono e che hanno fiducia in lui.

La personalizzazione è tipica del capo carismatico. Mussolini è stato indubbiamente un capo carismatico. Quando si affacciava al balcone strappava l'applauso, dialogava con la folla. Teneva discorsi brevi, molto incisivi; e poi faceva domande alla folla, domande alle quali la folla doveva rispondere sì o no, secondo quello che era già previsto. Dialogava con la folla. Cosa che Hitler faceva in misura molto minore, perché stava molto più lontano, molto in alto rispetto alla folla. Era una potenza più celeste. Anche Stalin non ha mai avuto un rapporto diretto con il suo popolo; lo abbiamo sempre visto mentre assiste alla parata, militare, o nel grande balcone del palazzo di Stato, quasi sempre in divisa militare, insieme ai suoi capi. Stalin non ha mai fatto un discorso al popolo. Non lo vedi mai di fronte ai comunisti russi che lo applaudono. E' sempre glaciale. E' veramente il capo che viene dall'alto. L'ho sempre visto silenzioso, molto diverso, in questo, da Mussolini e da Hitler.

I leader del partito bolscevico erano grandi oratori; Stalin, al contrario, non teneva discorsi. I leader storici della Rivoluzione d'Ottobre si erano formati nell'ambìto del socialismo europeo, che fu fra le altre cose, una grande scuola di eloquenza. I leader e i militanti socialisti dovevano essere degli oratori capaci di spiegare la strategia politica del partito, ma soprattutto dì suscitare entusiamo, speranza, sdegno, ovvero le tipiche passioni rivoluzionarie. Lo stesso Mussolini si era formato alla scuola del socialismo. Imparò quando era socialista l'arte di entusiasmare una folla.

Quando diventò fascista usò la medesima arte per suscitare non più le passioni rivoluzione ma le passioni nazionaliste.

La rivoluzione richiede il gran demagogo. Max Weber distingueva tre tipi di capo carismatico. Il profeta religioso, il grande demagogo e il capo militare. Mussolini è stato soprattutto un gran demagogo. Stalin è stato soprattutto il capo militare, o almeno amava presentarsi come tale. Appariva sempre in divisa, e faceva bella mostra delle sue medaglie. Quanto al profeta religioso, lo era, in parte, forse Mao. (...)

Tornando al nostro leader carismatico, possiamo concludere che egli ha le caratteristiche del demagogo classico più che del profeta religioso, nonostante si sia proclamato "unto del Signore". Per essere riconosciuto quale profeta religioso, per persuadere che sei ispirato da Dio sono necessarie la condotta impeccabile e la santità della vita, come Savonarola. Credo, spero, che Berlusconi non riuscirà a persuadere di essere dotato di spirito profetico per la semplice ragione che gli manca appunto la santità della vita. Mi pare proprio che ci troviamo di fronte a un nuovo esemplare di demagogo oligarchico.

Se teniamo presente la tipologia weberiana, Berlusconi rientra nella categoria del demagogo.

Fa pensare a un altro grande demagogo, non oligarchico ma popolare, che si proclamò "l'uomo della provvidenza, l'uomo di qualità straordinarie che viene a redimere un popolo oppresso.

Un popolo che era caduto nelle mani dei comunisti.

Berlusconi suscita entusiasmo, non è un semplice raccoglitore di voti.

Non c'è dubbio che susciti entusiasmo. Lo si vede quando si presenta ai suoi seguaci, soprattutto nei teatri. Il cerimoniale, i gesti della mano, il sorriso con cui si presenta sono da capo carismatico. Sa ridere anche delle facezie dette contro di lui. Ha una sicurezza sconfinata. Può togliersi

da qualsiasi tipo di imbarazzo.

Quella di far ridere e di ridere con il popolo è tipico, ancora una volta, del demagogo e dell'adulatore.

Stalin per certo non faceva ridere. Mussolini aveva l'ironia volgare, sbeffeggiava l'avversario, enfatizzava le debolezze, soprattutto fisiche. Amava suscitare la risata volgare. I fascisti, in generale, amavano il turpiloquio. Non mi risulta però che Mussolini fosse un raccontatore di barzellette. Era piuttosto sarcastico nei confronti dei suoi nemici.( ... )

A me pare che la nascita e la proliferazione dei partiti personali che tu hai discusso ci faccia toccare con mano una delle promesse non mantenute della democrazia, ovvero la promessa che i cittadini, una volta ammessi a partecipare alla vita pubblica sarebbero diventati più consapevoli, più saggi, più responsabili, meno vulnerabili alle lusinghe dei demagoghi, insomma migliori, sia dal punto di vista intellettuale, sia dal punto di vista morale.

Dopo cinquant'anni di vita democratica dobbiamo a malincuore constatare che c'è stato non un progresso civico e morale, ma un declino. Tale declino è anche legato, ritengo, alla fine dei vecchi partiti. Con tutti i loro difetti, i vecchi partiti stimolavano un gran numero di uomini e di donne a uscire di casa e a prendere parte a riunioni. Abituavano ad assolvere alcuni doveri semplici ma significativo prendere la tessera, pagare la quota, partecipare al congresso, svolgere attività di propaganda, comprare il giornale (o abbonarsi), stare informati. Venuto e mancare questo tipo di scuola ci troviamo di fronte a una situazione a mio giudizio pericolosissima, in quanto abbiamo il demagogo oligarchico e la piazza vuota.

Un'altra minaccia seria alla democrazia oltre al demagogo, è il ruolo sempre più decisivo del denaro nella politica. Il denaro è infatti diventato uno dei fattori essenziali per vincere le elezioni e, più in generale, per ottenere consensi.

I voti, come qualsiasi altra merce, si possono comprare. Questa è la ragione fondamentale per cui il denaro può corrompe la repubblica. Chi ha più soldi ha più voti. C'è un parallelo continuo fra il mercato vero e proprio e il mercato dei voti. Anche le ideologie svolgono un ruolo importante, soprattutto quando si tratta di ideologie forti, come era quella del vecchio Partito comunista. Tuttavia non c'è dubbio che il denaro conta.Pensa agli Stati Uniti, dove i candidati alle elezioni vanno prima di tutto a cercare finanziamento.

A proposito degli Stati Uniti gli studiosi parlano di due campagne elettorali. La prima è la campagna elettorale che i candidati svolgono per trovare sostegni finanziari; la seconda è la campagna elettorale per conquistare i voti. Delle due campagne la prima è più importante della seconda. Chi vince la prima vince, quasi sempre, anche la seconda. Questo significa che nelle democrazie dominano i plutocrati e dunque diventano oligarchie. In un articolo che "La Stampa" ha intitolato efficacemente "Bush de' Medici", facevo notare che nella grande e consolidata democrazia americana una famiglia di magnati texani era riuscita, nel pieno rispetto della legalità costituzionale, a eleggere due presidenti della Repubblica nel breve volgere di dieci anni. Imprese simili, osservavo riuscivano alle potenti famiglie italiane nell'età dei principati, quando i Medici fecero sedere, dal 1513 al 1523, due membri della famiglia sul soglio pontificio. L'oligarca, e per oligarca si intende un uomo convinto che "coloro che posseggono le ricchezze sono anche bravissimi a governare ottimamente" ed è posseduto da una "bramosia di dominio che tende insieme a potenza e profitto" è di per sé pericoloso. Ma più pericoloso ancora è l'oligarca che è anche demagogo, che sa conquistare il favore del popolo con promesse di grandi beni presentate con parole "ben cucinate".

Questo problema che tu sollevi è molto serio. L'unico contraltare, inteso come forza propulsiva, che può contrastare la forza del denaro è la forza dell'ideologia come dimostra appunto l'esperienza del Partito comunista. Del resto, anche la democrazia cristiana, che aveva i forzieri pieni poiché era sostenuta dai ceti più abbienti, aveva una sua forza che non era soltanto economica.

Lo scenario che tu dipingi è dunque o denaro o ideologia; o il denaro che ti permette di comprare i consensi o l'ideologia che sostiene i militanti che a loro volta vanno a conquistare i voti.

In ogni caso il denaro ha sempre avuto un ruolo importante. La democrazia , sulla base del consenso. Ma come si ottiene il consenso? Da chi viene dato? In astratto il consenso dovrebbe essere una libera volontà che si determina in base ai programmi che vengono proposti. Ma è proprio così? Pensa alla possibilità di manipolazione del consenso attraverso programmi menzogneri. Pensa all'influenza che oggi ha la televisione sulla maggior parte delle persone, le quali non leggono i giornali e dunque non riflettono avendo un articolo sott'occhio sulle varie proposte. Pensa alla facilità con cui la televisione permette di ottenere consensi con brevi battute superficiali. La democrazia rimane certo basata sul consenso, ma non è un consenso basato sulla libera convinzione che i cittadini si formano ascoltando e discutendo con gli altri. Il consenso è manipolato, su questo non c'è dubbio.

Tuttavia, come ho spiegato altre volte, la democrazia non è il migliore dei beni, ma è il minore dei mali. In uno Stato di polizia è peggio. Chi detiene il potere non ha bisogno del consenso, gli basta la forza. Se cerca il consenso, lo fa attraverso elezioni che sono truccate e falsificate, come erano quelle che avevano luogo nei paesi comunisti, dove figurava che votava il 99 per cento delle persone, e il risultato era il 99 per cento dei voti al partito dominante. Erano tuttavia elezioni.

Ricordo che sotto il fascismo, nelle ultime elezioni che sono state tenute nel 1934, le elezioni del cosiddetto "listone" si votava sì o no. Le schede del si erano tricolori e si vedeva dal di fuori che erano diverse. Ricordo in proposito un aneddoto divertente che ha quale protagonista un mio amico carissimo, il conte Umberto Morra di Lavriano, amico di Gobetti e collaboratore della "Rivoluzione Liberale". Essendo antifascista si ritirò, beato lui, nella sua bella villa avita in una frazione di Cortona. Quando ci furono le elezioni di cui ti ho detto, lui andò a votare e il milite che prestava servizio al seggio si avvicinò e gli disse: "Signor Conte, mi perdoni, ma ho l'impressione che lei abbia votato la scheda sbagliata". "No, no rispose il conte con tutta calma - era proprio quella scheda che volevo votare. (...)