RICEVIAMO DAI
SOCI
“biblíon” giugno 2000 |
l’intercultura nella fantasia dei cineasti
di
CLAUDIA
MUSOTTO e
MANUELA VALENZA
Per affrontare in modo più originale il tema dell’interculturalità,
fenomeno che, espandendosi nella quotidianità, crea tensioni ma apre anche
nuovi orizzonti e nuove possibilità, ci è sembrato interessante partire dalla
visione di un film inglese attualmente proiettato nelle sale cinematografiche
italiane: “East is East”. Solo l’Italia tra i grandi paesi europei sembra
non essere ancora riuscita a trovare una strada cinematografica per portare
sullo schermo il problema della mescolanza tra le razze e i popoli, le
conseguenze cioè di quell’immigrazione che tanto agita i proclami dei
politici, che tanto alimenta la riflessione pedagogica, ma che non riesce a
coinvolgere la fantasia dei cineasti. Forse i nostri registi dovrebbero guardare
con occhio critico i risultati del cinema straniero per vedere come un problema
reale, quale quello dell’integrazione tra culture diverse, possa trovare la
via dello schermo riuscendo a coniugare profondità di analisi e intelligenza
spettacolare.
L’ultimo esempio è proprio “East is East”
(L’Est è l’Est) titolo enigmatico ispirato a una poesia di Kipling, che
racconta, nell’Inghilterra degli anni ’70, la battaglia che i figli inglesi
di una coppia mista, lui pakistano lei londinese, devono condurre per riuscire
ad affermare la loro libertà di scelta, che poi equivale al loro diritto a
considerarsi cittadini inglesi integrati, opponendosi così alle decisioni del
padre che non ha dimenticato la sua patria e vuole che i figli si sentano
pakistani. Alla base del film c’è una commedia, che ha avuto grande successo,
di Ayub Khan-Din, nella quale l’autore ha raccontato la propria esperienza di
figlio di emigrati. E proprio da qui nasce la comprensione per un padre manesco:
“Essendo stato il primo ad infrangere le regole tradizionali per aver amato e
sposato un’inglese, è come se volesse far scontare il suo “peccato” ai
figli, obbligandoli ad un’ortodossia insostenibile”.
Il film gioca abilmente con i luoghi comuni dello
“scontro etnico” offrendoci spunti di riflessione sul tema
dell’incontro/scontro tra culture: le lezioni di urdu e di Corano, la golosità
di salsicce e wüsterl, la circoncisione, il matrimonio imposto dal genitore. La
vita è un continuo compromesso per i sette figli di George Khan (il padre
interpretato da Om Puri), un orgoglioso pakistano proprietario di un negozio di
fish & chips. Meenah (la figlia, Archie Panjabi) è un maschiaccio che
preferisce giocare a football piuttosto che indossare un sari, Saleem (Chris
Bisson) è un hippie che finge di studiare ingegneria, assecondando i desideri
del padre, ed invece frequenta una scuola d’arte, Tariq (Jimi Mistry) ha il
batticuore facile e si è fatto la reputazione di Casanova locale frequentando
una londinese all’insaputa del padre, Sajid (Jordan Routledge), infine, non è
stato ancora circonciso. Per George Khan, invece, (Ghengis per i suoi ragazzi),
la vita è una battaglia sempre più dura per portare la famiglia a conformarsi
ai tradizionali valori pakistani, ma vive a Salfold, un sobborgo londinese
impregnato della cultura “free” dell’Inghilterra degli anni ’70. Persino
sua moglie Ella è inglese, nata nel Lancashire, ed i suoi figli hanno idee
personali in merito a come vivere la vita. E’ proprio quando essi cominceranno
ad opporsi alle piccole tirannie del padre che Ella sarà costretta a scegliere
tra l’amore per il marito e il diritto dei figli a trovare la propria strada
nella vita.
Con un matrimonio già disastrosamente fallito in
famiglia, il figlio Nazir (Ian Aspinall) ha abbandonato l’altare per diventare
stilista ad Eccles, George è intenzionato a riportare in riga gli altri figli
più grandi facendoli sposare con le figlie di Mr Shah, viste solo in fotografia
ad un incontro organizzato a Bradford (detta Bradistan per la forte presenza di
immigrati pakistani) dove quest’ultimo era titolare di una macelleria ed
orgoglioso proprietario di un’estesa tenuta.
East is East è, quindi, il racconto esilarante ma a
tratti anche doloroso di ciò che accade quando due culture si scontrano
all’interno di una famiglia: tra le mura della piccola casa Khan l’anarchia
scoppia giornalmente. E’ già dalle prime scene del film che si comincia a
percepire, anche se in modo ironico, l’inconciliabilità tra la cultura
inglese, fortemente interiorizzata dai ragazzi, e quella d’origine. Esso,
infatti, inizia con una processione, alla quale partecipano i sette ragazzi,
che, portando i simboli più significativi della religione cattolica (il
Crocifisso, la Madonna, etc…), si nascondono percorrendo per un tratto una
strada parallela, quando vengono avvertiti dalla madre che il padre, tornato in
città, avrebbe potuto vederli.
Già quest’episodio ci fa riflettere sulla
difficoltà della convivenza tra religioni diverse: l’instaurarsi di un
dialogo interreligioso è difficile e spesso ostacolato da vari fattori. Ciascun
gruppo, infatti, tende a considerare la propria religione come universale, unica
detentrice della Verità e mette in atto forme di resistenza all’omologazione
religiosa per evitare l’annullamento di tale aspetto della propria identità:
sono proprio queste esigenze di universalità e di “difesa personale” che
non permettono il confronto costruttivo tra religioni. La realizzazione di tale
dialogo, però, deve concretizzarsi in forme tangibili di confronto, di scambio
religioso e non limitarsi ad un’affermazione di principio; già la
Costituzione italiana all’art.3 dichiara che tutte le religioni sono
ugualmente libere davanti alla legge e che uno dei diritti fondamentali
dell’uomo è la libertà di religione, cioè il diritto di professare la
propria fede religiosa e di esercitarne in privato e in pubblico il culto, purché
non si tratti di riti contrari al buon costume (riti satanici ed esoterici, per
esempio), ma a nulla servirebbe tale affermazione se poi nella realtà non ci si
impegnasse al rispetto, alla tolleranza e alla valorizzazione della diversità
religiosa. L’ottica interculturale, però, non deve nascondere il patrimonio
spirituale di cui ciascuna religione è portatrice, ma piuttosto evidenziare i
punti di convergenza riguardanti le verità, la morale, il culto perché si
arrivi ad una stima vicendevole pur nel riconoscimento delle diversità.
Nel film, tale forma di dialogo interreligioso non è
presente poiché il padre costringe i figli a frequentare lezioni di Corano e di
urdu, loro lingua d’origine. E’ proprio la lingua una delle difficoltà
principali riscontrate dai giovani immigrati che tentano di inserirsi nel paese
ospitante e che crea confusione e straniamento rendendo difficoltosi i rapporti
comunicativi.
Infatti, entrando in contatto con un altro universo
linguistico, l’immigrato è portato a confrontare il familiare con il diverso,
il mondo materno con l’estraneo, e si sentirà sconfitto se, impaurito dagli
ostacoli e privo di supporti adeguati, rinuncerà a tale confronto. Molto
spesso, però, il senso di estraneità invoglia gli immigrati a rifiutare
persino la lingua materna percepita come estranea e minacciosa a causa di
vissuti emozionali. Imparare una lingua straniera, però, non è facile quando
si è in presenza di precarietà sociale e soprattutto quando la propria cultura
e la lingua originarie vengono svalorizzate. L’apprendimento della lingua del
paese ospitante, però, non può limitarsi soltanto ad una traduzione del
proprio codice linguistico ma deve anche consentire al migrante di esprimersi e
comunicare in un contesto linguistico diverso. Tutto ciò può essere facilitato
da contesti e mediatori positivi che gli permettano di raggiungere una vera
padronanza linguistica senza la quale frequenti sono i casi di insuccesso
scolastico tra gli alunni immigrati.
Per ovviare tale problema, però, non si deve attuare
un tipo di pedagogia compensativa, ritenuta valida intorno agli anni ’70, che
tentava di eliminare le competenze linguistiche nella lingua materna e le
carenze linguistiche nella lingua del paese ospitante attraverso la
realizzazione di corsi di L2, ma focalizzare l’attenzione sull’educando, con
i suoi bisogni, le sue esigenze, i suoi problemi realizzando percorsi formativi
che valorizzino entrambi i codici linguistici. Il soggetto migrante, infatti,
non deve rinunciare ai due mondi culturali che lo coinvolgono ma deve, invece,
assumere entrambe le lingue e le culture come proprie.
Rispetto a questo aspetto, spesso i genitori di
ragazzi immigrati tendono a proteggerli isolandoli dalla cultura del paese
ospitante vista come una minaccia per la loro cultura d’origine, quello che li
preoccupa, infatti, è il pensiero che i figli possano crescere “diversi da
loro”. Probabilmente è proprio questo che preoccupa il padre pakistano
impegnato a far apprezzare ai figli la loro cultura di origine. Uno dei tanti
segnali di insofferenza, anche violento, a tale atteggiamento si ha quando i due
figli maggiori pur scoprendo i preparativi del loro matrimonio, che il padre
aveva organizzato a loro insaputa, continuano a sottostare alle sue decisioni.
Si arriva così al fatidico giorno quando le future spose arrivano con i
genitori in casa Khan: è così che tra il comico e il tragico il padre deve
allargare i propri orizzonti, mandando a monte il matrimonio e scoprendo la vera
passione del figlio Saleem per l’arte.
E’ proprio questa scena “rivoluzionaria” che ci
ha portato a riflettere sul significato, a nostro parere simbolico, del parka
indossato perennemente dal figlio più piccolo Sajid, che copre spesso il volto,
quasi a voler nascondere la propria identità, con l’enorme cappuccio
strappatogli alla fine da uno dei fratelli durante il “trambusto
matrimoniale”. Accorgendosi della ribellione dei fratelli e della madre alle
imposizioni del padre, rifiuta il cappuccio quando il fratello scusandosi glielo
riporta: secondo noi tale rifiuto è sinonimo di presa di coscienza della
propria cultura, accettazione della propria identità e reazione inconscia alle
tirannie paterne finora sopportate.
Inizialmente dubitavamo della validità, ai fini
della relazione, della scelta fatta ma ci siamo rese conto di come il film per
quanto narri la storia di una famiglia pakistana, riguardi l’esperienza di un
qualsiasi immigrante, dell’attraversamento del mondo e del venire a contatto
con culture diverse. Abbiamo capito che non si tratta solo di un film sui
pakistani a Salford, ma che è un film sulle tradizioni familiari rispetto al
progresso, sui valori del passato rispetto a quelli dei giovani e, quindi, uno strumento originale ma
idoneo per riflettere sul tema dell’interculturalità.