EDITORIALE “biblíon”
giugno 2000 |
ANZITUTTO, UNA PREMESSA:
Ricordiamo Iqbal Masih
In questo terzo e, forse, ultimo editoriale –siamo,
infatti, a conclusione del triennio di Presidenza della Sezione palermitana
intitolata ad Iqbal Masih- vogliamo ricordare il bambino pakistano, divenuto, anche per noi, simbolo di un’infanzia
che deve sapere e potere rinascere:
Iqbal nasce nel 1983 e, all’età di soli quattro anni, viene venduto come
schiavo ad un fabbricante di tappeti, per la miserevole cifra di dodici dollari,
dal suo stesso genitore, per ragioni di mera sopravvivenza.
Per
Iqbal, questo è l’inizio di una schiavitù senza fine: gli interessi del
“prestito” dal padre ottenuto in cambio del lavoro del bambino non faranno
che accrescere il debito contratto. Picchiato, sgridato e incatenato al suo
telaio, Iqbal inizia a lavorare per più di dodici ore al giorno: ed Iqbal non
è che uno di quei tanti bambini che tessono tappeti in Pakistan; le loro
piccole mani sono abili e veloci, i loro salari ridicoli, e i loro diritti
calpestati: i bambini, infatti, non sanno neppure cosa possa significare
protestare.
Un giorno del 1992, però, Iqbal ed altri bambini, di nascosto dai loro
padroni, riescono ad uscire dalla fabbrica di tappeti, per assistere alla
celebrazione della giornata della libertà organizzata dal Fronte di Liberazione
dal Lavoro Schiavizzato. Forse per la prima volta, Iqbal sente parlare di
diritti e di bambini che, come lui, vivono in condizione di schiavitù.
Spontaneamente,
decide di intervenire nel dibattito e, così, racconta la sua storia: il suo
improvvisato discorso fa scalpore e, nei giorni successivi, viene pubblicato dai
giornali locali. Iqbal, insomma, ha preso coscienza e, dunque, è, finalmente
libero: decide, così, di non tornare più a lavorare in fabbrica e, aiutato da
un avvocato del Fonte di Liberazione che prende a cuore “la sua battaglia”,
scrive la sua lettera di “dimissioni” dal suo lavoro al suo oramai ex
padrone. Durante quella stessa manifestazione, Iqbal ha modo di conoscere Eshan
Ullah Khan, leader del Fronte di Liberazione, il sindacalista che rappresenterà
la sua guida verso una nuova vita in difesa dei diritti dei bambini.
Iqbal comincia, così, a raccontare la sua storia dai
teleschermi di tutto il mondo e diventa simbolo e portavoce del dramma dei
bambini lavoratori; è presente in molti Convegni internazionali, prima nei
Paesi asiatici, poi, a Stoccolma e a Boston:
«Da grande
voglio diventare avvocato e lottare perché i bambini non lavorino troppo», dirà
il piccolo grande rivoluzionario Iqbal, che comincia a studiare, senza mai interrompere il suo impegno di
piccolo sindacalista. Ma la storia della sua libertà è, purtroppo, breve: Il
16 aprile 1995 viene, infatti, assassinato; gli sparano un colpo di pistola a
bruciapelo, mentre, felice, corre in bicicletta nella sua città natale, Muridke;
era in compagnia dei suoi cugini Liaqat e Faryad.
«Un
complotto della mafia dei tappeti» dirà Ullah Khan, subito dopo il suo
assassinio. Qualcuno si era, certamente, sentito minacciato dall’attivismo di
Iqbal; tant’è che la stessa polizia fu accusata di collusione con gli
assassini: molti i dettagli di quella tragica domenica che sono rimasti, a
tutt’oggi, poco chiari
Con
i 15 mila dollari del Premio Reebok per la Gioventù in Azione, ricevuti nel
dicembre ‘94 a Boston, Iqbal voleva costruire una scuola, perché i bambini
schiavi, conquistata la libertà, potessero studiare…, per rafforzare sempre
più l’idea della libertà!
Ad Iqbal,
bambino coraggioso e martire della libertà, vogliamo dedicare questa nostra
pagina di riflessioni sul gioco e sui “luoghi” dell’educěre.
RIPENSIAMO I
“LUOGHI” DELL’ EDUCERE
Ogni
bambino ha, certamente, bisogno di spazi regolamentati da norme per lui adeguati
e ricolmi di oggetti –i
giocattoli, soprattutto- che affinino le ansie di conoscenza.[1]
Come ci ricorda Winnicott, il gioco riveste una particolare
importanza per l’evoluzione della relazionalità del bambino, dal momento che
permette di superare e risolvere il rapporto simbiotico con la madre ed
acquisisce la capacità di instaurare rapporti interpersonali: “il bambino
piccolo” –dice Winnicott- “stringendo ed accarezzando il suo oggetto amato
ammette e colma al tempo stesso lo spazio che esiste tra sé e la madre; così,
nei bambini più grandi, la separazione viene evitata, colmando lo spazio
potenziale con il gioco creativo, con l’uso di simboli, con tutto ciò che
alla fine porta ad una vita culturale”.[2]
Giocare
vuol dire per il bambino “crearsi uno spazio vitale che gli permetta di
sperimentare il suo mondo interiore, per approdare al mondo reale con una sua
interpretazione delle persone e delle cose. E crearsi uno spazio vitale vuol
dire anche pensare al suo rapporto con la città, il territorio, il quartiere:
cioè, al gioco e agli spazi dove poter esercitare il suo essere libero. Ciò
comporta l’elemento a rischio; ma il non fare per non rischiare non serve a
nulla e, d’altro canto, sarebbe del tutto inutile creare spazi di gioco
asettici, incapaci di soddisfare il bisogno di esplorazione. La sicurezza va
conquistata e cresce con il ripetersi dell’esperienza, ma soprattutto la
sicurezza viene al bambino dalla sua capacità di muoversi, di essere attento a
tutto ciò che lo circonda. Una certa quantità di rischio è indispensabile nel
processo di acquisizione dell’autonomia e dell’autostima del bambino. E la
famiglia, che rappresenta il contesto educativo di apprendimento relazionale
primario-affettivo e cognitivo (per l’interazione con le figure familiari di
riferimento), deve favorire lo sviluppo sociale del bambino.
Il
gioco caratterizza l’uomo in quanto animale culturale, sostiene Huizinga; lo
studioso, infatti, definisce la sua teoria con il concetto di cultura “sub
specie ludi”.[3]
Il
bambino ha necessità del gioco (play),
come divertimento, e del gioco (game),
come gara-partita. Prima, gli uni; poi, gli altri, secondo Bruno Bettelheim.[4]
Comunque, molto bene chiarisce Stephen Miller[5]
in Ends means and galumphing: Some leitmotivs of play, identificando in
galumphing il gioco come attività che intreccia libertà e regolamentazione
(termine Galumphing, che fu coniato da L. Caroll –da “to galop” e
“triumph” che, letteralmente, significano “ballare un galoppo in trionfo o
con esultanza”-. Poi, entrò nell’uso per indicare il correre qua e là e
con esultanza dei bambini). Insomma, la lezione più importante che si apprende
con il gioco è che il bambino impara a riconoscere le proprie azioni e
comprende che ogni oggetto possiede un significato. E’ come se L. Caroll
ripetesse il contenuto dell’Inno omerico su Hermes in cui si compenetrano
divinità (o senso del divino, delle regole) ed umanità (o senso del rischio e
dell’assenza, in quanto ricerca di regole).
Ciò,
fino ad ora, per dire che i luoghi devono essere sicuramente animati
dall’infanzia e dalle sue esigenze di attività conoscitiva, cioè da quelle
attività ludiche, che, certamente, manifestano la loro funzione gnoseologica,
come ci ha insegnato Fröbel.
Quale,
allora, la soluzione di carattere sociale? F. Tonucci risponde, per esempio,
affermando che bisogna ripensare i luoghi, assumendo il bambino come parametro.[6]
Lo
spazio formativo/ludico è condizione ed esito della scoperta del sé e
dell’altro. Il bambino, quindi, conquista la sua dimensione umana non appena
scopre se stesso e, con se stesso, necessariamente, l’altro. Non esistiamo,
infatti, che nell’incontro con l’altro da noi, e nel desiderio di rinnovare
con quegli l’incontro.
Il
problema è, allora, di scoprire un altro elemento importante quanto l’io e il
tu; e tale elemento è ciò che sta tra l’io e il tu, che noi chiamiamo lo
spazio formativo, relazionale, intersoggettivo, che è, appunto, la condizione
dell’incontro. Ciò affermiamo, per portare avanti il nostro pensare
l’individualità cerebrale[7]
come quel qualcosa che, modellabile, si trasforma proprio per il suo emergere
dallo stato di mera ludicità verso la dimensione dell’attività (ludica), che
esige la co-presenza di almeno due attori, due protagonisti, due giocatori. E,
per essere presenti, c’è necessità d’un luogo, ove l’io e il tu decidono
di ascoltarsi, cioè di riconoscersi a vicenda e di rispettarsi. Il luogo: là,
dove, finalmente, il nostro io esiste, perché grazie allo spazio-luogo –e non
allo spazio-specchio che “inganna” e nasconde la condizione della diversità-
noi vediamo, tocchiamo, sentiamo, ascoltiamo, odoriamo l’altro; e ci
accorgiamo della nostra diversità, che sarà, prima, apparente e, poi, sempre,
più concreta nel suo divenire diversità culturale e condizione, comunque,
dell’ incontro e della scoperta e della ricerca.
E, individuato, così, lo spazio inter-relazionale,
l’attività ludica è sempre più un progredire nell’incontro con l’altro:
un uscire continuamente dallo stato di minorità e/o costruire/perfezionare le
intelligenze multiple che caratterizzano ogni singola individualità.
Ignazio Licciardi
[1]
A tal proposito, però, è vero ciò che diceva Baudelaire e che leggiamo
nella sua Autobiografia: “ci sono dei genitori che considerano i
giocattoli come <oggetti di muta adorazione>. … Così, appena
l’amico di famiglia ha deposto la sua offerta nel grembiule del bimbo, la
madre feroce ed economica vi si getta sopra, lo mette in un armadio e dice:
<<è troppo bello per la tua età; lo userai quando sarai grande>>
… Un mio amico mi confessò di non avere mai potuto usare i suoi
giocattoli” (Autobiografia).
[2] Winnicott, Gioco e realtà, trad.it., Roma,
Armando,1993,p.56.
A
proposito della “distanza” che esiste tra due soggetti, crediamo sia
utile così schematizzare, per avere altri elementi di riflessione e per
tenere vivo il nostro argomentare:
INFANZIA→CREATIVITÀ→GIOCO/LAVORO
↓
NEOTENIA (MONTAGU)
INFANZIE→INDIVIDUO→INTELLIGENZA
↓
PLURALE
SOCIETÀ→POPOLO→CULTURA
PLURALE
CULTURE→occidentale→
↓
↓
↓
↓→ ”altre”→ |
puzzle GIOCHI tangram |
SPAZI FORMATIVI→MICROSPAZI (aule, …)
↓
→
MACROSPAZI (città, …)
ABITARE LA DISTANZA
{DISTANZA: luogo
dell’esercizio delle possibilità
(o dei poteri)}
QUALI SONO I LUOGHI |
Ludoteca/Museo dei bimbi/…/Città multiculturale abitata dai
cittadini, la cui cultura e intelligenze sono plurali. |
OMERO, Inno a Hermes –puer senex-:
INFANZIA tra
DIVINITÀ
(Possibilità realizzata)
UMANITÀ (Possibilità in attesa)
Da ciò: tra Divinità e Umanità →
DISTANZA:
“LUOGO”.
[3]
Huizinga, Homo ludens, trad.it. Milano, Il Saggiatore, 1972, I, p.20: egli
afferma che le caratteristiche dello spirito ludico sono: libertà,
isolamento dalla vita ordinaria, disinteresse, presenza di regole, tensione,
possibilità di buona o cattiva riuscita.
[4]
B.Bettelheim, a proposito del gioco, esprime anche un’amara verità, che
mette in risalto il difficile rapporto adulto/bambino. Dice B. Bettelheim:
“Certamente, i genitori sono felici, quando vedono i loro figli intenti a
giocare; ma lo sono altrettanto, quando si mettono a giocare con loro? Non
ci vuole molto ad un bambino per capire che il suo gioco è gradito al
genitore perché lo lasci libero di sbrigare le sue faccende senza sentirsi
in colpa se non si occupa del figlio. Il bambino impara così che quello che
conta per i suoi genitori non è il gioco che fa, quanto il fatto di non
essere loro di impiccio; questa amara lezione sminuisce ad un tempo il
bambino e il suo gusto di giocare, mentre compromette la funzione del gioco
nello sviluppo dell’intelligenza e della personalità” (B. Bettelheim,
Un genitore quasi perfetto, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1987, p.279).
[5] in “American Anthropologist”, n.75, 1973, pp.87-98.
[6] Cfr. il nostro I luoghi dell’<<educāre-educ?re>>, in “biblíon”, Dicembre 1999.
[7]“Kahneman
suggerì che esiste un elaboratore centrale per coordinare e distribuire le
nostre risorse attentive. Anziché un canale unico, che elabora una cosa
alla volta, si tratta di un insieme di risorse di elaborazione da spiegare
di volta in volta in modo flessibile. I fattori che determinano la
distribuzione delle risorse comprendono lo sforzo mentale richiesto e il
livello di attivazione psicofisiologica di una persona. Si notò che la
capacità attentiva era maggiore quando i livelli di attivazione erano alti.
Lo stato fisiologico di vigilanza di una persona dipende dal livello di
stimolazione dell’ambiente in un dato momento, dalla disposizione di base
di una persona, dai ritmi circadiani cioè dai cicli giornalieri di attività
del sistema fisiologico di una persona, dagli interessi temporanei e dalle
motivazioni stabili. Nella vita di tutti i giorni, quindi, i fattori interni
ed esterni influenzano l’orientamento della nostra attenzione” (T. Talim,
Processi cognitivi). E, poi,: “Il problema di mantenere per un lungo
periodo di tempo l’attenzione su qualcosa di noioso è ben familiare a
molti. E’ provato che la partecipazione ad un compito monotono è
accompagnata da un rendimento inferiore che peggiora con l’aumentare del
tempo di impegno. … La diminuzione di prestazione osservata da Mackworth
sembra collegata al livello di attivazione psicofisiologica dei partecipanti
cioè al grado di allerta degli individui: in termini fisiologici, esso
equivale al livello di attività cerebrale. Il grado di attività cerebrale
può essere misurato per mezzo di un elettroencefalogramma che rivela i
ritmi alfa (tipici di una persona rilassata) e iritmi beta (tipici di una
persona attiva) delle onde cerebrali” (ibidem).
Interessante,
inoltre, ricordare che “rispetto al comportamentismo, che riteneva
possibile spiegare ogni forma di comportamento nei termini di
stimolo-risposta, il cognitivismo ha proposto di svolgere le ricerche, più
che sul comportamento esterno, sui processi che avvengono all’interno
della mente, nonché sul modo in cui le informazioni vengono liberate. Il
movimento nasce ufficialmente nel 1967 con “Psicologia cognitiva” di
Neisser” (ibidem). Cfr., inoltre, di H. Gardner, L’educazione delle
intelligenze multiple, Milano, Anabasi, 199…, pp.79ss; Il bambino come
artista, trad.it., Milano, Anabasi, 1992,pp.200ss.