FARE SCUOLA   E  RICERCA

“biblíon”                                                                                                                                                            giugno 2000

 

Particolare finestra -prospetto principale- del R. Albergo delle Povere

 

 

 

 

 

La religione  nella sua dimensione culturale  e non dottrinaria.
di
Ignazio Licciardi

 

Le religioni, il cui campo specifico è l’aldilà, «hanno le loro basi sulla terra.  Esse avviano i fedeli verso il duraturo e l'infinito, ma vivono nel tempo e nello spazio.  Ogni religione ha la sua storia e la sua geografia».[1]  Bisogna considerare, per questo, la religione dal punto di vista culturale, in tutte le sue diversificazioni, come uno dei tanti possibili linguaggi educativi, che debbono interagire, in un ambito di produzione di cultura quale è la Scuola, per cogliere nella cultura religiosa la stretta appartenenza a quell'area disciplinare che, secondo noi, darebbe significato –nei sistemi formativi formali- a tutti i Programmi scolastici.

Certamente, i programmi di Religione attuali rendono un po’ difficoltoso questo accorpamento, ma, appunto per questa ragione, avremmo preferito, per esempio nei Programmi didattici del 1985 per la Scuola Elementare, una intitolazione sui generis di quest'area (per esempio: «Storia, Geografia e Studi sociali, Cultura religiosa e Beni artisti­ci»), perché, per noi, non avrebbero dovuto essere sottovalutate, per le loro essenzialità, le precisazioni di Gabriel Le Bras, le quali così si enucleano:

            «Ogni grande religione si stabilisce su un territorio dove innalza monumenti, ritaglia circoscrizioni, assoggetta popolazioni alle sue credenze ed ai suoi miti.  Essa subisce l'ambiente e lo modifica a mano a mano che diventa più forte.  Trasformazioni della natura, dell'amministrazione, della morfologia sociale: il geo­grafo è invitato a descrivere questo mondo delle apparenze.  Ma si limiterà a descrivere?  Tra le strutture materiali, giuridiche, mentali e il territorio che ne è il supporto, non c'è un rapporto causale?  Esse non sono rese possibili, favorite, suscitate dalla natura del terreno, dalle forme della vita economica e sociale che ne risultano, dalle suddivisioni politiche, da tutti quegli exteriora di cui geografia fisica e geografia umana, si dividono lo studio?  E viceversa, l'organizzazione canonica e spirituale della Chiesa non esercita alcuna influenza sulla terra su cui si diffonde?[2]

Evidentemente la religione, intesa nella sua dimensione cultu­rale e non dottrinaria - almeno nell'ambito della scuola pubblica, che è tale soltanto se è laboratorio di nuove produzioni conoscitive- ­è anch'essa, tra gli altri, uno dei linguaggi educativi essenziale alla crescita individuale e di gruppo di tutte le menti critiche.

 

  1.1.      La religione: uno dei linguaggi educativi.

E’ certamente utile, se non addirittura necessario, allora, consolidare la religione nell'ambito di tutte le discipline, per salvaguardare almeno l'unità del sapere in ogni singolo, e sempre unico, individuo e scolaro.  Il problema della relazionalità tra religione e tutti gli altri linguaggi educativi si definisce nell’intenzione di evidenziare la valenza pedagogica della religione e soprattutto delle religioni contemporanee, senza, per questo, trala­sciare le radici concettuali delle loro argomentazioni.  Anche la ricerca nella cultura religiosa, infatti, deve essere considerata disciplina che ricerca leggi e teorie definite -e non certamente definitive-.  Ed allora così come il sapere, in tutte le sue dimensioni e contingenze e per le sue implicite conflittualità, è in continua espansione, anche la religione - che è, come disciplina, momento culturale dell'uomo, nel senso che è manovrata dall'uomo nono­stante i suoi contenuti ed i suoi fini assolutamente particolari- ­non può essere, essa (nel senso che non può padroneggiare assoluta­mente e per sempre ed in una sua accertata dimensione),  tutto il sapere; sarebbe piuttosto il sapere di sé: ma così non potrebbe neppure dirsi disciplina al servizio dell'uomo. Ogni linguaggio, infatti, è sempre umano, dell'uomo, perché è dall'uomo costruito, perché - grazie ai definiti che va raggiungendo e superando o perfezionando costantemente - possa progredire nel futuro che non può che essere domani di ricerca e nella ricerca.

Il sapere umano, infatti, è sempre incompiuto e perciò anche mai interamente conosciuto.  Si vede, così, sempre più, che è necessario ricondurre tutti i linguaggi, e quindi anche la religione, «al loro valore ed al loro significato di strumenti per l'uomo, per evitare ogni caduta nello scientismo e nella metafisica (ovverosia nell'ideologia) e mostrare la costitutiva valenza politica [cioè socia­le, razionale e dunque pedagogica] della conoscenza scientifica o riflessa: la struttura deontologica dell'indagine sperimentale».[3]

Ma il problema è ora quello di indagare se la religione sia disciplina scientifica aperta alla ricerca continua ed al servizio dell'uomo e delle sue conoscenze ulteriori o debba essere considerata sapere già costruito e definito che deve servire pragma­ticamente a fini particolari che sfocerebbero nel rischio di una statica «violenza morale».

 

1.1.1. Funzione del testo sacro.

  Oggi, certamente, è evidente che anche la ricerca teologica dimostra di volere abbandonare quelle posizioni statiche apparte­nenti ad una metafisica stantìa per aprirsi con chiarezza e determi­nazione sempre più all'uomo, alla storia, ai laici, alle religioni, alla politica, alla cultura, alle altre Chiese, allo Spirito.[4] E la cultura religiosa, basandosi sulle ricerche teologiche ed antropologiche, è certamente occasione di indagine pedagogica ed è da annoverare tra quelle discipline che si sforzano, pure, di indagare nuove metodologie di avvicinamento e di comprensione dei testi.  Il testo sacro, infatti, è sicuramente un punto di riferimento costante per il teologo illuminato ed aperto a tutti i possibili linguaggi che le scienze gli propongono; e, dunque, esso - il testo sacro - non può essere considerato come semplice compendio di formule da adatta­re ad una realtà mutevole, piuttosto è parola, linguaggio che, nel suo esprimersi, nel suo farsi ascoltare, necessariamente, diviene, sia per la capacità di quel lettore particolare di quel momento, che per il convergere con tutti gli altri linguaggi.

Si va delineando, così, la scientificità dell’indagine teologica.  E così il docente di religione deve comportarsi da «ricercatore», nel momento in cui decide di operare per il mondo e nel mondo; e ciò avviene, perché questi, in tal maniera, ha individuato il suo compito, la sua funzione che è anche quella di dire «qualcosa di qualcosa»; non può egli soltanto attingere, indottrinarsi ed indottrinare: se tale fosse il suo proporsi, il suo comportarsi, ne risulterebbe falsata, annichilita l'immagine umana, perché ridotta ad un pezzo di un ingranaggio capace di trasmettere un movimento forse, ma inerte, statico, non dialogizzante, perché, esecutore sordo, che non sa ascoltare: ma l'uomo del dialogo è colui che sa ascoltare, nel senso che sa interpretare, per poter, poi, comunicare, trasmettendo la sua capacità di produzione.

«Il lavoro stesso dell'interpretazione - dice Paul Ricoeur- ­rivela un disegno profondo, quello di vincere una distanza, una lontananza culturale, di adeguare il lettore ad un testo divenuto estraneo»:[5] il testo, infatti, come la parola, il messaggio, la fonte, il dato, qualunque esso sia, deve essere considerato sempre estra­neo, perché lo diviene incessantemente, anche se è apparso, nel tempo, noto e trasmesso in quella sua definizione.[6]

 

1.1.2. Didakhé e kérygma.

Queste puntualizzazioni, per definire l'immagine di un costruirsi nel pedagogico della ricerca teologico-“religiosa” proprio attraverso la cultura della religiosità, che dovrebbe essere impartita presso le scuole di ogni ordine e grado, a cominciare dalla Scuola dell’Infanzia.  Cultura religiosa, pertanto, la quale, per dialogare con il mondo, vivendo ed edifican­do nel mondo il suo futuro - che è suo e dell’uomo - deve, da una parte, riascoltare il kérygma, l’annuncio, che si fa sempre estraneo per il mutare delle condizioni umane, ove il riascoltare si traduce immediatamente in un atteggiamento di comunicazione dialogica che consente, nel momento storico, di colmare la distanza del messaggio; e, dall’altra, deve sforzarsi di realizzare la didakhé, perché il kérygma possa servire come messaggio-filtrato dalle poten­zialità dell'uomo storicizzato.

Ciò, perché è pedagogicamente - cioè razionalmente ed eticamente- neces­sario che l'indagine teologico-teorica, sia essa linguistico-interpreta­tiva o non trovi immediatamente, nel medesimo istante del suo porsi teorico, il corrispettivo tangibile nella prassi del vivere rapportuale, facendosi cultura.

 

1.1.2.1. Il «teologo»: il filosofo della pedagogia dell'uomo.

Siamo, così, anche per la religione - come discorso che si preoccupa e si occupa dell'uomo che ricerca e, in questa dimensio­ne, che ricerca Dio e la Sua presenza che sempre più si allontana, per cui si giustifica l'atteggiamento umano del desiderium videndi Deum - siamo, appunto, nell'ambito di una pedagogia della cultura proiettata nel campo della educabilità dell'uomo che è capacità di processualità razionalizzante.  Intendiamo la ragione, infatti, tale che «si configura come processo di razionalizzazione, e la cultura -che non si pone mai come estranea antagonista della natura- come una zona a parte, che starebbe di fronte ad un'altra zona dell'espe­rienza, detta appunto natura, poiché la natura (fisica o sociale che sia) si fonda su quell'eterogeneo (materialmente oggettivo, ontolo­gicamente indeducibile come lo è ogni posizione assoluta d'esistenza), senza di cui la ragione non avrebbe niente da fare e quindi non avrebbe né realtà né significato.  Questo eterogeneo, che sta dentro alla ragione come funzione di organizzazione del moltepli­ce-diverso, è ciò che la cultura deve continuamente trasferire in apparati di simboli e di metafore, ma che, quindi, deve accogliere, e sempre vivere, e patire, per significare e ordinare e trasfor­mare, con quel lavorio sintattico che diciamo (in termini filosofici) conoscenza o (in termini antropologici, e più correttamente) inter­pretazione, cioè costruzione informatrice delle cose (e mai, delle cose, «definizione assoluta»!)».[7]

E’ sempre più chiaro, allora, che il messaggio e la spiegazione-­interpretazione-comprensione di esso fanno del teologo il filosofo della pedagogia dell’uomo, di questo uomo, che è essere che vive nella prassi e che riesce a penetrarla per la sua condizione di perenne tensione verso ciò che è superamento della prassi, di quella prassi sempre avvalorata dalla mancanza o assenza-presenza di un qualco­sa che sta sempre al di là, che sta sempre fuori.

E’, forse, così accertata la dimensione critica del procedere del discorso cultural-religioso a tal punto da scoprire in esso il suo senso prettamente pedagogico e nel suo manifestarsi come apertura all'uomo e ai suoi problemi?

«Ogni discorso sull'uomo nel mondo e quindi anche il parlare ispirato alla fede su Dio nella nostra vita terrestre, mira interna­mente a prolungarsi nell’indagine critica e nella riflessione, dunque, nel discorso scientifico.  Se si rinuncia al lavoro scientifico, si corre il grosso pericolo di cadere nel dilettantismo.  Il messaggio cristiano si rivolge d'altronde all'uomo intero, compreso il suo pensiero critico.  Per il Vangelo non si può, conseguentemente, riservare una zona di bonaccia nella quale non riesca a penetrare il pensiero critico».[8]  La cultura religiosa, allora, deve vivere nell’esperienza e con gli stessi atteggiamenti di ricerca adoperati da tutti i linguaggi disciplinari.  Privata dell'impatto con l'esperienza, diventerebbe un sapere compiuto e determinato, privo di realtà, per cui ci si potrebbe chiedere come può definirsi disciplina di studio un sapere che non ha a che fare con la riflessione critica.

Ma allora la religione, nel suo rifiutare la condizione di disciplina che parzialmente o assolutamente e totalmente avvince l’uomo - nell'un caso, sarebbe momento parentetico della vita dell'uomo, la quale è invece poliedrica presenza e allargantesi ai diversi linguaggi e proposte generative di cultura; e, nell'altro, apparirebbe dottrina annullatrice appunto, della poliedricità e del dinamismo dell'essere umano - deve imporsi come disciplina che acquista subito, nel mondo delle relazioni umane, la sua valenza pedagogico-politica.

Essa deve affermarsi come momento necessariamente critico­-operativo-costruttivo e dell'uomo e delle comunità e delle ecclesie tutte.

1.1.2.2. Persona e libertà.

Così è giusto intendere la religione, se vogliamo vivere la dimensione di credenti non asserviti a nessuna oppressione anche velatamente ideologizzante.  E possiamo, così, comprendere il per­ché la religione debba aprirsi allo studio di tutti i problemi; e, cioè, debba essere aperta ai problemi dell'uomo, della società, della politica, della cultura.  Il rapporto esistente tra religione e discipline di studio è e deve essere un rapporto dialogico, se si vuole che l’uomo, anche attraverso la sua dimensione tesa verso il trascendente di tutti i suoi comportamenti prassici, possa comprendere, vivendola, la prospettiva della sua educabilità al futuro come ansia di ricerca e di rinnovamento continuo.[9]  Si tratta di cogliere «la dimensione religiosa come significativa di un progetto di realizzazione dell'uomo nell'uomo»;[10] ciò, perché «la personne est ce qu'il y a de plus noble et de plus parfait dans toute la nature. Rien cependant, rien au monde n'est plus exposé, plus jetè à tout risque, plus gaspillè que l'être humain. Rien n'est dispersè avec moins d'attention et plus de prodigalitè, comme si l’homme etait un peu de pètite monnaie dans la main de l'insoucieuse Nature».  Numerosi i passi che avremmmo potuto citare, per tentare di soffermarci sul valore della persona impegnata a difendere i propri diritti nella storia, per realizzare, cioè, il progetto di costruzione dell'uomo nell'uomo.  Il brano citato ci è sembrato, però, il più significativo in questo contesto perché, meglio di altri, riesce ad esprimere la perfezione della persona,[11] la quale deve agire in situazioni sempre rischiose e, comunque, esposte nella precarietà dell'esistenza stori­ca.

Secondo la tematica del realismo critico,[12] infatti, le persone vivono in una forma costante di interazione tra di loro e tra tutte le forme individuali che costituiscono un mondo di cose esistenti per sé e nel loro essere tutte lì che «si nutrono di ciò stesso che esse sono».[13] La persona, si comprende, è in grado di sfuggire ad un puro divenire, perché, pur essendo esposta ed in balia di ogni possibile rischio, è sempre, nella sua ordinazione diretta a Dio, l'espressione «più perfetta di tutta la natura», cioè è perfettibile e, per questo, come tenteremo di chiarire più avanti, la sola capace di costruire la storia e non di risultarne condizionata.  La storia, determinata nei suoi fatti, è di ostacolo alla volontà umana la quale risulterebbe, in queste condizioni, necessariamente asservita. Si perderebbe, senz'altro, il vero significato della coscienza, se, questa, appunto, risultasse da un lato, ad esempio, riflesso delle schiavitù economiche, o, dall'altro, determinata dall'ambiente.  Si può, dun­que, concordare sull'argomento che «solo i fatti considerati indi­pendentemente dalla loro ripercussione nella coscienza umana, sono naturali: diversamente sono storici»,[14] purché ci si renda conto che questa visione non sia comprensiva di una posizione ben delineata in cui l'individuo risulti un nulla fuori del tutto.

Per una tale impostazione, infatti, non avrebbe soggettività reale se non in quanto si eguagliasse, negandosi, a questa soggetti­vità sovra-individuale e morisse, così, per divenire nell'infinitez­za.[15]  La realtà di essere persona è, piuttosto, nell'uomo finito e distinto dal tutto, mentre l'infinito immanente al finito costringe questi a perdersi per non ritrovarsi che nei momenti progressivi della sua egualizzazione con l’infinito»,[16] per cui l'uomo finirebbe per realizzarsi come realtà solo nella sua dissoluzione nell’infinito.  E la posizione che afferma che «la responsabilità nel rapporto con l'altro si realizza nella corresponsabilità di ciascuno nell’ordine del tutto»,[17] crediamo, riesca, pur essa, a superare questa impostazione limitativa.

Ed ancora, è sostanzialmente vera la convinzione che «il processo storico implica la presenza di una soggettività, [e che] non c'è storia senza soggettività, cioè senza questa riflessione del reale su se stesso che è soggetto che esiste per sé».[18] La persona rappresenta un agente vivificato e vivificante nei suoi rapporti con il mondo (inteso anche come natura), che, d'altra parte, la persona dovrà perfettamente conoscere, per evitare che esso possa determi­narla necessariamente. Al riguardo, ricordiamo un'immagine pen­sosa molto incisiva che sembra disegnare il significato che assume la persona, soggetto storico e unitariarnente spirituale, nel vivere nel mondo e del mondo: «Che sono io dunque?  Un filosofo?  Lo spero.  Ma anche una specie di romantico della giustizia troppo pronto ad immaginarsi, ad ogni combattimento, che fra gli uomini sorgerà senz’altro il giorno della giustizia come della verità.  Forse sono anche una specie di rabdomante con l’orecchio incollato alla terra, per captare il mormorio delle sorgenti nascoste, l’impercetti­bile fruscio delle germinazioni invisibili.  E forse, come qualsiasi cristiano ..., sono anche un mendicante del cielo travestito da uomo del nostro secolo».[19]

In questo sta il rischio dell'essere esposti per la propria libertà, la quale potrà sempre, con rinnovata arditezza, essere difesa e conquistata contro la possibile tentazione del vivere da morti, perché «la persona si salva tutte le volte che si vuole salvare; non si salva quando si lascia vivere».[20]  La persona, per questo, domina la natura, ma è capace di dominare anche tutto ciò che è espressio­ne di organizzazione, anche tra i suoi simili, perché essa non permetterà mai che la propria coscienza possa essere ridicolizzata da una coscienza organizzata. «Una persona è un universo di natura spirituale, dotato della libertà di scelta e costituente un tutto indipendente di fronte al mondo; né la natura né lo Stato possono intaccare questo universo senza il suo permesso.  E Dio stesso che è ed agisce dal di dentro ... rispetta la libertà della persona, la sollecita, non la forza mai».[21] E se «libero è ciò che è causa di se stesso»,[22] la libertà, nell'ordine morale, non in senso ontologico, fa sí che l'uomo sia causa di se stesso, «perché, nell'ordine morale, l'uomo diventa ciò che con la sua libertà sceglie di essere».[23]  La personalità, dunque, se avesse inizio soltanto in quanto «il soggetto ha una autocoscienza di sé, come io, perfettamente astratta, nel quale ogni concreta limitatezza e validità è negata e non ha valore»[24] la personalità, ripetiamo, si dissolverebbe e perderebbe la sua autentica libertà.

Saremmo molto distanti dal concetto di personalità, inteso come dimensione di creatività dell'uomo, perché proprio, per la sua unità di soggetto spirituale, è l’uomo che può tendere alla creazione del proprio avvenire e, dunque, della storia.  Se l’uomo non venisse considerato e nella sua unità di materialità e di spiritualità, cioè di individualità e spiritualità, e nel suo essere, pure, soggetto storico, non potrebbe neppure aprirsi agli altri, soggetti anch’essi, per riceverli; né, tanto meno, offrire se stesso come soggetto.  In questo sta la differenza tra un'autentica conce­zione cristiana della vita ed un'altra che si basa su un divenire indefinitamente dialettico (sta nel rifiuto del regolativo delle norme teologiche nella ricerca operata dall’uomo): mentre l'una, infatti, è altamente drammatica, perché fa vivere all'uomo la sua vita di lotta contro le costrizioni, proprie della condizione umana, per realizzare sempre più la propria totalità in sé; l'altra, invece, è priva di dramma, perché sembra mancare di costruttori del loro stesso vivere; le singolarità, per essa, sono come prese da un vortice irresistibile che, per realizzarle, le annulla sempre di più.[25]

 

1.2. Il rifiuto di norme teologiche.

Il rifiuto di norme teologiche nell'ambito della teoria scientifico-educativa, allora, sembra essere atteggiamento abbastanza una­nime da tutti i versanti culturali.[26]

La scienza dell'educazione è e deve essere scienza autonoma ma che abbisogna instancabilmente del concorso delle altre scienze e di tutti i linguaggi possibili del sapere e quindi anche del linguaggio della religione, per potere riflettere sulle necessità dell'homo viator, dell'uomo in cammino per le vie della storia che si apre incessantemente al futuro, alla ricerca di nuove - e migliori (augurabilmente) - condizioni di esistenza.  E ciò è possibile - noi crediamo - sia rifiutando ogni imposizione ideologica costituita, che impedendo il formarsi di altre eventuali forme ideologizzanti, perché una vita votata alla ricerca continua, proiettata verso l'ulteriorità, attraverso la negazione di tutti i possibili condiziona­menti frenanti uno stile di tensione, è sicuramente negatrice di ogni possibile volontà ideologica.

E’ con la forza di queste argomentazioni - che sono quelle di un J.Lacroix, il quale afferma che «l’esperienza dell'amore è l'espe­rienza di una fede che non può affermarsi che nella ricerca e nell'inquietudine»;[27] o di un Mounier, il cui pensiero si chiarisce nel fatto che si deve non tanto «traiter de l'homme, mais combattre pour l'homme»,[28] ove quest'uomo è la persona che si apre, «si espone, si esprime, è volto... prósopon che indirizza avanti lo sguardo, che affronta»,[29] persona che è calata in un esistere che è anche e spesso «dire di no, protestare, staccarsi»[30] - è con queste convinzioni, appunto, che viviamo la dimensione di un personalismo anti­ideologico, ove «il rischio accettato nell'oscurità parziale della nostra scelta ci pone uno stato di privazione, di insicurezza e di ardimento che è il clima delle grandi azioni>>.[31]

 

l.2.l. Il dialogo come condizione di rifiuto di ogni «dipendenza da … ».

Per questo, è necessario chiarire che una retta concezione della persona non si può inserire in una visione della storia tesa in un evitabile realizzarsi ove «l'uomo può solo cooperarvi mettendo le sue energie al servizio di questo mito della storia che si costruisce e così operando raggiunge la storia».[32]  L'uomo è un tutto, in quanto è persona, che non accetta la visione puramen­te organicistica della realtà, nella quale le Parti vivono nel Tutto, per cui l'uomo, al di fuori del Tutto, si annullerebbe: per una simile concezione, l’uomo diventerebbe un bene, un prodotto della comunità.[33]  Senza alcun dubbio questa potrebbe essere considerata una delle debolezze più vistose della condizione attuale che, fondata su di una adeguata funzione dell'uomo, più che apportare benessere, procura angosce sempre più profonde, nella misura in cui sono sempre meno precisati i valori costitutivi della persona,[34] ove l'atteggiamento critico, il modo di impostare ogni procedimento, mirando all’ innovazione, al mutamento, alla rivoluzione -intendiamo con questo termine la consapevolezza di mutare, augurabilmente, in meglio i complessi rapporti della dinamica vita umana- potranno trovare utili pre­messe per uno sviluppo, se si eviterà la confusione e se, nella scelta dei valori, si andrà alla ricerca di ciò che significa essere persona, liberandosi da tutti i condizionamenti negativi propri della vita umana materialisticamente intesa. «Nous sommes entrés dans une de ces crises periodiques de l’homme» - scriveva Mounier[35] - «où l'homme cherche dans l’angoisse à retenir les trait d'un visage qui se defait, où à se reconnaître figure d’homme dans le nouveau visage qui lui vient. Il lui faut alors choisir vigoureusement, dans la confusion de toutes les valeurs, ce que c'est que d'être homme, et homme de son temps ..., puis le vouloir hardiment, en alliant immagination et fidelité ; ... » - Per aggiungere, sempre nella Premessa al Traité du caractère - «... Nous n'avons pas seulement, dans notre recherche, voulu traiter de l'homme mais combattre pour l’homme».[36]

In un tempo storico come il nostro, in cui l'inquietudine è caratteristica fondamentale, sarebbe inopportuno cercare di defini­re, in modo limitativo, così in un sistema, una teoria filosofica fondata sulla fallibilità, sul rischio e, quindi, sulla possibilità di vivere la perfettibilità come quella del personalismo non certamente «vecchio».[37] <<Le personalisme est une philosophie, il n'est pas un systeme» (Mounier);[38] e «nulla sarebbe più falso che parlare del personalismo come di una scuola o di una dottrina.  E’ un fenomeno di reazione contro due opposti errori, ed è un fenomeno inevitabilmente misto.  Non c'è dottrina personalistica, ma ci sono aspirazioni personalistiche ed una buona dozzina di dottrine personalistiche, che non hanno in comune talvolta se non la parola persona ... . Ci sono personalismi a tendenza nietzschiana e personalismi a tenden­ze proudhoniane, personalismi che tendono alla dittatura e perso­nalismi che tendono all'anarchia» (Maritain).[39]  L'uomo, allora, essere intelligente,[40] deve anzitutto essere paziente, umile, genero­so, deve sapere ascoltare gli altri per capirli, per potere dialogare con costoro, dopo avere molto ricevuto ed ascoltato.  Perché l'uomo possa vivere intensamente nel suo tempo è molto importante che egli sia capace di vivere questo necessario momento del bisogno del dialogo.  Senza l’ascolto delle esigenze altrui, senza il desiderio di farle proprie e di capirle non v'è vita di relazione.  Non bastano le buone intenzioni, né le ricette di cose fatte, per vivere la vita del nostro tempo.  Nella condizione presente, alla maggior parte degli uomini che si sforzano di crescere in una società ricca di stimolazioni, spesso, manca la possibilità di dare uno sguardo contemplativo alla ragion d'essere dei fatti, il che comporta l'inca­pacità di scoprire la ragione unificante e semplificante della vita e delle cose;[41] e, infatti, partecipiamo, e ne possiamo convenire, ad uno sconvolgimento che, per la dispersione dei veri valori, per il sentire fittizia la nostra umanità - come ricorda Mounier - investe l'intera società; ma, non per questo, dovremo subire questo disor­dine stabilito, ma dovremo deciderci nel denunciarlo e nell'affron­tarlo con coraggio per ristabilire l’autenticità della crisi: «toute decision part d'un dechirement».[42]

Il problema è avvertito, ed in ciò dobbiamo intravedere una certa possibilità di chiarezza, senza dimenticare quale sia effettiva­mente la realtà della nostra condizione.  Essa può essere, infatti, un ripetersi triste di un modello di ambiente nelle famiglie, nelle comunità e, per finire, nella società costituita da individui alienati e sempre più soli.  I giovani del nostro tempo potrebbero continua­re a vivere come estranei tra loro, se non con se stessi, alienandosi in soluzioni di vita, nelle quali domina l'autodistruzione o la malvagità: realtà questa che segue ritmi accelerativi, senza pause.  Anche i bambini potrebbero continuare a vivere, prediligen­do immagini di violenza.[43] Ma i giovani potrebbero pure, essere quelli del cambiamento, quelli che si costituiscono un modello di ambiente di vita e non di morte né di distruzione che si rifletta prima nelle famiglie, trasformandole e donando loro l'autentico aspetto, e poi, naturalmente, nelle comunità dei giovani che, preferendo la meditazione, l'ascolto, il vivere in comunione con gli altri, possano contribuire alla crescita vera della società, perché loro intuiscano che la ricostruzione deve essere morale e sorretta dalla collaborazione di tutti; «... è da concedere fiducia ai giovani e alla loro attitudine utopica», sostiene Norberto Galli, in Pedagogia dello sviluppo umano.[44] Sarebbe necessario, per questo, un'assi­dua opera educativa al senso della misura e della persuasione.  Un valore inestimabile può assumere, ad esempio, la concentrazione su quegli autori, le cui opere sono l’esempio dettato dal loro vivere sempre nell'azione.  Sono loro gli autentici educatori.  Mounier, tra questi, degno rappresentante, vive e si comporta da educatore dell'uomo, di quell'uomo, che ha assoluto bisogno di riscoprire se stesso, per risvegliare gli altri ed attuare la sua più profonda rivoluzione, cercando di portare la jeunesse nello spirito.[45]

L'educatore più attento non può risolversi in un semplice enunciatore di tecniche, possibilmente formulate da altri, le quali vorrebbe applicare sul figlio, nella famiglia, se genitore; sull'allievo, nella classe, se maestro; e, così, sul cittadino, nella città, se politico.  In questa maniera si limita il concetto di educazione, sminuendone il valore.  L'educatore non può agire unilateralmente su di un campo ristretto, quale può essere quello familiare o quello scolastico o quello civico, senza che per l'uomo si verifichino condizioni di interdipendenze tra l'uno e l'altro campo di azione.  La persona richiede, per se stessa, di vivere nella società: «presa sotto l'aspetto delle sue indigenze, essa deve integrarsi ad un corpo di comunica­zioni sociali senza il quale le è impossibile pervenire alla sua vita piena ed al suo compimento.  La società appare, allora, come tale da procurare alla persona le condizioni di esistenza e di sviluppo di cui essa ha precisamente bisogno.  Non da sola essa può pervenire alla sua pienezza, ma in quanto riceve beni essenziali dalla società».[46] L'educazione interessa tutto l'uomo il quale, nella sua interezza e per le infinite possibilità di relazione con tutti coloro che concrescono assieme con lui, dovrà pur pervenire «ad un certo grado di elevazione nella conoscenza come di perfezione nella vita morale».[47] «L'uomo ha bisogno di un'educazione e del soccorso dei suoi simili: in questo senso, si deve dare il massimo rigore al detto di Aristotele, che l’uomo è naturalmente un animale politico, perché è un animale razionale, perché la ragione chiede di svilupparsi, grazie all'educazione, all’insegnamento al concorso di altri uomini, e perché la società è così richiesta al compimento della dignità umana».[48]  Solo così, vivendo intensamente con gli altri, non essendo più in grado di potere sottovalutare le inquietu­dini ed i turbamenti che caratterizzano il coesistere proprio degli uomini, saremo sollecitati a superare i continui malesseri della società e ad avviarci sempre più certi verso nuovi problemi, sperando di pervenire, al più presto, a quelli più autentici e veri. Il vero maestro avrà, allora, un solo compito: quello di riportare lo spirito nel suo unico posto di responsabilità che gli permetterà di dominare tutte le sfere del reale.

Mounier, subordinando il motivo politico dell'agire umano all'opera fondamentale dell’educazione che, tra raltro, non fa che comprenderlo, così si esprime: <<Le  dernier point que nous visons, ce  n'est pas le bonheur, le confort, la prosperité de la cité, mais l'epanouissement spirituel de l’homme».[49]

La funzione più significativa dell’educatore, in definitiva, è quella - dice Jean Lacroix - di «aider à naître un homme nouveau».[50]

Ogni educatore autentico è, dunque, benché in proporzioni e prospettive diverse, un profeta, uno psicologo o, se lo si preferisce, un pedagogista che dovrà tenere in gran conto il fatto che «l'uomo trova se stesso subordinandosi al gruppo; ed il gruppo raggiunge il suo fine soltanto servendo l'uomo e sapendo che l'uomo ha dei segreti che sfuggono al gruppo ed una vocazione che il gruppo non contiene».[51]

La meta per la quale bisogna impegnarsi con sacrificio costan­te è, allora, una perenne rivoluzione per la valorizzazione più manifesta di quanto vi è di sacro nella libertà degli uomini, in modo che tutti, in quanto persone, esseri intelligenti, possano partecipare alla legge della vita che è amore ed in quanto tale mirante alla conquista della libertà e della giustizia sociale, attraver­so una continua azione di rinnovamento.[52]  In questo impegno (etico-politico)-pedagogico, ogni uomo deve cercare di realizzare un rapporto socio-politico, secondo il quale, diritto e relazioni giuridiche devono trovare il loro fondamento nella giustizia verso le persone e non già nella volontà degli individui.

L'uomo deve cercare sempre di lottare su tutto, su tutti e su se stesso, per potere affermare la propria resistenza di persona e tendere così verso la conquista della sua coscienza morale.  Egli non deve subire, deve reagire prontamente ad ogni ostacolo che gli si frappone, per valorizzare al massimo quegli elementi costituti­vi della sua personalità che fanno di lui un essere degno di rispetto nella misura in cui egli è anche capace di rispettare gli altri.  Sentimento e ragione, in lui, devono giuocare un ruolo importante; e se, spesso, si instaura una lotta tra queste due forze, egli, in quanto essere cosciente e responsabile, deve sapere che il sentimento gli serve per reagire continuamente alle ripetute stimolazioni che uomini e fatti suscitano in lui; la ragione, per potere utilizzare, a fin di bene, ogni stato di emotività, per smussare gli angoli di una vita affettiva che va temperata per potere, così, più serenamen­te, dialogare con se stesso e con quelli che lo circondano, e per evitare infine che l'affettività si tramuti in passionalità.

Se è vero che la vita umana è lotta, l’uomo deve per questa ragione, lasciarsi, in essa, trascinare solo per vincere ad ogni costo e con ogni mezzo.  Una falsa interpretazione del modo di concepire la vita come esaltazione dei diritti è proprio il più grave dei difetti dell'uomo il quale disperatamente combatte per ottenere e solo per reclamare i propri diritti, diritti che vanno salvaguardati, riconosciuti e rispettati nella misura in cui essi vanno visti in correlazione con i doveri da compiersi.

In una società in cui gli uomini riescono ad avvicinarsi, quanto più possibile, ai propri doveri, ben pochi avranno da reclamare, da ribellarsi, per fare rispettare e salvaguardare i propri diritti.  Questo compito è affidato all'educazione, per fare realizzare gli uomini in una vita di relazione sempre più efficace ed utile per sé e per gli altri; e, così operando, ci si avvicinerà al bene che potrebbe anche essere considerato un utile universale, nel senso che ciò che è utile viene a coincidere con il bene.

Nell'uomo, l'esuberanza, in alcune occasioni, è utile perché riesce ad appagare le sue ansie di concretezza ed a soddisfare le sue esperienze di vita vissuta, permettendogli la piena estrinseca­zione della sua personalità, di soggetto pensante che ha una sua dignità da rendere concreta, dignità che è comune a quella di ogni uomo. E’ questo il momento di pari dignità, di uguaglianza, di libertà e di giustizia sociale che può rendersi esplicito, manifesto. L'uomo, infatti, nell'estrinsecazione della sua personalità, sulla base del riconoscimento dei suoi diritti, visti alla luce del concetto di dignità umana, comunica agli altri il proprio mondo, senza trascu­rare il loro.  Il problema può essere così presentato: l'uomo deve lottare e, per farlo, deve stare in relazione con altri esseri e meditare sulle esperienze di vita le più molteplici, non in modo astratto ma autentico, così che, presa coscienza della realtà, possa lottare per superare le difficoltà, per inserirsi, consapevole e responsabile, nella storia, attraverso le sue azioni ed infine per riuscire a superare lo stato di angoscia in cui, invece, cadrebbe se si rifuggiasse nella caducità della vita umana, ricca di esperienze legate alla momentanea soddisfazione, agli attimi di vita esistenziale privi del fondamento umano, attraverso il quale, non solo è possibile vivere umilmente ma è anche possibile riuscire a superare la morte come danno, come pericolo incombente e riuscire ad appagare la sete del possibile, del futuro. Ecco, perché, nelle varie fasi di sviluppo di ogni forma di vita associata, l'uomo sente in sé sempre viva l'esigenza di mutare, di cambiare, di innovare, di rinnovarsi.  Nella stessa maniera, ogni forma di civiltà, espressione di vita culturale, non può essere limitata ad un motivo esistenziale che è pur sempre momento necessario e reale.  L'uomo non ha mai amato di lasciarsi incasellare, intrappolare, perché ogni essere, pur nella sua individualità, nella sua peculiarità, riassume in sé un qualche motivo di eternità o meglio di perennità del suo passato, sempre presente nel suo modo di essere quello che è nel momento futuro, non solo contingente. Gli uomini, privi del fervore spiri­tuale ed intellettuale, sono degli esseri fatui, incapaci di affrontare i problemi della vita e di viverli, senza lasciarsi tormentare dall’an­goscia nella quale irrimediabilinente sono trascinati.  L'uomo, privo di una sua vita spirituale ed intellettuale, pur vissuta nei limiti della sua modesta persona, senza bisogno di assurgere all'eroismo ed alla santità, non solo è capace di vivere da uomo, ma, quel che è più grave, è solo capace di scatenare l'odio fra gli uomini, perché non sa distinguere i propri mali ed odia la verità quando questa non soddisfa i suoi desideri.  L'uomo che vive, invece, una sua dimensione di vita spirituale e culturale, è capace di lottare, sia per affermare se stesso che per elevare la società nella quale egli vive.  Una tale forma di vita dignitosamente umana, mezzo per la conquista della coscienza integrale propria dell’uomo, permette il formarsi di una vita di relazione costruttiva, benefica per il progresso stesso della civiltà, in quanto evita i pericoli della lotta come violenza, allontana gli uomini dalle ambizioni smodate, dall’ignoranza e dal male che li guida per tenere alti gli ideali perenni della dignità che sono quelli di libertà, di autonomia, di uguaglianza e di giustizia sociale. La vita è lotta, sacrificio, dovere e non dispersione o godimento; la solidarietà per la vita è lotta che si fa lotta, che supera, attraverso la collaborazione, tutte le discordie interiori e le contraddizioni interne della nostra discordia.  Superando, così, tutti gli stati d'animo di fluttuante contraddizione, l'uomo, che si forma nel dolore e nel sacrificio, riesce a dare un significato alla sua vita ed alle sue conquiste e si avvia verso la contemplazione degli ideali propri della vita umana, non in modo mistico, ma attraverso un'ansia spirituale vivamente sentita, una solitudine valida per la meditazione, un’ aspirazione al futuro, che non è un modo di allontanarsi dal reale che è amore della vita ed anche della gloria, in quanto frutto della conquista, attraverso la lotta sostenuta tra spirito e senso, che è intensità di vita sentimen­tale e non solo disprezzo del sapere che è esaltazione della vita morale e religiosa, perché non è frutto di speculazione ma è vita vissuta per la valorizzazione dei diritti umani non solo dell'indivi­duo, ma valorizzazione della vita umanamente vissuta e sofferta, sia come individuo che come società, come popolo, come coscienza e come intelligenza suprema.  La vita umana è anche lotta continua tra il pensiero ed il sentimento, la fede e la ragione che porta spesso al dubbio, alla speranza ed alla disperazione.  Una lotta che l'uomo vive e che si manifesta nella costante opposizione tra quello che egli è e quello che vorrebbe, tra il suo ideale ed il suo modo esistenziale di vivere.  Per superare indenne tutte le difficoltà, l'uomo deve tornare ai valori della sua vita di essere soggetto che pensa, che vuole, che sente, che ama e di essere espressione, di bene per quello che egli è, e di male per la mancanza di essere.  L'uomo deve sentire il bisogno di Dio, della sua ragion d'essere (posse, nosse, velle).  Nel rispetto di questo riconoscimento, i diritti umani si apprestano ad essere strumento valido per la formazione della coscienza morale, negli uomini, in modo che essi possano vivere una vita più profonda, guidati da un ideale etico-sociale che fa della loro vita un traguardo da raggiungere, in quanto è una vita vissuta come ansia di libertà nel mondo, perché la coscienza umana si arricchisca, caricandosi delle colpe degli altri non per farle proprie, ma per aiutare a liberarsene.  L'uomo deve cercare e sentire il bisogno della limitazione di ciò che è temporaneo e che tende all'illimitato, fonte di più profonde rivelazioni.

E’ tempo, dunque, di giudicare se stessi, per potere, poi, giudicare la società; e questo giudizio lo si potrà proferire in virtù del riconoscersi delle persone autentiche che possono vivificare la comunità che loro vivono.  E’ dalle singole persone, infatti, che è possibile che si dipartano potenzialità infinite che permettono un legame tra le persone stesse: legame indissolubile per il carattere tendenzialmente comunitario dell'essere persona.  Per questo è necessario vivere da servitori delle nostre scelte autentiche.[53] Ciò serve per modificare l'atteggiamento di vita tra gli uomini, perché è la tensione che costituisce il vero senso della rivoluzione, la quale consiste nel superare lo stantìo non perché bruto in sé, piuttosto perché non bene interpretato: la vera rivoluzione[54] sta, per questo, nel ricercare continuamente la verità nel futuro, cioè il possibile; e, per realizzare ciò, sarà necessario vivere intensamente la situa­zione di rifiuto di ogni dipendenza da ... . L'essere indipendenti, soprattutto per il pedagogista che dovrà accostarsi al campo dell'agire umano e politico preparerà il lavoro stesso alle iniziative che trasformeranno direttamente il mondo e la vita. «L'indipendenza dei filosofo - è stato detto - testimonia la libertà dell'intelletto di fronte all'istante che passa».[55]  Per il pedagogista, allora, grande la funzione didattica da inventare e sperimentare con il concorso e rapporto di tutti i saperi e linguaggi di cultura, perché è, sostanzialmente, quella di trasformare l’orien­tamento di fondo della nostra civiltà, avvilita dal godimento di beni utilitaristici, aderendo a posizioni che privilegiano il valore del dominio morale.  Ricordiamo la famosa espressione di Ch.Péguy: la rivoluzione sociale sarà morale o non sarà rivoluzione.  E non dimenti­chiamo l'immane esempio di Socrate, il quale educava i giovani a vivere nella città solo più umanamente e li invitava, certamen­te, non a distruggere ma a rispettare le leggi.  E Socrate stesso fu esempio del rispetto e dell'obbedienza alle leggi; e, a tal punto, da accettare una condanna che, senz'altro, giudicava ingiusta nella applicazione della legge stessa. Il male non è nella legge, dunque, ma nell'uomo che la applica inconsideratamente.  E, fino all'ultimo, Socrate scuote i suoi discepoli che rischiavano di addormentarsi nella loro interiori­tà, quando lo invitavano a fuggire e ad evitare la condanna.  Li scuote, invece, Socrate, perché il saggio greco sapeva che la debolezza umana porta alle costruzioni ferree esteriormente.  Ed egli si batteva, invece, per l’edificazione robusta dell'uomo interiore.

Il nostro unico ed essenziale compito, in quanto espressione dell'autentica laicità che significa, diremmo, essere indipendenti e liberi, è ancora una volta quello di riconquistare la nostra singolarità ed aiutare con il dialogo quelli che in parte hanno ceduto, facendo addormentare il loro essere persona, perché hanno creduto che la fortezza che hanno attorno a loro costruita, possa bastare per esistere.  Ma non è esistenza umana la loro; è piuttosto vegetare o, tutt'al più, vivere una vita animale.  Dobbiamo aiutare costoro a distruggere le falsità che racchiudono la debolezza, perché è quella che può essere investita e distrutta.  Questo era il timore di Socrate per i suoi discepoli che riesce a scuotere energicamente sino alla fine.  Ma se chi opera il male non trova fortezze esteriori ma persone pregne di amore non potrà nemmeno agire. Il nostro impegno consisterà dunque, nel riscoprire il fondamento della convivenza umana e la norma ultima dello stesso dialogare e cioè «la verità come consenso all'essere, come il consenso di tutti alle manifestazioni più autentiche ed alle esigenze più profonde della nostra esistenza».[56]

 

 1.3. Pedagogidtà della ricerca teologico-religiosa.

    Per queste ragioni su esposte, non condividiamo il pensiero di chi sostiene che ogni agire «nei suoi contesti ultimi, cioè attinenti alla definizione del suo significato umano esistenziale, è impensabile senza una prospettiva ideologica».[57] Ed allora, nello stesso momento in cui proponiamo un'interazione reciproca tra gli elementi del rapporto, e nel caso specifico, tra cultura religiosa ed altri saperi-aperti, non condividiamo che un progetto educativo debba o possa venir formulato e proposto derivandolo da presup­posti definitori e statici di carattere teologico o filosofico; «l'atteg­giamento cristiano non consente ideologie e filosofie definitorie e utopie risolutive, ma anzi implica un doloroso e faticoso trascendi­mento di ciò che in natura è dolore, negatività, chiusura, morte, particolarità irrelata di quel soggettivo che tende a perire quando non riesce a collocarsi in un sistema unitario»;[58] e tutto ciò a sostegno delle concezioni educative che si possono ricavare soltan­to dall'incontro educativo concreto, dall'esperienza della responsabilità educativa e dalla riflessione sui nuovi contenuti e sulle sue possibilità.[59]  Tutte le discipline, pertanto, possono e devono entrare in rapporto con la cultura religiosa, perché, come abbiamo già sostenuto, è l'atteggiamento della scienza per l'uomo nel mondo che fa scattare il senso pedagogico della scienza stessa, la quale non può essere considerata, tra l’altro, mai isolata e priva di agganci interazionistici con le altre scienze che sono tutte dell'uo­mo e per l'uomo.  A maggior ragione non possiamo condividere che il campo di indagine, sui generis, della cultura religiosa debba fondare ogni sapere; significherebbe ciò far perdere alla ricerca ogni autonomia, ogni atteggiamento di impegno, di scelta, di lotta nella coerenza-incoerenza dei rapporti umani.  Abbiamo, pure, detto che è l'indagine ermeneutica a farci comprendere una certa criticità, operatività della cultura religiosa, ma non perché essa, necessariamente, diventi sapere normativo, ma disciplina che ricerca le sue leggi, le sue condizioni di esistenza nel mondo per l'uomo, animato dal desiderium videndi Deum. La religione, allora, come qualsiasi altro linguaggio sperimentale ha una sua «base», sui generis sicuramente, ma che consente la ricerca di definizioni, leggi e il controllo di esse e che possiede «quell'elemento di distinzione e di trascendimento-allontanamento rispetto alla conoscenza comune d'esperienza».[60]  Cioè la religione non può essere accusata di non essere uno dei tanti linguaggi educativi con un suo definito campo di indagine, perché se «la teologia si rivolge alle operazioni che le sono proprie, cioè all'autoriflessione su questa fede ed alla penetra­zione logico-razionale, nonché alla spiegazione della stessa nell'hic et nunc di attualità, essa non sacrifica con ciò l'intelletto, ma lo cerca: fides quaerens intellectum.  Nella formazione del suo «linguaggio oggettivo», nell'uso dei suoi metodi, nella ricerca esatta dei suoi concetti, nella verificabilità e rivedibilità dei suoi procedimenti probativi, nella stringatezza delle sue conclusioni e conseguenze; in breve, in tutte le sue operazioni metodologiche, la teologia è legata, come ad esempio le scienze antropologiche, ad una razionalità continua­mente perfettibile».[61] 

Si nota sempre di più, ora, la necessità di porre in dialogo ricerca teologico-religiosa con i saperi, perché è insito nell'atteggiarsi umano il porsi in interrelazione reciproca con Dio e con la sua dimensione di ulteriorità e di allontanamento dei fatti negatori e limitativi del mondo. 

Che sarebbe dell'uomo senza questa possibilità di aggancio con il trascendente? 

Come sarebbe possibile avvertire, solo avvertire, la propria dimensione asservita ed intorpidita dalla quotidianità coercitiva? 

E che senso avrebbe il ritrovarsi di quell'esserci nel momento in cui questo lo intendessimo come il luogo dell'essere nel mondo, il suo porsi per garantire la possibilità del suo ritrovarsi, appunto, nell'aggancio indeducibile con l'Altro?

            Così, allora, se noi condividiamo che «superare non vuol dire respingere, ma assumere in modo nuovo»[62] e sempre; risulta, anche per queste ragioni, che la ricerca teologico-religiosa si esprime nella sua dimensione pedagogica senza ridursi a teologia dell'educazione[63] -se così fosse, non avrebbe più senso il nostro procedere- né quindi a scienza assolutamente normativa, e ciò proprio per il suo rapportarsi continuo e necessario con tutte le scienze che vivono un rapporto di dialogo continuo tra tutti i linguaggi, nel loro rimanere distinti anche nei momenti in cui appaiono configurarsi in una sorta di compenetrazione, nel loro prorompere all'intemo della fenomenicità del quotidiano.

 

1.4. Educare alla religione come possibilità di ricerca logico-critica.

Ricerca religiosa è ricerca logico-critica, se si realizza un corretto rapporto di dialogo; e i nuovi Programmi didattici per la scuola primaria, nella Premessa generale, per esempio, così si leggono: «La scuola elementare, nell'accogliere tutti i contenuti di esperienze di cui l'alunno è portatore, contribuisce alla formazione di un costu­me di reciproca comprensione e di rispetto anche in materia di credo religioso».  E poi: «la scuola statale non ha un proprio credo da proporre né un agnosticismo da privilegiare.  Essa riconosce il valore della realtà religiosa come un dato storicamente, cultural­mente e moralmente incarnato nella realtà sociale di cui il fanciullo ha esperienza ed, in quanto tale, la scuola ne fa oggetto di attenzione nel complesso della sua attività educativa, avendo ri­guardo per l'esperienza religiosa che il fanciullo vive nel proprio ambito familiare ed in modo da maturare sentimenti e comporta­menti di rispetto delle diverse posizioni in materia di religione e di rifiuto di ogni forma di discriminazione».  Queste considerazioni sono pienamente condivisibili ma, a parer nostro, contraddette dalle indicazioni contenute nel programma specifico di «Religione» -e non più di «Conoscenza dei fatti religiosi», come aveva proposto la Commissione Fassino-, quando in esso si precisa che i genitori hanno il diritto di scegliere se avvalersi o meno di tale insegnamen­to per i loro figli.

A questo punto verrebbe da chiedersi che cosa intendeva il Legislatore, quando parlava di maturazione di comportamenti di rispetto delle diverse posizioni in materia di religione e di rifiuto di ogni forma di discriminazione! 

Forse che si educa al rispetto delle diverse posizioni impedendo il dialogo, o meglio interrom­pendolo? 

Non è da credere che, per favorire il rifiuto di ogni forma di discriminazione, si debba invitare il bambino a scoprire in maniera netta la diversità tra sé e gli altri, che sono suoi compagni di gioco e di lavoro: è già questa una forte discriminazione!  Interrompere un dialogo, fondato sul senso del rispetto reciproco, che genitori e docenti, operatori scolastici ed extrascolastici si sforzano sicuramente di tenere ben saldo, è un gravissimo errore pedagogico, e, per questo, deve essere assolutamente evitato. 

La scuola deve favorire la mediazione delle culture -non la contrap­posizione, perché la contrapposizione genera violenza, disordine, incertezza e tutto ciò che è contro la cultura del dialogo, dell'ordine voluto e richiesto dall'indagine scientifica, della certezza di volere collaborare-, per costruire ed inventare nuove possibili strategie e idee e, in definitiva, per far maturare l'uomo nella dimensione di comportamenti rispettosi di tutte le posizioni culturali e, quindi, anche religiose.

            E’ nostra intenzione, allora, precisare che, come è stato da altri già ben delineato, se la scuola è - oltre che un luogo - anche una occasione pubblica di formazione critica della società e se le discipline sono essenzialmente linguaggi educativi, perché strumenti di cono­scenza, la religione, anch'essa, nella scuola, non potrà che essere un linguaggio educativo, uno strumento per comprendere e far comprendere meglio i rapporti che legano l'evolversi di un pensie­ro creativo e critico. 

Se essa - la religione - venisse considerata in maniera diversa - e forse come è stato fino ad oggi compresa e analizzata - rischieremmo di ideologizzare comunque una funzio­ne che la scuola, proprio perché comunità razionale, cioè educata e quindi educante, deve espletare nella maniera più netta possibile, cioè più chiara e corretta nella individuazione dei problemi, nella scelta dei contenuti, nelle prassi educative e nelle strategie adeguate alla popolazione studentesca; e la deve espletare se, almeno, vuole conseguire il processo di rinnovamento e di trasformazione del sociale.

            Non vogliamo dire, però, che rifiutiamo una religione partico­lare -la cattolica- o altre -quella evangelica o la buddista o la metodista, ecc.-; lungi, da noi questa preoccupazione, anche perché ne condividiamo non solo l'importanza dal punto di vista storico-culturale e sociale di costruzione dei popoli ma potremmo anche aggiungere che ne scorgiamo l'incidenza in ogni singolo uomo, che è sempre un universo a sé, impregnato di soprannatura­lità nel senso che contiene in sé tutte le possibilità a lui ignote come singolarità ma anche, presumibilmente, come comunità, come società; ma proprio per queste ragioni, proprio perché è un universo, sì, ma in espansione e mai conchiuso in se stesso, egli è uomo, cioè aperto a tutti gli universi possibili che sono gli altri da sé, sí tali universi degni tutti del più alto rispetto.

 

1.4.l. L'educazione religiosa come educazione alla «sintesi dei valori».

    Proprio per questo, ogni uomo ha diritto ad avere salvaguar­data e a vivere la sua esistenza pubblica e «privata», ove privata non significa estraniazione dal pubblico, dall'altro da sé, piuttosto compenetrazione dell'altro da sé e ciò proprio per il suo esaltarsi nell'in sé, cioè per il suo conoscersi come perfettibilità. 

La Scuola allora, come istituzione pubblica e sociale, non può che favorire l'incontro di queste realtà perfettibili o che si alimentano sempre della ricerca di sé, nel mondo. 

Cosa intendiamo con ciò: soprattutto che gli uomini sono tutti compagni di viaggio, di un viaggio affascinante, rischioso, inopinabile, ma eminentemente pieno e denso di cose da inventare, cioè da ritrovare, da scoprire; e ciò soltanto per conoscere meglio se stessi e gli altri: cioè gli spazi immensi del definito, che, per l'indeterminatezza e la molteplicità illimitata di detti spazi, si apre all'infinito, scoprendosi esso stesso tale.

La scuola allora deve essere quel nucleo fondante di ogni universo, allargato a più universi vitali, perché in essa si possa sperimentare ogni forma di dialogo, di volontà e di costruire insieme, di atteggiamento di partecipazione e di collaborazione fra tutti e con tutti.  Come fare a considerare diverso da me un compagno di banco, un collaboratore nell'indagine, nello studio, nella ricerca sol perché è buddista!  Perché la Scuola dovrebbe trasmettergli o comunicargli gli aspetti di una Verità, o, peggio ancora - perché dovrebbe isolarlo dal contesto della comunità scolastica - istruirlo sempre più sulla sua (del ragazzo) Verità!  Ma quell'universo-possibile, che è il bambino, gli aspetti della Verità li possiede già: sono quelli della sua tradizione, del suo popolo, della sua gente, della sua famiglia, della sua storia: sono quegli aspetti della Verità che sono condizione del suo potersi trascendere e del suo sentirsi libero, perché egli, quegli aspetti, li ha sempre vissuti e li va sperimentando, vestendo ogni suo comportamento e indagine della cultura, che egli vive.

Nell'aula scolastica, il buddista e il cattolico non sono totalmente diversi, bensì sono due esseri che possono intendersi benissimo, perché insieme risolvono tutti i problemi vivi, che la Scuola avrà dato loro l'occasione di affrontare e determinare e, a tal punto che, forse, costoro, in un momento di pausa nel loro lavoro o in un'attività programmata, capiranno che anche la loro verità è simile, se non identica: basterà, infatti, astrarla dal suo esser stata storicizzata.

Non è pensabile -in una Scuola, che si vuole rinnovare per modificare la società- ogni tentativo di invito -anche se per un attimo, per un'ora- a non dialogare più.  Si deve rifiutare ogni possibilità di questo genere, tenendo conto anche che il luogo meno adatto per continuare l'approfondimento delle proprie cre­denze sia la Scuola.  La Scuola, la classe è, necessariamente, un ambiente eterogeneo, che, solo così, può giustificare la vitalità di esso; non possiamo pretendere che la Scuola diventi omogeneità assoluta, sarebbe una costrizione e, soprattutto non ci sarebbe l'occasione per verificare il senso dei vari omogenei che provengo­no, singolarmente o in gruppi, da altri tipi di realtà e condizioni che possono essere familiari, di gruppi, di chiese.  Ma, nella scuola, che si realizzi l'interscambio di tutte le esperienze personali, attra­verso le operazioni intellettuali di ogni singolo uomo.

Nelle scuole dei paesi comunisti il materialismo storico-­dialettico è, e soprattutto è stato, fondamento dell'insegnamento ufficiale; forse che nelle scuole dei paesi a forte presenza cattolica, la religione del cattolicesimo dovrà continuare ad essere, anche se in maniera sempre più velata, fondamento e coronamento dell'inse­gnamento?  Non vogliamo, certamente, porre sullo stesso piano il primo - il materialismo storico-dialettico - con la seconda - la religione cattolica -, ma per poterlo non fare non dobbiamo considerarli dottrine.  Ma, se dottrine lo sono, il parallelo può anche essere legittimo.  Il pensiero cristiano-cattolico, come del resto quello più profondamente marxiano,  potranno essere mio patrimonio personale, che qualifica, caratterizza il mio essere, il mio gruppo, le mie scelte, le mie proposte, la mia vita, il mio comportamento, ma  di un uomo libero che sa cos'è libertà e cioè capacità di rispettare gli altri, capacità di donare se stesso agli altri, capacità di essere sempre tollerante, ma anche critico-rivoluzionario, cioè capace di comprendere i nessi, le con­traddizioni, e, in definitiva, gli altri.  Essere libero significa , essen­done capaci, costruire delle regole, che trovino un'identificazione nei costruttori, che si comprendono, perché stanno sperimentando tutti insieme, nell'aula scolastica, le loro capacità di vivere una comunità operativa ed ingegneristica.

E’ nella scuola che noi potremo sperimentare il nostro essere tutti finiti ma legati a condizioni tali da presupporre il trascendi­mento delle nostre condizioni.

Dio, in tutti noi, è il punto di riferimento, il motore che consente il vivere della comunità, che costruisce e solidifica i nostri rapporti e le nostre comunioni, il nostro essere Ecclesia e non Chiese.  Dio non ha bisogno di etichettature, perché non può essere delimitato, Dio è sempre il di più di ciò che possiamo definire, e il di più potrebbe essere, anche se in minima parte, patrimonio dell'altro, dell'altro da me: e ciò non basta, non può bastare mai.  Ed allora, non appena io credessi che «Dio parla in un solo modo, avrei ridotto Dio  ad un monarca assoluto, a capo carismatico d'un partito politico, totalitario, ed avrei risolto la religione in una ideologia e la religiosità in emotività».[64]

Che fare? Bisogna «cominciare a restituire la religione a se stessa ... e nella scuola elementare si può cominciare.  Fare dell'educazione alla religiosità vuol dire anzitutto tenere un atteggiamento di comprensione e di rispetto verso tutte le manifestazioni religiose: il dileggio, la beffa, il risolino di compatimento degli esprits forts vanno esclusi non solo verso la religione cattolica o la protestante, o l'ebraica, ma verso tutte. ... L'educazione religiosa è soprattutto educazione alla sintesi dei valori».[65]

 

1.5.      La religione come momento originario della conoscenza razio­nale.

Quale proposta allora? 

Considerare anzitutto la religione come momento originario della conoscenza razionale, e rifiutare, dunque, ogni norma teologica nell'ambito della teoria scientifico-educativa.  Noi crediamo, infatti, che, nel rispetto più assoluto di tutte le credenze, l'uomo, nel suo essere creativo, ha bisogno anche di sperimentare il senso della religiosità di ogni fatto umano, se la religione è appunto originarietà non dissolventesi mai nelle fasi della ricerca razionale.

Tutto ciò, naturalmente, significa che, se vogliamo costruire «un mondo sempre meno asservito al dogma» avremo bisogno di sperimentare concretamente tutti i possibili linguaggi educativi. 

Dopo queste non brevi considerazioni abbiamo potuto scorgere l'importanza della religione come espressione educativa.  Anche la religione è e deve essere uno strumento approfondito, conoscibile e quindi perfezionabile nelle mani dei nostri allievi, purché essa non venga mai considerata, nell'aula scolastica almeno -lo ripetia­mo-, dottrina, catechesi.  Se la religione - come abbiamo provato altrove[66] è momento originario di ogni attività di ricerca razionale e noi crediamo che mai si può prescindere da essa, pena l'impossibilità del verificarsi della ricerca stessa - allora che essa venga arricchita di tutti quei contenuti che servono a solidifi­carla per consentirle di entrare di diritto, e senza remore da parte di nessuno, nella dinamica dei processi di curricolazione.  Soltanto una religione così intesa potrà essere considerata non contradditto­ria ed antitetica in una scuola del progresso, cioè laica ed aperta a tutte le possibilità culturali e a tutte le credenze.[67]  Cioè noi crediamo che se bisogna accettare come fatti di conoscenza tutte le possibilità e le norme teologiche, per poterle rispettare, è necessario però che dette norme non caratterizzino negli esiti gli ambiti culturali della teoria scientifico-educativa. Tra l'altro risulte­rebbe sempre discriminatorio, in quanto una norma teologica potrebbe escluderne un'altra, riproponendo una cultura del non ­dialogo e quindi della violenza.

In definitiva, è necessario recuperare tutti i possibili linguaggi educativi; e la religione, così come noi la intendiamo, è certamente uno dei tanti linguaggi utili al bambino ed all'uomo in generale.  Non possiamo dimenticare che «l'educazione, come educazione intenzionale, formale, diretta (che non si risolve, certo, nella scuola, ma che si origina certamente nella situazione sociale della scolarità), non esiste sul vuoto, non si poggia sul nulla, non si attacca - per dir così - ad una tabula rasa.  Si poggia sull'esperienza.  E, prima della «scuola» (…) c'è un'esperienza prescolare (…): c'è un apprendimento naturale ora, in questo apprendimento che diciamo naturale, c'è anche il senti­mento del sacro, come presenza di ciò che non è profano, non è dato, non è mondano: sentimento di stupore che ingenera la tensione dell'ulteriorità.  Secondo noi, si tratta della struttura originaria della coscienza».[68]

 

Dopo queste nostre riflessioni, sono stati proposti agli studenti del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione e in Scienze della Formazione Primaria dei punti di approfondimento-riflessione:

il primo, sulla poesia di Ndjok Ngana, Prigioni, perché gli studenti riflettessero sui contenuti della poesia e simulassero un loro rapporto didattico-formativo d’aula scolastica con un ipotetico gruppo di allievi della Scuola Elementare. Ciò, per poter notare come avrebbero utilizzato quei ritrovati dati di conoscenza, nei riguardi di loro coetanei di altre culture religiose inseriti in contesti scolastici e di vita associata allargata: questa esperienza ha prodotto grande interesse e in molti notevoli perplessità;

il secondo, su un possibile loro rapporto socio-culturale con ipotetici ragazzi di fede musulmana i quali ultimi, citando alcuni versetti del Corano, avrebbero –nella simulazione- messo in evidenza elementi di riflessioni accomunanti, sotto certi aspetti eminentemente culturali e non dottrinari, giovani desiderosi di conoscere e progredire grazie alle informazioni ritrovate per riflettervi con coscienza critica.

E’ stato privilegiato da parte degli studenti la prima consegna. Evidentemente, era risultato molto difficiltoso, per i giovani autoctoni studenti universitari, entrare, anche se in dimensione di mera simulazione, con un mondo totalmente altro e poco conosciuto, nonostante le numerose presenze storicamente determinate, nel nostro Paese, di musulmani.

 

Per leggere i testi formulati dagli studenti, consultare il sito: www.scienzedellaformazione.it, (curato dal Dott. Alfonso Sciara, socio della nostra Sezione “Iqbal Masih”, docente nelle Scuole dell’obbligo dello Stato e collaboratore-tutor all’interno delle attività programmate dall’insegnamento di Pedagogia Generale della Facoltà di Scienze Motorie dell’Università degli Studi di Palermo).

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[1]G. LE BRAS, Un programma: La geografia religiosa, in «Annales d’histoire sociale>> 1945, Hommages à Marc Bloch (I)», pp. 87-112; ora raccolto nella traduzione italiana di A. SALSANO, in F. BRAUDEL (a cura di), La Storia e le altre scienze sociali.  Antologia delle <<Annales», Bari, Laterza,1982, p. 30.

 

2 G. LE BRAS, cit., pp. 32-33.

 

[3] M. MANNO, L'educazione pedagogica, in ID., Funzione pubblica della pedagogia, Palermo, Ila Palma, 1982, p. 214.

 

[4] Cfr. in proposito le interviste che BATTISTA MONDIN ha condotto con i teologi più

rappresentativi del nostro secolo, raccolte nel numero de «Il libro europeo» ad esse interamente dedicato, anno V, n. 18 gennaio-aprile 1982.

 

[5] PAUL RICOEUR, Existence et hermeneutique, in Interpretation der Welt, Echter-Verlag, Wur­zburg 1965; ora in ID., Il conflitto delle interpretazioni, Milano, Jaca Book, 1977, p. 18.

 

[6] Paul Ricocur precisa, nella stessa opera, che l'ermeneutica si annoda strettamente alla comprensione:  «Questo legame dell'interpretazione con la comprensione – nel senso ampio dell'intel­ligenza dei segni - è attestata da uno dei significati tradizionali della parola stessa di ermeneutica, il significato che ci proviene dal perì hermeneias di Aristotele. E’ interessante             - continua Ricocur-, ­infatti, che secondo Aristotele l’hermeneia non si limita all'allegoria, ma riguarda ogni discorso significante, anzi, è il discorso significante ad essere hermeneia, ad «interpretare» la realtà, nella misura in cui si dice - appunto - «qualcosa di qualcosa».  Si ha hermeneia dal momento che l'enunciazione è un cogliere il reale per mezzo di espressioni significanti, e non un estratto di pretese impressioni venute dalle cose stesse» (ibidem).

Con ERNEST FUCHS (di lui segnaliamo le opere tradotte in italiano Il Nuovo-Testamento e il problema ermeneutico, in J.M. ROBINSON-E.  FUCHS, La nuova ermeneutica, Brescia, Paideia, 1967, pp. 99-140.  L'opera più importante è Ermeneutica, Milano, Celuc, 1974; in quest'opera vi è una preziosa introduzione di C. VIGNA, che ha curato pure una meticolosa bibliografia fino al 1973 delle opere di E. Fuchs); e con GERHARD EBELING (di G.Ebeling ricordiamo Teologia e annuncio, tr. it., Roma, Città Nuova, 1972; Razionalismo critico e teologia, tr. it., Milano, Jaca Book, 1974, che contiene dei contributi di H. Albert. Interessante lo studio di R. MARLE, Parler de Dieu aujourd’hui.  La theologie hermeneutique de G. Ebeling, Paris, Du Cerf, 1975.  Cfr., pure, il volume di J.M.ROBINSON-E.FUCHS, cit..; e in «Associazione Biblica Italiana», Esegesi ed ermeneutica, Brescia, Paideia, 1972, soprattutto lo studio di P. GRECH, La nuova ermentutica: Fuchs ed Ebeling).  Con loro l’ermeneutica come teoria dell'interpre­tazione dei testi sacri non si porrà più come l'aspetto metodologico del campo della teologia, piuttosto come il fulcro e la condizione della teologia stessa.  Al punto che essa - l'ermeneutica, la «nuova ermeneutica» - sarà interpretazione della rivelazione come evento linguistico.

 

[7] M. MANNO, Valenza  antropologica della realtà educativa, in ID, Funzione pubblica della pedagogia, op. cit., p. 35. EDWARD SCHILLEBEECKX, Lo statuto critico della teologia, in Atti del Congresso su «L'avvenire della Chiesa», svoltosi a Bruxelles, Palais des Congres, 12-17 settembre 1970, in «Il libro del Congresso», Brescia, Queriniana, 1970, p. 86.

[8] Ma per approfondire ancor di più l'aspetto dialogico del rapporto risulta assai utile di HANS SCHILLING, Grundlagen der Religiospàdagogik, Dusseldorf, Patmas-Verlag, 1969; di quest'opera esiste una traduzione italiana parziale (la sola terza parte, che è tra l'altro, la parte più squisitamente pedagogica) curata da G. BEARI, il cui titolo italiano è Teologia e scienza dell’educazione. Problemi epistemologici, Roma, Armando, 1974.  L'autore, nella terza parte dell'opera in questione, dopo aver chiarito che la definizione del rapporto tra teologia e scienza dell'educazione è problema fondamenta­le della pedagogia della religione (pp. 67-70 - si cita l'edizione italiana -) affronta in un intero capitolo (pp. 71-129), prima, la tradizionale interpretazione cattolica del rapporto tra teologia e pedagogia, e successivamente (pp. 131-231) la critica di tale interpretazione attraverso la dimostra­zione del modello gerarchico di rapporto (pp. 139-176) e l'inadeguatezza - dice, appunto, H.Schilling - del modello analogico di rapporto (pp. 176-200).  La sua ricerca è, infatti, proiettata verso il raggiungimento di una dimensione dialogica del rapporto tra teologia e scienza dell’educazione.

 

[9] DANIELA SILVESTRI, Teologia e Pedagogia, in G. FLORES D'ARCAIS (a cura di), Nuovo Dizionario di Pedagogia, Roma, Edizioni Paoline, 1982, pp. 1243-1246.  Nello stesso Dizionario sarà utile consultare la voce Educazione religiosa, curata da W. BOHM, pp. 1065-1070; nonché le voci Pedagogia, Filosofia dell’educazione, Educazione, Cultura, Persona, tutte curate da G. Flores D'Arcais.

 

[10] J. MARITAIN, De Bergson à Thomas d'Aquin, Paul Hartmann Editeur, Paris, 1947, p. 152.  Interessanti, riguardo al modo di perfezione, risultano le precisazioni maritainiane le quali riprendo­no le argomentazioni tomasine del De Veritate (II, 2).  Così il filosofo francese si esprime: «In due modi una cosa può essere trovata perfetta.  In un modo, secondo la perfezione del suo essere, che le conviene secondo la sua specie propria.  Ma poiché l'essere specifico di una cosa è distinto dall'essere specifico di un'altra cosa, ne risulta che in qualsiasi cosa creata, alla perfezione che essa possiede manca tanta perfezione assoluta quanta se ne trova similmente posseduta in tutte le altre specie: in modo tale che la perfezione di ogni cosa considerata in se stessa è imperfetta, in quanto è parte della perfezione totale dell'universo, che nasce con la riunione di tutte queste perfezioni particolari unite tra loro ... . Secondo questo modo di perfezione è possibile che in una sola cosa particolare esista la perfezione dell'universo intero». (Cfr. J.  MARITAIN, Distitiguere per unire - I gradi del  sapere, Morcelliana, Brescia, 1974, p. 140).

[11] Per realismo critico si intende la concezione aristotelico-tomista della conoscenza, almeno nella ricerca maritainiana, la quale si differenzia pure da quella di molti neoscolastici i quali credono che «la sensazione non coglie che un termine soggettivo, oggettivato in un secondo momento grazie ad una interferenza» (J. MARITAIN, Distinguere per unire …, op. cit., p. 97, n. 1).  Per J.Maritain, i sensi, sì, percepiscono l'oggetto in quanto esistente cioè «nell'azione reale ed esistente da esso esercitata sui nostri organi di senso» (J.  MARITAIN,  Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente, Morcelliana, Brescia, 1974, p. 16), ma è l'intelligenza che scopre, in seguito, l'intelligibilità dell'oggetto, trasmesso prima dai sensi solo come esistente.  Per questo, «l'essere, in effetti, è l'oggetto proprio dell'intelletto; esso è inviscerato in tutti i concetti; proprio ad esso, in quanto inviluppato nei dati sensoriali, si riferisce originariamente la nostra intelligenza» (J.  MARITAIN, Distinguere per unire …, op. cit., p. 93).  Per Maritain, come è del resto per San Tommaso, è, dunque, l'esperienza che rappresenta il punto di partenza della scienza la quale riesce a scoprire nel sensibile «alcune necessità intelligibili che lo superano».  Esperienza, dunque, come punto di partenza e non come prodotto e, necessariamente, limite della scienza.

[12] Id., p. 140.

 

[13] V. FAZIO-ALLMAYER, Natura e Storia, dalle Lezioni di Filosofia Teoretica tenute nell'Univer­sità di Palermo nell'a.a. 1949-1950; in V. FAZIO-ALLMAYER, La Storia, Sansoni, Firenze, 1973, p. 172.

 

[14] Cfr.  J. MARITAIN, La filosofia morale, Brescia, 1971; in part. p. 179.

[15] Id., p. 174.

 

[16]B. FAZIO-ALLMAYER, Funzione del noumeno nel rapporto-identità scienza-filosofia e nel giudizio storico in Ugo Spirito e in Vito Fazio-Allmayer, in “Bollettino del Centro Siciliano Studi Filosofici «V.Fazio-Allmayer», Tea Mazzone, 1980, p. 19.

 

[17] Cfr.  V. FAZIO-ALLMAYER, op. cit.,p. 180.

Convinzione avvalorata, sempre dal nostro

punto di vista, dalla Soggettività che è Persona la quale crea e rispetta le singole persone le quali, appunto per l'atto creativo, non possono essere considerate «soggettività molteplici e sperimentanti i rnomenti di una soggettività unica» (Id., pp. 181 ss.) e, dunque, risultare soggettività-multipla come apparenza (II forma) (Ibid.).

 

[18] J.  MARITAIN, Ricordi e appunti, Morcelliana, Brescia, 1973, p. 10.

 

[19] V. FAZIO-ALLMAYER, op. cit., p. 191.

[20] J. MARITAIN, Umanesimo integrale, Borla, Torino, 1967, p. 66..

[21] In senso ontologico, né l'uomo né qualsiasi altra realtà può dirsi causa sui… perché

nemmeno Dio è causa di se stesso. «Dio è causa incausata; e il che è diverso» (cfr.  FERNANDO OCARIZ, Il pensiero di S. Tommaso, in AA.VV., Le ragioni dei tomismo, Ares, Milano, 1979, p. 136).

 

[22]S.  Tommaso, C.G., I, LXXII

[23]W. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1974, par. 35, pp. 59-60.

[24]S.  Tommaso, S.Th., II, Prologus .E’ da una tale impostazione, in ultima istanza, che si scoprono i segni del disordine di questa nostra società, la quale non è certamente un tutto composto di tanti tutti, è una realtà in cui domina «la confusione delle parti».  Sarà bene, perciò, ricordare che «nell'universale sarabanda, il compito temporale del cristiano è di cessare continuamente di ovviare a detta confusione delle parti» (J.  MARITAIN, Religione e cultura, Morcelliana, Brescia, 1966, p. 58) e può farlo mantenendo sempre, nella chiarezza, il concetto della persona e precisando che l'uomo, soggetto spirituale, è soggetto storico che «fa la storia mentre la storia fa l'uomo» (J. MARITAIN, Per una filosofia della storia, Morcelliana, Brescia, 1977, p. 30).  Ma nel senzo marxiano?

E’     eminentemente vero, come sostiene Marx, che gli uomini sono la propria storia entro condizioni di loro scelta ed entro condizioni ereditate e come imposte dal passato; ma, mentre per Marx ciò significa che la libertà dell'uomo sta nel prendere coscienza del moto della storia, diventandone momento propulsore ed assolutamente necessitante, per cui l'uomo, sembra, non abbia possibilità di modificare l'evolversi della storia; dal punto di vista cristiano, il soggetto storico, nel suo ordinarsi diretto a Dio, ma anche nel suo essere determinato dal dinamismo del passato, può, in quanto soggetto spirituale e libero, emergere, anche se con difficoltà, e trionfare della necessità stessa (Id., pp. 30 ss.). Ciò rimanda al problema della concezione della libertà (Maritain distingue tra libertà di scelta (o iniziale) e libertà di autonomia (o terminale): per la prima, l'uomo è sciolto da ogni determinismo, proprio perché se è determinato necessariamente, nel suo volere, soltanto dal «bene assoluto e concretamente universale», non lo è, però, da nessun'altra realtà esistente, la quale, è sempre bene parziale perché parte di quel «bene assolutamente saturante» (cfr. J.  MARITAIN, De Bergson à Thomas d'Aquiti, op. cit., pp. 189-205); per la seconda (la libertà di autonomia) l'uomo, avendo scelto, in virtù del libero arbitrio, un suo procedere nel reale (decisione mai prevedibile, neppure da Dio il quale «non prevede ma vede» (ibid.), l'uomo, ripeto, perché soggetto storico ma anche spirituale, mira non alla indipendenza divina (la quale lo porterebbe alla concezione immanentistica della libertà) ma a quella libertà terminale che è di dipendenza dal Creatore (ibid., pp. 206-218).  Per approfondire questi problemi specifici ed in genere il pensiero morale di Maritain, vissuto nell'ottica del rapporto tra fede e storia, cfr. S. Mosso, Fede, storia e morale, Massimo, Milano, 1979); e permette, così, di asserire che la storia è opera della libertà morale dell'uomo.  Verità, questa, che non si può estendere alla concezione marxiana della storia la quale, per la negazione, sul piano speculativo e non certamente su quello pratico, del libero arbitrio, può ammettere soltanto «un sentimento di libertà, ... e, di conseguenza, non può scorgere la zona di indeterminazione entro la quale si esercita tale libertà di scelta» (H.  BARS, Il pensiero politico di Maritain, Morcelliana, Brescia, 1965, p. 101; cfr. pure, G. COTTIER, Filosofia della storia e progetto di futuro, in AA.VV, Storia e Cristiatiesimo, Massimo, Milano, 1979, p. 213; v. J.  MARITAIN, Umanesimo integrale, op. cit., p. 157; per una bibliografia aggiomata sui problemi maritainiani cfr.  G. GALEAZZI, Persona Società Educazione, Massimo, Milano, 1979, pp. 363-383).

 

[25] H. SCHILLING, cit., p. 147.

 

[26] ) J. LACROIX, Il personalismo come anti-ideologia, Milano, Vita e Pensiero, 1974, p. 106.

[27] E. MOUNIER, Traité du caractère, in Oeuvres de  Mounier, Editions du Seuil, 1961, tome II, p. 7.

 

[28] E. MOUNIER, Il Personalismo, Roma, AVE, 1974, p. 77.

[29] Ibidem, p. 79.

 

[30] ) Ibidem, p. 134.

[31] V. POSSENTI, Persona, progetto di liberazione e filosofia in Mairitain e Marx, in AA.VV., Maritain e Marx, Massimo, Milano, 1978, p. 58.

V. POSSENTI, Persona, progetto di liberazione e filosofia in Mairitain e Marx, in AA.VV., Maritain e Marx, Massimo, Milano, 1978, p. 58.

 

[32] Per precisare i terrnini, in modo autorevole, è ben dire che la persona è sempre un tutto e che il concetto di parte è opposto a quella di persona. La persona è totalità che, in quanto tale, tende alla vita di relazione; essa, costituitivamente, è essere con gli altri e per gli altri; è qualcosa di talmente prezioso che il suo stesso Creatore la tratta con estrema delicatezza. «Una persona è un universo di natura spirituale, dotato della libertà di scelta e costituente un tutto indipendente di fronte al mondo; né la natura né lo Stato possono intaccare questo universo senza il suo permesso.  E Dio stesso, che è ed agisce dal di dentro, vi agisce in un modo particolare e con una delicatezza particolarmente squisita, che mostra in quale conto la tenga: rispetta la libertà della persona, nel cuore della quale egli, tuttavia, abita, la sollecita, non la forza mai» (J.  MARITAIN, Umanesimo integrale, op. cit., p. 66).

 

[33] Nelle varie forme di umanesimo, che si sono affermate in una concezione dell'uomo sempre più limitata ai fatti economici, ai bisogni biologici ed alle esigenze della vita psichica, si è trascurato il fondamento dell'essere personale che, per l'insegnamento sociale del Cristianesimo, costituisce il servizio migliore della valorizzazione dei diritti umani che trovano pratica difesa nella legge dell'uomo, in quanto creatura di Dio.  Quello che conta è di andare alla ricerca dell'uomo e dei suoi valori costitutivi e fondamentali che non possono essere trascurati in un'epoca come la nostra nella quale il progresso scientifico e tecnico non può essere valorizzato se vengono a mancare i valori spirituali sui quali è sempre possibile edificare e con successo.

 

[34] )EMMANUEL MOUNIER, Traité du caractère, op. cit., p. 7.

 

[35] Oggi, forse proprio per avere trascurato i valori fondamentali della vita umana, siamo entrati in un periodo di crisi e l'uomo cerca invano di conservare i lineamenti di un essere che si va disfacendo pur di dare libero sfogo agli interessi di vita materiale. Per superare questo stato di angoscia esistenziale, l’uomo, nella confusione di tanti valori a bella posta trascurati, deve cercare di scoprire che significa essere uomo ed uomo del proprio tempo. Egli deve scoprire il ruolo da svolgere nella civiltà contemporanea, deve trattare della sua funzione e deve anche combattere per essa. L'uomo ha bisogno di agire, di operare, di cooperare, oltre che di pensare e di sentire e, comunque, non deve mai subire ed essere accomodante se vorrà vivere da uomo, anzi deve creare le condizioni che lo porteranno a superare tutti gli ostacoli che la complessa civiltà nella quale egli vive potrà offrire; non deve farsi sopraffare dalla molteplicità delle stimolazioni che, da tutte le parti, cercheranno di dominarlo fino a renderlo schiavo, nell'eventualità sempre che egli non sappia trovare la forza per reagire e ritrovare se stesso.

 

[36] Cfr.  M. MANNO, Personalismo vecchio e nuovo, Messina 1971.

[37] E. MOUNIER, Le personnalisme, in Oeuvres de Mounier, op. cit., tome III, p. 429.

[38] J. MARITAIN, La persona e il bene comune, Morcelliana, Brescia, 1976, p. 8. Certamente, per

Maritain, bisogna evitare gli eccessi a difesa del personalismo tomista, che ne risulta valorizzato: «è questo personalismo che ci interessa, il personalismo fondato sulla dottrina di San Tommaso d'Aquino» (ibidem.) per il quale bisogna separare, in maniera coraggiosa e sicura, ogni filosofia centrata sul primato dell'individuo e del bene privato dall'autentica filosofia sociale che si fonda, invece, sulla dignità della persona umana.  Per questo, sarà necessario insistere e costruire una pedagogia della vita sorretta sulla distinzione metafisica di individualità e personalità.

 

[39] Un aspetto altrettanto importante è quello della funzione, nell'uomo, dell'intelligenza.  Questa è determinante non solo per la sua capacità produttiva e creativa ma anche per l'individuazio­ne, in essa, di alcune fasi di passività e di ricettività che, ad un osservatore superficiale, potrebbero apparire negative.  L'intelligenza urnana, infatti, per potere produrre dei concetti e per dare ad essi validità deve attraversare o, meglio, concrescere con dette fasi.  L'intelligenza per potere dare i suoi frutti, per essere attiva, ha bisogno di creare le premesse per le sue conclusioni, deve essere prima che creativa, facoltà che ha bisogno dell'ascolto.

 

[40] E J.Maritain, in parte, ha descritto questo comportamento tipico dell'intelligenza moderna fissata al segno, ricorda H.Bars, che si precipita al di là del reale ed al di là delle altre intelligenze in uno zampillo di formule ed in un'incessante fabbricazione di concetti «per trarre partito dall'essere, proteggendosi da esso, dispensandosi dal subirlo» (H.BARS, Prefazione, in AA.VV., Jacques Maritain, Morcelliana, Brescia, 1967, p. 7.). Ma come sarà possibile, si chiede Henry Bars, un «autentico dialogo tra intelletti gettati l'uno contro l'altro ed incapaci di intendersi reciprocamente>» (Ibid., p.7). Indagando sulle ragioni della crisi attuale, emersa dal contemporaneo confluire dell’egemonia dell'inorganico e dell'oscurarnento dell'intelligenza, si deve far notare, come dice bene D. D'Orsi, come essa ha perduto il suo autentico significato di continua nascita, continua crisi, per acquisire quello di crisi di volgarità, ossia «di apertura verso il basso - l'inconscio, l'inorganico e l'irrazionale - e di chiusura verso l'alto - l'organico, il razionale e il sovrarazionale -, in cui si concretano le forme superiori dell'essere nella loro ascesa e gerarchizzazione spirituqle» (D.  D'ORSI, L'uomo al bivio. Immanentismo o Cristianesimo?  Saggio di realismo esistenztale, Cedam, Padova, 1973, p. 75; per un approfondimento della tematica in D'Orsi, ibid., pp. 73-107; pp. 443-460).

 

[41] E. MOUNIEP, Révolution personnaliste et communautaire, in Oeuvres ..., tome I, p. 133; tr. it. a cura di LAURA FRUA, Edizioni di Comunità Milano, 1949, p. 15.

 

[42] Certamente, in questo particolare caso, enormi sono le responsabilità dei genitori, il cui compito dovrebbe consistere, tra gli altri obblighi, nel sapere indirizzare i figli verso scelte appropriate e costruttive per la loro conquista di un'adeguata personalità. Significativo l'imperativo di Muñoz Alonso il quale sostiene che «i genitori non sono liberi di fare con i loro figli ciò che vogliono, bensì sono obbligati a fare dei loro figli ciò che devono (m. M. ALONSO, Scuola libera per una educazione integrale, in Educazione e Società, La Scuola, Brescia, 1965, p. 376.  Fondamentale, certamente, la lettura di N. GALLI, Pedagogia dello sviluppo umano, La Scuola, Brescia, 1984 e ID., Educazione morale e crescita dell'uomo, Brescia 1979, e ID. (a cura di), Esigenze educative dei giovani d'oggi, Milano 1983, e ID., Educazione dei giovani nella famiglia, Milano 1984.

 

[43] E. Mounier, prendendo le difese della gioventù del suo secolo, ci testimonia, anche con il suo impegno, che valore ha la giovinezza, ma, soprattutto, ci comunica quale, in effetti, sia il vero senso della gioventù. Ascoltiamo E.Mounier: «difendo la giovinezza, non quella stabilita dall'età fisica, ma quella che trionfa su quel nemico immortale che sono le abitudini e che si raggiunge lentamente, con gli anni.  Questa è la giovinezza che ha la meglio sull'altra e, di quando in quando, giustifica la sua irruzione piuttosto violenta nelle calme fila degli adulti ... . Se l'uomo non nega con tutte le proprie forze, non si indigna con tutte le proprie forze, non si preoccupa della critica e un po' troppo di armonia intellettuale, prima ancora di avere sofferto il mondo in se stesso fino allo spasimo, allora è un povero essere, una povera anima che già sente la morte»; e più avanti si domanda: «quando gli altri si renderanno conto che la grandezza dell'uomo sta nel non rompere con la sua infanzia, con l'avventura, la fragilità, le indignazioni assolute, le ingenuità e il dono incalcolabile dell'eterna infanzia ed accetteranno questa realtà?  Gli infantilismi hanno breve vita.  L'infanzia non ha tempo.  A mano a mano che gli anni passano, per conservarla bisogna riconquistarla vincendo l'età.  Infanzia matura, infanzia grave, infanzia dolorosa» (E. MOUNIER Révolution..., op. cit., p. 130; tr. it., p. 8). Ebbene l'uomo in questione sta vivendo proprio una reale infanzia dolorosa, grave ma per questo matura ed in una realtà storica a dir poco miserevole. Perché questo?  Evidentemente non viviamo la rivoluzione autentica, la quale colpendo non l'esterno solidissimo che compensa falsamente la fragilità interiore e quindi inessenziale nella sua solidità, ma colpendo al cuore della società (qui, colpire il cuore della società ha il solo unico significato di destare le persone da un sonno mortale e far sì che esse continuino la loro autenticità che è eminentemente fondata sull'eticità) - società che, in questo frangente storico, è fragile ­permetterebbe la rinascita della società composta da persone le quali, riconquistando il loro essere più intimo, vivrebbero autenticamente. Il terrorismo, forma ambigua di rivoluzione, perché rivolta violenta, momento di irrazionalità da qualsiasi parte si origina, a quali esiti contrari dà vita? Funerali di uomini, vittime delle loro scelte ideologiche, ma anche funerali di uomini comuni, inseriti nel sistema per la sua stessa logica. Il terrorismo procura solo morte, perché esso è solo sulla facciata di questa società che fa deflagrare le sue bombe; il momento della razionalità, che non disconosce né i fini né i mezzi idonei per il raggiungimento di una giusta causa, è disperso, per cui solo il momento della distruzione violenta può essere il suo assurdo e disumano comportamento. Basterebbe che la persona, la quale è ciò che prima definivamo il fulcro della società, si realizzasse nella sua autenticità; e, per essa, si annullerebbero le false esteriorità ed il terrorismo non avrebbe ragion d'essere. E’ inesatto affermare che il terrorismo colpisce al cuore dello Stato, perché esso non può assolutamente infierire contro la società civile e politica, se la società è anche e virtualmente umana.  Il terrorismo è cosciente della inesistenza, anche momentanea, di un cuore dello Stato e, nella speranza di conquistarlo, lo colpisce nella sua esteriorità, nella sua facciata bellamente costruita per nascondere la tragicità del reale. Il terrorismo nulla può contro l'autenticità della vita.

Direi che assistiamo al conflitto tra il bene ed il male.  Ma il male non può affrontare il bene, nel conflitto, perché ne uscirebbe sconfitto, senza che abbia potuto avere neppure il tempo di pensare di combattere.  Insiste, così, a dannarsi ed a colpire sulle appariscenze della società inautentica che resiste per quello che può; ma che, purtroppo, con una soluzione forse banale, potrebbe, in queste condizioni di miseria della società, zittire il terrorismo e continuare a crescere, più di prima, fruttuosa di danni. E’                    la persona che resta vittima di questa costruzione immane e dolorosa.  Il compito, l'impegno del vivere cristianamente nel mondo sarà allora quello di liberare la persona, operando in modo che il male si renda vano: esso, infatti, si annulla al cospetto dell'autenticità della vita.  Ma, nel conflitto, che, per il cristiano, costituisce il senso profondo della storia, dove il male non è considerato necessario quanto il bene, né come cammino che conduce al bene, ma come aspetto significativo della nostra miseria, come possibilità di sofferenza, attribuibile alle condizioni del non vivere intensamente una esistenza dominata dall'amore, se chi opera il male si rende conto che la persona e quindi la società si sono vestite di aspetti malvagi che offendono l'uomo - e nella nostra società ne abbiamo tanti di esempi - allora esso, in diverse maniere, attacca, illudendosi di potere dominare la persona che, però, è solo assopita.

 

[44]Op. Cit.

[45] J. MARITAIN, La  persona e il bene comune, op. cit., 1976, pp. 29-30.  La posizione di J.Maritain, al riguardo, è particolarmente chiara e fondata su principi ben saldi che, in verità, non si discostano dal discorso di un Mounier il cui atteggiamento è condivisibile per le scelte da adoperare in una realtà contaminata da «un disordine stabilito».  Ma è chiaro e ben evidente che articolare un programma operativo o di azione e realizzarlo nell'ambito della visione realistico-tomista, che è quella maritainiana, serve appunto ad evitare l'errore e a non creare le condizioni di un movimento che si alimenta di un rapporto immediato con il quotidiano.  Il problema sta, allora, nel cercare di tendere verso la prospettiva dell'ideale storico concreto maritainiano.

 

[46] J. MARITAIN, La persona e il bene comune, op. cit., p. 30..

[47] Ibid., p. 30.

 

[48] E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communaitaire, op. cit., p. 141; tr. it., p. 26.

[49]                     J. LACROIX, Mounier éducateur, in «Esprit», 1950, pp. 839-851.

[50] J. MARITAIN, Les Droits de l’homme et la Loi naturelle, New York, p. 32; it. in La persona e il bene comune, op. cit., p. 40.

 

[51] I fondamenti evangelici della concezione cristiana favoriscono la promozione umana ed invitano tutti gli uomini ad operare in modo tale che, nella pienezza della loro fede, possano fare splendere nelle azioni da essi compiute le forme più alte della vita umana. Il compito che il Cristianesimo affida all'umanità è di redenzione, di conversione e di rigenerazione, attraverso la conquista della Verità, compito che gli uomini potranno realizzare anche nella società contemporanea a condizione che osservino questa regola con piena libertà creatrice, in rapporto con quanto si è stati, più umilmente fedeli nell'ascolto della lezione dei maestri, dell'esperienza e dell'essere.  E tra i macstri il primo posto è occupato dal Cristo. Il personalismo di Maritain e di Mounier trova il suo fondamento in una concezione cristiana della vita ed il suo vincolo, il suo punto di connessione nell'impegno etico-politico, che si fa pedagogico, estremamente coerente con la fede professata. La definizione del personalismo maritainiano come personalismo tomista ci indurrebbe a non potere collegare Maritain a Mounier; ma il tomismo, in Maritain, acquista un significato molto complesso, perché nell'impostazione metafisica della questione individuo-persona, come fondamento si dà anche una chiave di interpretazione che serve per la definizione di ideale storico concreto e per la soluzione dei problemi sociali, per cui vi è una strada diversa da seguire, un diverso rapporto tra persona e individuo. «L'uomo, come individuo, è ordinato al bene della comunità sociale e politica, come persona, e, invece, il termine verso il cui bene è ordinata la società e lo Stato, perché solo la persona può realizzare in modo autonomo e cosciente il fine suo e di ogni realtà che è Dio stesso» (A.  RIGOBELLO, Il personalismo di J. Maritaiti e di Emmanuel Mounier, in AA.VV., Maritain, op. cit., p. 60). Il merito di Maritain fu quello di avere attribuito, anche nelle sue opere più ricche di impegno teoretico, una funzione sociale per una interpretazione dei problemi del tempo, e così lo stesso fondamento teoretico-aristotelico-tomista viene da lui accettato senza per questo essere condizionato nello sviluppo del suo pensiero espresso in modo moderno per dare soluzioni alle concezioni di vita del mondo contemporaneo.  Egli segue così una linea di indagine e di sviluppo tracciata da San Tommaso e cerca di dare soluzioni ad alcuni problemi che erano stati lasciati aperti; in tal modo, il suo pensiero non va considerato come un progresso teorico del tomismo ma come efficace strumento per una chiarificazione ed utilizzazione per le tematiche più vive della nostra epoca, rispettando la tradizione culturale francese. Il suo compito è quello di cercare di dare una spiegazione ai problemi del suo tempo, attualizzando ciò che sta a fondamento della posizione tomista, per dare valore e significato ai problemi più concreti e più vicini alla sensabilità culturale ed umana della nostra situazione storica. Cfr., pure, per quanto riguarda la conquista della libertà e della giustizia sociale, le argomenta­zioni di NORBERTO GALLI, Educazione ai valori della scuola di stato, Milano, Vita e Pensiero, 1982; ID., Educazione morale e crescita dell'uomo, cit.

 

[52] Non è questo il ricorso ad un'utopia (B. SUCHODOLSKY, Trattato di pedagogia.  Educazione per il tempo futuro, Armando, Roma) di cui sappiamo la non realizzabilità immediata né forse anche a lungo tennine.  Tali sono le difficoltà e le carenze di resistenza proprie degli uomini.  Ma è necessario che ciò avvenga per realizzare una tensione esistenziale ed essenziale in primo luogo. B.Suchodoisky, ad esempio, dopo aver chiarito che il pensiero pedagogico si smarrisce, sia quando si stabilisce su affermazionì di una pedagogia dell'esistenza che dell'essenza, acutamente sostiene che «la pedagogia dovrebbe essere pedagogia dell'esistenza nello stesso tempo che pedagogia dell'essenza» ed aggiunge poi che «questa sintesi deve esigere condizioni che la società borghese non realizza», per concludere che «la sintesi delle due pedagogie deve esigere che siano aperte determinate prospettive di miglioramento della vita quotidiana, al di sopra dei suo attuale livello.  L'ideale non deve né sanzionare la vita attuale, né prendere una forma del tutto estranea a questa vita» (B. SUCHODOLSKY, Pedagogia dell’essenza e pedagogia dell’esistenza, Armando, Roma, p. 117).

 

[53] Significativa, al proposito, una lettera che Maritain scrisse ad Emmanuel Mounier, fondatore della rivista Esprit, il quale ultimo, pensò che la rivoluzione personalista potesse seguire quella collettivistica. Ascoltiamolo: «Secondo il mio parere è molto importante che si sappia esplicitamente che voi - si rivolge a Mounier ed ai suoi collaboratori della rivista Esprit – ponete il Cristianesimo prima della rivoluzione e che ciò che proponete è di separare le condizioni per una rivoluzione cristiana e non - il che sarebbe tutto il contrario - un accordo su una rivoluzione equivoca presa come fine a se stessa, ciò avrebbe il solo effetto di decomporre la coscienza cristiana rendendola condiscendente alla rivoluzione distruttiva ed atea» (10-11-1935) (JACQUES PETIT (a cura di), j. Maritain - E. Mounier.  Corrispondenza 1929-1939, Morcelliana, Brescia, 1976, pp. 76-79). Precisiamo che la presa di posizione del filosofo era condizione preliminare per una semplice collaborazione della rivista; e nella stessa lettera ricordava a Mounier: «la rivista non deve essere l'organo di un partito ma un laboratorio di ricerche». Qui traspare chiaramente l'esigenza dell'indipendenza per l'uomo che ricerca la verità; e, credo, debba essere questo lo stile di vita del cristiano.

 

 

[54] Così dice Maritain, in uno dei suoi testi politici più importanti, La lettera sull'Indipendenza del 1935. Espressioni queste che meriterebbero un attimo di riflessione, per eludere quelle possibili derivazioni che metterebbero in stato di eventuale limitazione il vivere dell'uomo, sembrerebbe, quasi esclusivamente nella fede ed il vivere del filosofo quasi esclusivamente nell'attività di partecipazione all'intelligenza. I due aspetti, invece, proprio perché animati dalla spiritualità del Cristianesimo, si compenetrano nella distinzione e nella gradazione di partecipazione nei confronti dell’Essere. Significativa, in questo contesto, l'immagine di quel filosofo che contemplando gli spazi infiniti del cielo si rese conto che la luce, la quale gli ricordava la perfezione e che apparentemente era impareggiabile, quella del sole - che fuor di metafora dovrebbe significare la potenza conoscitiva -, in effetti è poca cosa rispetto allo splendore di tutti gli astri dell'Universo intero nel loro essere creature. Tra il filosofo che è cristiano, adunque, ed il cristiano che non è filosofo non c'è una differenza di grado ma una identica partecipazione alla potenza infinita dell'Essere, nel rispetto, certamente, delle distinzioni. Ma ricolleghiamoci al nostro dire, ricordando ancora quella lettera che abbiamo prima citato, quella di Maritain a Mounier del novembre 1935, la quale esprimeva un aspetto quanto mai importante per capire quale deve essere l'atteggiamento del cristiano nel mondo e cioè: il Cristianesimo agente di un'autentica rivoluzione. Indicativa mi sembra al proposito la considerazione di Mencarelfi il quale, riprendendo delle argomentazioni approfondite da Leclercq in La rivoluzione dell'uomo nel XX secolo, sosteneva che «il nostro secolo ha alimentato ed alimenta la maggior rivoluzione che sia mai esistita: la rivoluzione dell’uono, che ben diversa da quelle di carattere politico o di carattere tecnologico (queste, meccaniche nelle reazioni che provocano; quelle violente specie nel passato o presso i popoli sottosviluppati), nasce per la trasformazione delle coscienze» (M.  MENCARELLI, Scuola di base e educazione permanente, La Scuola, Brescia, 1976, p. 72).

 

[55] P.  PRINI, Umanesimo programmatico, Armando, Roma1965, p. 31.

[56] R. SCHWARZ, La formazione coore problema e compito, oggi, in H. ROHRS (a cura di), Scienza  dell’ educazione e realtà dell'educazione, 1960, citato in H. SCHILLING, cit., p. 149.

[57] )M. MANNO, Educare alla pace, in ID., Funzione  pubblica.., tit., p. 26.

 

[58] Cfr.  E. WENIGER, citato in H. SCHILLING, cit., p. 153.

[59] M. MANNO, Per un  approfondimento lei linguaggi scientifici in ID., Funzione pubblica, cit., pp. 46-62.

 

[60] H. SCHILLING, cit., pp. 159-160. Aggiungiamo: il problema non è di accettare o no la possibilità della ricerca teologico-religiosa in termini di scientificità, ma cercare di capire come si possa vivere un rapporto dialogico, ad armi pari con la ricerca teologica, che pur ha un suo presupposto scientifico di una forza ineguagliabile e cioè Dio rivelato!  Kantianamente, rispondiamo che il problema pedagogico è sempre legittimo purché sia assunto soltanto dalla parte dell'uomo con tutti i suoi limiti e tutte le sue imperfezioni ma sempre perfettibili, perché la pedagogia che intendiamo è, come teoretica, «discorso sulla paideia, e quindi tutt'uno con la filosofia come antropologia filosofica, tutt'uno con la filosofia morale e deontologica, ed è dunque un discorso transdisciphnare e interdisciphnare insieme (entro cui non possono non rientrare tutte le scienze e discipline che operano per l'uomo)» (M. MANNO, Itinerari dell’educazione fondamentale, op. cit., p. 13).  Ma, allora, il dialogo è possibile ed è pure aggiustabile, sempre, perché la fede non può porsi come momento iniziale di un pensiero che sia realmente pedagogico. Ma Dio è rivelato!  Sì, d'accordo, è qui con noi ma che «riappare quando avremo domande radicali da porre, quando vi saranno poveri da sfamare; ... egli è qui con noi ogni qual volta vi sia un uomo in croce» (M. MANNO, Educare alla pace, op. cit., p. 25).  A questo punto, credo che possa risultare quanto mai probante riportare una, potrei dire, lectio di M.Manno, relativamente al problema del rapporto tra cristianesimo e cultura scientifica.  Leggiamola: «scopriamo legami profondi fra l'atteggiamento cristiano e la scienza, se è vero che il pensiero scientifico nasce in noi quando ci rifiutiamo di identificare o di ridurre la causa di un fenomeno nella sua pura presenzialità, e questa causa cerchiamo oltre ogni presenza degli eventi e delle cose, in uno spostamento verso l'ulteriorità che non può avere mai fme (e la filosofia critica ne è controllo e garanzia costante), perché nell'attimo stesso in cui uno scienziato credesse di avere trovato la causa ultima dei suoi oggetti, ovverosia il significato totale dell'esperienza, ricadrebbe nella non-scienza, nell'empirismo, nell'iden­tificazione fra principio e principianti.  Atteggiamento sperimentale, questo dell'indagine scientifica, certamente favorito se non addirittura generato dal cristianesimo, che pone il Principio fuori dal mondo, e più sopra del cielo stellato, e neanche dentro di noi - sostiene M.Manno - semmai in quella zona più profonda ed inconoscibile che Agostino metaforicamente definiva interiorità.  Un mondo senza Dio può essere manomesso, vivisezionato, scombinato e ricombinato artificialmente: non è più sacro nel senso che un Dio stia dentro.  Sacro è soltanto quel vincolo che lega tutte le cose del mondo ad un principio affermabile fuori del campo.  Agostino e Godel forse rivivono la medesima prospettiva» (M. MANNO, Educare alla pace, op. cit., p. 27). Prezioso questo accostamento a Kurt Godel, il teorico del teorema dell'incompletezza, per il quale viviamo la situazione che esistono proposizioni che il sistema - Godel parla del sistema formale contenente la teoria dei numeri - non è capace di «decidere»: cioè non è capace né di dimostrare il loro essere né il loro non-essere.  Ed allora è possibile pensare ad una proposizione che esiste, è studiata, è conosciuta, ma non sappiamo «deciderci» nel dire perché essa sia, ed allora, tentando di «deciderci» nell'asserire ché essa non sia ci accorgiamo dei nostri limiti ad operare pur anche una simile dimostrazione.  E’ questo accostamento di Agostino a Godel che ci invita a procedere per la nostra strada che è tensione verso gli sconfinamenti i più disparati nel riconosci­mento della nostra finitudine tesa verso il suo continuo superarnento ed annullamento.  Ed ancora il desiderio, l’aspirazione prettarnente umana dei videndi Deum si avvalora, si rafforza, ci costringe, quasi; e non perché vogliamo sostenere che Dio si annulli in una proposizione, ma perché, per noi che ricerchiamo, si pone come proposizione, in quanto oggetto di ricerca per l'uomo condizionato dal mondo, attento a tutti i suoi problemi, a tutte le sue vicissitudini piacevoli, più o meno, ma rinvigorito da questa forza di aspirazione verso l'ulteriore, il non-dimostrabile, l'incondizionato, il non-raggiungibile almeno per la nostra situazione imperfetta di esseri vincolati e attanagliati dalle «cosalità».

Adorno, per esempio, nella sua Teoria estetica dice, quasi con perizia da poeta: «le opere - si riferisce alle opere d'arte propriamente intese, quindi alle opere che, comunque, sono dell'uomo ­ parlano come le fate delle favole: tu vuoi l’incondizionato, ti sia concesso, però irriconoscibile», cioè - come dice sempre Adorno - «le opere quali monadi senza finestre rappresentano quel che esse non sono» (TH.W. ADORNO, Teoria estetica, trad. it. Einaudi, Torino, 1977, p. 10).  Si pone, così, il problema della verità che, nei Minima moralia viene desunta da Adorno come ciò che non è che ciò che è (TH.W. ADORNO, Mnima moralia, tr. it. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1954; cfr., pure, le traduzioni degli aforismi, mancanti nell'edizione già citata, a cura di G. CARCHIA, raccolti sotto il titolo Minima imMoralia, Milano, L'Erba Voglio, 1976); ciò sta a significare che è precluso all’uomo possedere compiutamente la verità perché essa è capace di trascendere pienamente la nostra condizione umana, anche nel momento del nostro procedere spazializzato e temporalizzato «lungo i sentieri del tempo e della nostra storia».  Il problema, allora, per l'uomo votato alla criticità ed educato alla razionalità non è quella di negare Dio per assurgere ad una presunta libertà – che sarebbe piuttosto disimpegno verso i veri valori del mondo e del vivere in esso - perché come pur sostengono Horkheimer ed Adorno «la negazione di Dio implica in sé una contraddizione insuperabile, in quanto nega il sapere stesso» (M.  HORKHEIMER-TH.W. ADORNO, Dialettica dell'illumini­smo, Torino, Einaudi, 1966, p. 125).

 

[61] M. HEIDEGGER, Fenomenologia e teologia, trad.it. Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 26.

[62] Diamo per scontato che l'ancillarità della teoria pedagogica dalla teologia non è più proponibile nello stile del nostro tempo e per le nostre finalità da raggiungere in un situs generativo di cultura, quale può essere la scuola.  Ma, a questo proposito utile la lettura di H.Schilling, perché chiarificatrice.  Egli fa notare che la pedagogia cattolica se assumesse una posizione di non-dialogo con tutti i rinnovamenti avvenuti nel campo delle scienze «dovrebbe teorizzare ad un livello ben lontano dalla prassi (H.  SCHILLING, cit., p. 140: Il discorso portato avanti dall'autore appare rivolto alla sola realtà tedesca, ma noi crediamo che le meditazioni in proposito valgano per il nostro argomentare per dimostrare che un sì grande problema non può essere limitato ad un'area linguistico-culturale settorializzata, ma può valere a livello più esteso); e, riprendendo una terminolo­gia riconosciuta, anche se in seguito perfezionata da studiosi come Brezinka, egli distingue: prassi educativa (Padagogie) come «immediata realizzazione pedagogica e rispettivo pensiero concreto, già insite in questa realizzazione» (H.  SCHILLING, cit., p. 142); dottrina sull'educazione (Padagogik) «che mette insieme giudizi e presenta norme ricavate dalla saggezza prescientifica, dal tesoro dell'esperien­za, e specialmente da tradizioni religiose o idelogiche, in conformità alle quali si deve procedere nella prassi educativa» (H.  SCHILLING, cit., pp. 142-143); ed infine scienza dell'educazione (Erzieun­gswissenschaft) che, nel senso stretto della parola, si distingue dal grado teorico, normativo e regolare della prassi «soprattutto per il fatto che essa paga le notevoli pretese epistemologiche che le sono proprie (validità universale, rivedibilità intersoggettiva, verificabilità, falsificabilità) con la consape­vole rinuncia a intenzioni normative, per il fatto quindi (in altre parole) che essa non stabilisce ­come è dovere della dottrina dell'educazione - ciò che si deve fare ma soltanto ciò che effettivamente avviene (H.  SCHILLING, cit., p. 143). Ed opera questa distinzione per porre in evidenza che la pedagogia cattolica, quella tradizionale, è adeguabile al secondo di questi tre gradi perché essa è dottrina dell'educazione, ed in quanto adeguabile, appunto, viene a porsi tra la teologia e la scienza dell'educazione. Ci accorgiamo allora che ogni tentativo di mediazione di questo genere non conduce, certamente, ad un sano e corretto rapporto di dialogicità tra le due scienze poste a confronto, quanto piuttosto di sudditanza dell'una rispetto all'altra, al punto che si realizza una quasi identificazione, tra l'altro, apparente, tra le due scienze: infatti, in questo caso, ecco che la pedagogia cattolica si fa teologia dell'educazione.  Non è questa, assolutamente, la dimensione che, almeno da parte nostra, si vuole raggiungere: non è la confusione delle parti l'ideale da cogliere, piuttosto è l'assoluta esigenza di vedere gli elementi talmente distinti nel rapporto da evidenziare in essi l'essere co-elementi giustificantisi l'uno con l'altro e fondantisi l'un l'altro.  Ma è doveroso aggiungere che se una pedagogia si fa teologia dell'educazione o anche filosofia dell'educazione ciò avviene, sì, per un processo - diciamo pure - di fusione tra le parti ma ove è sempre una delle due, sicuramente, quella dominante e, cioè, nel particolare contesto, quella teologica o filosofica che sia.  E H.Schilling, infatti, nota che la pedagogia cattolica «qualora si abbassasse al livello di materia accessoria della teologia o                 - aggiunge pure - a sgabuzzino della scienza dell'educazione, non avrebbe quella dignità, cui dovrebbe tenere incondizionatamente per la serietà della materia» (H. SCHILLING, cit., p. 144).  Anche per queste ragioni, l'autore dichiara di preferire il termine «scienza dell'educazione» a quello di «pedagogia», perché con essa sembra delinearsi meglio «una certa astensione dalla teologia».  H.Schilling fa, comunque, notare che anche se dà la preferenza al. termine scienza dell'educazione è perché vuole inserire nel contesto dato un accento utile che fa emergere maggiormente la convenzione scientifico-educativa ma che non intende tuttavia in alcun modo provocare l'impressio­ne che l'intesa significhi parimenti, in questo punto, unanimità in tutti gli altri problemi riguardanti la discussione sui punti-base della scienza dell'educazione (cfr.  H. SCHILLING, cit.).

 

[63] M. MANNO, L'educazione religiosa in una scuola laica, in ID., Per una pedagogia della scuola, Palermo, Ila Palma, 1984, pp. 158-159.

 

[64] M. LAENG, L'insegnamento religioso da <fondamento e coronamento» a scelta di coscienza, in B.VERTECCHI (a cura di), Scuola elementare e muovi programmi, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 53 ss.

 

[65] Cfr. il mio «Religione Teosofia Filosofia>. Lettura di un'opera di Santino Carawella, in «Nuove Ipotesi. Quaderni di cultura pedagogica per la ricerca e l'aggiornamento». 1, 1986, pp. 18-34.

 

[66] ) Cfr.  M. MANNO, Per una pedagogia della scuola, op. cit.; e ID., Tre saggi sull'educazione, Palermo, Ila Palma, 1984.

[67]

[68] M. MANNO, L'educazione religiosa ..., op. cit., pp. 157-158.

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