Riflessione sugli articoli di Oriana
Fallaci (Corriere
della Sera, 29/09/01), Chiara
Valentini (L’espresso,
4/10/01), Dacia
Maraini (Corriere
della Sera, 5/10/01), Umberto Eco (La Repubblica 5/10/01) e
proposta di lavoro per una lettura allargata dei
suddetti articoli.
di
Manlio
Montalbano
a):La lettura dell’articolo di Oriana Fallaci
ha suscitato in me perplessità, preoccupazione, disapprovazione. Mi riferisco
in particolare ai passi nei quali l’autrice stenta a definire cultura (parla
di “pseudocultura”) l’insieme delle conoscenze, dell’arte, della
religione e dei modi di vita dell’Oriente e afferma di provare disagio nei
confronti degli immigrati Arabo-Musulmani in Occidente.
Mi sembra sconcertante il modo in cui la Fallaci si
chiede perché la polizia del Governo Italiano non sia riuscita a consegnare
alla Giustizia alcun terrorista, affermando con assoluta certezza le collusioni
tra gli immigrati Arabo-Islamici che vivono in Occidente e l’organizzazione di
Bin Laden. La Fallaci tocca tanti temi che sarebbe interessante approfondire, ma
sia quando parla della cultura Americana in rapporto alla cultura Europea ed
alle culture altre, sia quando muove forti critiche all’Italia, soffermandosi
sul concetto di “Patria”, sembra mossa da una rabbia accecante che non fa
scorgere le pur difficili, possibilità di dialogo e confronto tra
“orizzonti” culturali lontani.Credo che la maggior parte di noi dinanzi agli accadimenti dell’undici
settembre abbia provato paura, disperazione, rabbia, angoscia; tuttavia credo
sia dovere di tutti nei diversi ruoli nei quali ci troviamo impegnati, tentare
di riflettere profondamente chiedendosi “ perché”, oltre le emozioni più
immediate. Con la consapevolezza che anche noi, semplici cittadini, siamo
chiamati in causa da quanto è successo, che la storia non è qualcosa che ci
“ scorre addosso ” e rispetto alla quale siamo inermi spettatori, ma è un
processo al quale partecipiamo quotidianamente con le nostre scelte e la nostra
responsabilità di essere uomini, sebbene in alcuni possa non esser viva questa
consapevolezza.
Responsabilità verso noi stessi e versi gli
altri da noi (con i quali costruiamo una Comunità ) che dovrebbe spingerci a
cercare e sperimentare migliori forme di convivenza, a vivere ed affondare
conflitti e fraintendimenti che non possono mancare senza averne paura,
orientati dall’idea-progetto d’una società più aperta e plurale, d’un
futuro possibile sebbene lontano e difficile.
La dimensione della responsabilità credo
richiami, o meglio, venga posta in essere da un’altra dimensione della quale
abbiamo parlato nell’ultima lezione ( del 11/10/01): la dimensione della
progettualità, quella della tensione creativa verso il “non ancora”, verso
l’ignoto, senza la quale ogni essere umano rischia la disumanità.
Ritornando all’esame degli articoli credo che
l’importanza delle opinioni della Valentini e della Maraini stia
nell’aver colto che la “ risposta culturale” a quanto accaduto, non può
essere perentoria ed assoluta affermazione di superiorità di una cultura su
un’altra; una simile posizione non può che creare risentimenti e reazioni,
alimentando una spirale di pregiudizi, nel senso negativo del termine, e rancori
“esplosivi”.
Sono perfettamente d’accordo con la Maraini quando
afferma che il dolore, che si prova dinnanzi di vittime innocenti non ha patria
e che uomini che occupano posti di potere e responsabilità come Bush ed il Papa
abbiano agito con grande equilibrio rapportandosi ad uomini ed istituzioni
dell’Islam.
L’articolo di Chiara
Valentini, sollecita un interrogativo difficile ed inquietante: in che
misura il pregiudizio razzista si annida in noi senza che ne siamo consapevoli?
E, davvero, in noi italiani c’è un oscuro razzismo latente? La parte peggiore
di noi, ha trovato perfetta espressione nelle parole della Fallaci?
Certo, il rapporto con le
proprie radici culturali ed il confronto con le culture diverse dalla propria,
è tremendamente delicato e difficile, e rivela la parzialità con le quale
siamo portati a giudicare, che c’impedisce quel “decentramento cognitivo”
indispensabile per la realizzazione di una prospettiva “Interculturale”.
Per questo credo che il saggio di Umberto Eco colga
il problema del confronto delle culture nel modo più appropriato.
Eco affronta lucidamente il problema dei
“parametri” nella valutazione delle culture, però non posso fare a meno di
domandarmi se il confronto con una cultura diversa a partire
dall’interrogativo se sia essa più o meno sviluppata di altre non sia, di per
se, una trappola che rischia di non far andare lontano.
Un giorno prima della pubblicazione dell’articolo
della Fallaci, il quotidiano “La Stampa” pubblicava un’intervista inerente
alla drammatica situazione Internazionale di questi giorni che, però, non
suscitava lo stesso clamore delle opinioni della scrittrice italiana.
L’intervistato era Hans Georg Gadamer,
“quercia filosofica” del novecento, massimo esponente dell’ermeneutica. Le
parole di Gadamer rivelano una profonda inquietudine ed una grande incertezza
sul futuro dell’umanità.
Gadamer è ben consapevole della distanza –che a
volte può apparire incolmabile- tra la cultura Islamica e quell’Occidentale,
ma è allo stesso modo convinto che “una guerra all’islam” sarebbe
assurda. E che la filosofia debba continuare ad interrogarsi ed a ricercare un
intesa possibile. Il filosofo tedesco si sofferma su due aspetti che segnano una
profonda diversità tra le due culture: la concezione di Dio e la concezione
della morte; “per l’Islam –afferma Gadamer- la trinità è un concetto
inconcepibile, nella religione islamica non si riesce ad immaginare una
concezione dialettica della trinità” e “La morte non è la fine della vita
ma l’inizio di una vita nuova, più alta”.
Gadamer sa bene che “Bisogna sempre tentare la
strada della comprensione”, cercare “le condizioni praticabili per la
costruzione d’un futuro sensato, razionale”, anche in momenti bui come
quello che stiamo vivendo. Il professore conclude rivolgendosi al passato,
lasciando aperto un interrogativo: “Che cosa portò gli Arabi ad arretrare?
Quale fu il motivo che piegò la loro forza?” Quando, nel XVIII sec.,si
fermarono alle porte di Vienna.
Viviamo un momento davvero difficile, quanto accaduto
ed i bombardamenti sull’Afghanistan trasmettono un senso di disagio e
sconfitta: sebbene la Violenza è sempre stata una delle “forze motrici”
della storia, non si può abbandonare l’idea di un mondo in cui lo sterminio
di vite innocenti sia il lontano ricordo d’un passato “ancestrale”. La
Filosofia, anche la Pedagogia, nella sua riflessione teoretica e nella pratica
educativa, è irrinunciabilmente chiamata a porre nuove domande ed a proporre
modelli per una convivenza più piena e pacifica.
b):Nell’ipotesi di dover condurre una lettura
allargata dell’articolo della Fallaci o dell’insieme degli articoli sopra
esaminati, vorrei porre alcune questioni preliminari alla realizzazione del
progetto.
1) Il ruolo dell’educatore: La asimmetria
costruttiva del rapporto educatore-educando non dovrebbe affatto condurre alla
sovrapposizione delle idee del primo sulle opinioni dei secondi, ma è un
rischio da tener sempre presente nello svolgersi della pratica educativa.L’educatore non dovrebbe minimamente influenzare le
letture degli educandi, semmai dovrà accoglierle per come sono ed aiutare a
problematizzarle nel momento della discussione collettiva.
Attraverso il dialogo e la circolazione nitida delle
diverse opinioni credo si possa creare un’atmosfera che permetta ai singoli
soggetti educandi di interrogarsi sulla validità della propria opinione, di
sviluppare una dimensione autocritica ed aperta al proprio pensare.
L’educatore dovrebbe stimolare gli educandi a porsi
dei “perché” sui difficili problemi che fanno da sfondo agli articoli in
questione e sulle posizioni che vanno via via emergendo. L’educatore più che
fornire risposte definitive o porre domande specifiche credo debba sollecitare
negli educandi la dimensione dell’”interrogarsi”, del “porre delle
domande”. L’altra dimensione fondamentale sarebbe quella del confronto e
dell’ascolto dell’altro da sé, nel tentativo di realizzare una
partecipazione interiormente sentita, per andare oltre la convivenza
“distratta e consumistica”,come la ha definita Chiara Valentini, alla quale
rischiamo di abituarci.
Nella pratica pedagogica la dimensione dialogica è
stata diversamente affrontata e sperimentata, ma un riferimento irrinunciabile
credo possa essere la “Maieutica di gruppo”, realizzata da Danilo Dolci
nelle comunità in cui ha operato.
Essa, attraverso il confronto, permette
“l’evolversi”,il maturare delle individualità componenti il gruppo, oltre
l’individuazione di soluzioni possibili ai problemi posti.
Nella pratica della formazione intesa come
Trasformativa, vorrei sottolineare l’importanza del saper porsi domande per
prendere coscienza della propria esperienza e della propria condizione
esistenziale; vorrei qui riferirmi alla Dialettica di Domanda e Risposta
proposta da Hans Georg Gadamer per una sua possibile “utilizzazione
pedagogica”.
Nel suo complesso e specifico Discorso Filosofico,
Gadamer, definisce “Esperienza Dialettica “quell’esperienza che ci
consente di cambiare il nostro modo di vedere noi stessi ed il mondo fuori di
noi e che ci fa prendere coscienza della nostra condizione esistenziale (della
nostra finitezza).
Ora, ciò che è alla base
d’una esperienza intesa in tal modo è proprio la Domanda, la cui struttura
interrogativa ci permette di sospendere le nostre parzialità e che da luogo ad
un dialogo autentico nel quale vanno prese in considerazione tutte le opinioni
emerse, anche quelle che appaiono deboli e poco efficaci.
L’esperienza ed il dialogo autentici non hanno un
punto di arrivo assoluto e definitivo, anzi educano alla disponibilità di
ascoltare ed alla apertura ad altre possibili esperienze ed a sempre nuove
domande.
Come afferma Gadamer: “( … ) Il compiuto essere
di colui che chiamiamo esperto non consiste nel fatto che egli sa già tutto e
sa tutto meglio. (…) La Dialettica dell’esperienza non ha il suo compimento
in un sapere, ma in quell’apertura all’esperienza che è prodotta
dall’esperienza stessa.”*
2) I Soggetti educandi: gli educandi
dovrebbero essere messi nella condizionare di esprimere il loro parere
apertamente, senza “timori reverenziali”.
Per l’efficace realizzazione del progetto
l’educatore dovrebbe saper creare una atmosfera tale, da far loro superare i
propri imbarazzi e, soprattutto, che non trasmetta l’idea che sulle loro
opinioni possa appuntarsi un giudizio di merito o di disapprovazione. La ricerca
dell’uno e la paura dell’altro rischierebbero seriamente di inibirli Altro
problema sarebbe quello di realizzare una Comunicazione efficace che consenta la
circolazione delle opinioni così da coinvolgere tutti i componenti il gruppo o
la classe. Credo, anzi, che proprio da loro e tra loro la discussione;
l’educatore non dovrà certo estraniarsi e potrà prendere parte al dibattito
anche in modo significativo, ma credo, in primo luogo, come attento ascoltatore
e sollecitatore di dubbi per invitare eventualmente ad una riconsiderazione di
quanto emerso dal confronto.
3) Altri problemi: alcuni problemi riguardanti
l’effettiva realizzazione del progetto vanno senz’altro esaminati.
Nell’ipotesi di operare in una scuola credo si
ponga il problema dei tempi che richiede una simile iniziativa e del come
inserirla nei programmi di studio; la lettura degli articoli pone in questione
temi di grande approfondimento come il concetto di cultura, il confronto fra le
cultore, le differenze etniche e culturali che caratterizzano la società nella
quale viviamo.
Non sarebbe possibile, allora, realizzare un
programma di Storia – calibrato in profondità e non in estensione, come
auspica H. Gadamer – che affronti il problema del rapporto fra l’occidente e
le culture altre? Programma che potrebbe da un lato rispondere ad esigenze di
comprensione realmente sentite dagli educandi vista la drammatica attualità di
questi problemi e, dall’altro, favorire quel modo di comprensione ed analisi
proprio delle scienze storichein
nome di una educazione al comprendere.
L’età degli educandi dovrebbe essere considerata
decisiva dall’educatore nello scegliere il modo di realizzazione del progetto.
Credo che sia diverso relazionarsi su questi problemi con educandi delle scuole
medie e con educandi delle scuole superiori. Forse, considerata l’ansia
generata dagli avvenimenti dell’undici settembre, potrebbe rivelarsi opportuna
una discussione su quanto accaduto, durante la quale, ciascun ragazzo esprima i
propri pensieri e le proprie emozioni.
La lettura potrebbe essere realizzata singolarmente
da ciascun soggetto che poi ne esprimerebbe le sue opinioni ed i suoi
interrogativi nel momento del dibattito, oppure- specie se si tratta di più
articoli- in gruppi che a partire dal confronto al loro interno svilupperebbero
brevi relazioni dalle quali far prender il via al dibattito.
L’eventuale divisione in
piccoli gruppi di lettura, potrebbe rivelarsi un’esigenza qualora il numero
dei ragazzi fosse elevato; potrebbe anche essere importante decidere un tempo
massimo per gli interventi iniziali. Il lavoro potrebbe concludersi con una
relazione finale. Quest’ultima, credo, non dovrebbe fondarsi sulle opinioni più
seguite, ma sullo svolgimento del confronto, sulle idee e le posizioni emerse
che hanno dato vita ai momenti di maggiore problematizzazione.
*
Verità e
metodo,
Bompiani, 1972, -Trad. e cura di G.Vattimo
**L’intervista
a Hans Georg Gadamer, realizzata da Francesco Sforza, è apparsa su “La
Stampa” del 28/09/2001.