LA VOCE DEGLI STUDENTI

“biblíon”                                                                                                                                                                giugno-dicembre  2001

 

Riflessione sugli articoli di Oriana Fallaci (Corriere della Sera, 29/09/01), Chiara Valentini (L’espresso, 4/10/01), Dacia Maraini (Corriere della Sera, 5/10/01), Umberto Eco (La Repubblica 5/10/01) e proposta di lavoro per una lettura allargata dei suddetti articoli.

di 

Manlio Montalbano 

a): La lettura dell’articolo di Oriana Fallaci ha suscitato in me perplessità, preoccupazione, disapprovazione. Mi riferisco in particolare ai passi nei quali l’autrice stenta a definire cultura (parla di “pseudocultura”) l’insieme delle conoscenze, dell’arte, della religione e dei modi di vita dell’Oriente e afferma di provare disagio nei confronti degli immigrati Arabo-Musulmani in Occidente.

Mi sembra sconcertante il modo in cui la Fallaci si chiede perché la polizia del Governo Italiano non sia riuscita a consegnare alla Giustizia alcun terrorista, affermando con assoluta certezza le collusioni tra gli immigrati Arabo-Islamici che vivono in Occidente e l’organizzazione di Bin Laden. La Fallaci tocca tanti temi che sarebbe interessante approfondire, ma sia quando parla della cultura Americana in rapporto alla cultura Europea ed alle culture altre, sia quando muove forti critiche all’Italia, soffermandosi sul concetto di “Patria”, sembra mossa da una rabbia accecante che non fa scorgere le pur difficili, possibilità di dialogo e confronto tra “orizzonti” culturali lontani. Credo che la maggior parte di noi dinanzi agli accadimenti dell’undici settembre abbia provato paura, disperazione, rabbia, angoscia; tuttavia credo sia dovere di tutti nei diversi ruoli nei quali ci troviamo impegnati, tentare di riflettere profondamente chiedendosi “ perché”, oltre le emozioni più immediate. Con la consapevolezza che anche noi, semplici cittadini, siamo chiamati in causa da quanto è successo, che la storia non è qualcosa che ci “ scorre addosso ” e rispetto alla quale siamo inermi spettatori, ma è un processo al quale partecipiamo quotidianamente con le nostre scelte e la nostra responsabilità di essere uomini, sebbene in alcuni possa non esser viva questa consapevolezza.

Responsabilità verso noi stessi e versi gli altri da noi (con i quali costruiamo una Comunità ) che dovrebbe spingerci a cercare e sperimentare migliori forme di convivenza, a vivere ed affondare conflitti e fraintendimenti che non possono mancare senza averne paura, orientati dall’idea-progetto d’una società più aperta e plurale, d’un futuro possibile sebbene lontano e difficile.

La dimensione della responsabilità credo richiami, o meglio, venga posta in essere da un’altra dimensione della quale abbiamo parlato nell’ultima lezione ( del 11/10/01): la dimensione della progettualità, quella della tensione creativa verso il “non ancora”, verso l’ignoto, senza la quale ogni essere umano rischia la disumanità.

Ritornando all’esame degli articoli credo che l’importanza delle opinioni della Valentini e della Maraini stia nell’aver colto che la “ risposta culturale” a quanto accaduto, non può essere perentoria ed assoluta affermazione di superiorità di una cultura su un’altra; una simile posizione non può che creare risentimenti e reazioni, alimentando una spirale di pregiudizi, nel senso negativo del termine, e rancori “esplosivi”.

Sono perfettamente d’accordo con la Maraini quando afferma che il dolore, che si prova dinnanzi di vittime innocenti non ha patria e che uomini che occupano posti di potere e responsabilità come Bush ed il Papa abbiano agito con grande equilibrio rapportandosi ad uomini ed istituzioni dell’Islam.

L’articolo di Chiara Valentini, sollecita un interrogativo difficile ed inquietante: in che misura il pregiudizio razzista si annida in noi senza che ne siamo consapevoli? E, davvero, in noi italiani c’è un oscuro razzismo latente? La parte peggiore di noi, ha trovato perfetta espressione nelle parole della Fallaci?

Certo, il rapporto con le proprie radici culturali ed il confronto con le culture diverse dalla propria, è tremendamente delicato e difficile, e rivela la parzialità con le quale siamo portati a giudicare, che c’impedisce quel “decentramento cognitivo” indispensabile per la realizzazione di una prospettiva “Interculturale”.

Per questo credo che il saggio di Umberto Eco colga il problema del confronto delle culture nel modo più appropriato.

Eco affronta lucidamente il problema dei “parametri” nella valutazione delle culture, però non posso fare a meno di domandarmi se il confronto con una cultura diversa a partire dall’interrogativo se sia essa più o meno sviluppata di altre non sia, di per se, una trappola che rischia di non far andare lontano.

Un giorno prima della pubblicazione dell’articolo della Fallaci, il quotidiano “La Stampa” pubblicava un’intervista inerente alla drammatica situazione Internazionale di questi giorni che, però, non suscitava lo stesso clamore delle opinioni della scrittrice italiana.

L’intervistato era Hans Georg Gadamer, “quercia filosofica” del novecento, massimo esponente dell’ermeneutica. Le parole di Gadamer rivelano una profonda inquietudine ed una grande incertezza sul futuro dell’umanità.

Gadamer è ben consapevole della distanza –che a volte può apparire incolmabile- tra la cultura Islamica e quell’Occidentale, ma è allo stesso modo convinto che “una guerra all’islam” sarebbe assurda. E che la filosofia debba continuare ad interrogarsi ed a ricercare un intesa possibile. Il filosofo tedesco si sofferma su due aspetti che segnano una profonda diversità tra le due culture: la concezione di Dio e la concezione della morte; “per l’Islam –afferma Gadamer- la trinità è un concetto inconcepibile, nella religione islamica non si riesce ad immaginare una concezione dialettica della trinità” e “La morte non è la fine della vita ma l’inizio di una vita nuova, più alta”.

Gadamer sa bene che “Bisogna sempre tentare la strada della comprensione”, cercare “le condizioni praticabili per la costruzione d’un futuro sensato, razionale”, anche in momenti bui come quello che stiamo vivendo. Il professore conclude rivolgendosi al passato, lasciando aperto un interrogativo: “Che cosa portò gli Arabi ad arretrare? Quale fu il motivo che piegò la loro forza?” Quando, nel XVIII sec.,si fermarono alle porte di Vienna.

Viviamo un momento davvero difficile, quanto accaduto ed i bombardamenti sull’Afghanistan trasmettono un senso di disagio e sconfitta: sebbene la Violenza è sempre stata una delle “forze motrici” della storia, non si può abbandonare l’idea di un mondo in cui lo sterminio di vite innocenti sia il lontano ricordo d’un passato “ancestrale”. La Filosofia, anche la Pedagogia, nella sua riflessione teoretica e nella pratica educativa, è irrinunciabilmente chiamata a porre nuove domande ed a proporre modelli per una convivenza più piena e pacifica.

b): Nell’ipotesi di dover condurre una lettura allargata dell’articolo della Fallaci o dell’insieme degli articoli sopra esaminati, vorrei porre alcune questioni preliminari alla realizzazione del progetto.

1) Il ruolo dell’educatore: La asimmetria costruttiva del rapporto educatore-educando non dovrebbe affatto condurre alla sovrapposizione delle idee del primo sulle opinioni dei secondi, ma è un rischio da tener sempre presente nello svolgersi della pratica educativa. L’educatore non dovrebbe minimamente influenzare le letture degli educandi, semmai dovrà accoglierle per come sono ed aiutare a problematizzarle nel momento della discussione collettiva.

Attraverso il dialogo e la circolazione nitida delle diverse opinioni credo si possa creare un’atmosfera che permetta ai singoli soggetti educandi di interrogarsi sulla validità della propria opinione, di sviluppare una dimensione autocritica ed aperta al proprio pensare.

L’educatore dovrebbe stimolare gli educandi a porsi dei “perché” sui difficili problemi che fanno da sfondo agli articoli in questione e sulle posizioni che vanno via via emergendo. L’educatore più che fornire risposte definitive o porre domande specifiche credo debba sollecitare negli educandi la dimensione dell’”interrogarsi”, del “porre delle domande”. L’altra dimensione fondamentale sarebbe quella del confronto e dell’ascolto dell’altro da sé, nel tentativo di realizzare una partecipazione interiormente sentita, per andare oltre la convivenza “distratta e consumistica”,come la ha definita Chiara Valentini, alla quale rischiamo di abituarci.

Nella pratica pedagogica la dimensione dialogica è stata diversamente affrontata e sperimentata, ma un riferimento irrinunciabile credo possa essere la “Maieutica di gruppo”, realizzata da Danilo Dolci nelle comunità in cui ha operato.

Essa, attraverso il confronto, permette “l’evolversi”,il maturare delle individualità componenti il gruppo, oltre l’individuazione di soluzioni possibili ai problemi posti.

Nella pratica della formazione intesa come Trasformativa, vorrei sottolineare l’importanza del saper porsi domande per prendere coscienza della propria esperienza e della propria condizione esistenziale; vorrei qui riferirmi alla Dialettica di Domanda e Risposta proposta da Hans Georg Gadamer per una sua possibile “utilizzazione pedagogica”.

Nel suo complesso e specifico Discorso Filosofico, Gadamer, definisce “Esperienza Dialettica “quell’esperienza che ci consente di cambiare il nostro modo di vedere noi stessi ed il mondo fuori di noi e che ci fa prendere coscienza della nostra condizione esistenziale (della nostra finitezza).

Ora, ciò che è alla base d’una esperienza intesa in tal modo è proprio la Domanda, la cui struttura interrogativa ci permette di sospendere le nostre parzialità e che da luogo ad un dialogo autentico nel quale vanno prese in considerazione tutte le opinioni emerse, anche quelle che appaiono deboli e poco efficaci.

L’esperienza ed il dialogo autentici non hanno un punto di arrivo assoluto e definitivo, anzi educano alla disponibilità di ascoltare ed alla apertura ad altre possibili esperienze ed a sempre nuove domande.

Come afferma Gadamer: “( … ) Il compiuto essere di colui che chiamiamo esperto non consiste nel fatto che egli sa già tutto e sa tutto meglio. (…) La Dialettica dell’esperienza non ha il suo compimento in un sapere, ma in quell’apertura all’esperienza che è prodotta dall’esperienza stessa.”*

2) I Soggetti educandi: gli educandi dovrebbero essere messi nella condizionare di esprimere il loro parere apertamente, senza “timori reverenziali”.

Per l’efficace realizzazione del progetto l’educatore dovrebbe saper creare una atmosfera tale, da far loro superare i propri imbarazzi e, soprattutto, che non trasmetta l’idea che sulle loro opinioni possa appuntarsi un giudizio di merito o di disapprovazione. La ricerca dell’uno e la paura dell’altro rischierebbero seriamente di inibirli Altro problema sarebbe quello di realizzare una Comunicazione efficace che consenta la circolazione delle opinioni così da coinvolgere tutti i componenti il gruppo o la classe. Credo, anzi, che proprio da loro e tra loro la discussione; l’educatore non dovrà certo estraniarsi e potrà prendere parte al dibattito anche in modo significativo, ma credo, in primo luogo, come attento ascoltatore e sollecitatore di dubbi per invitare eventualmente ad una riconsiderazione di quanto emerso dal confronto.

3) Altri problemi: alcuni problemi riguardanti l’effettiva realizzazione del progetto vanno senz’altro esaminati.

Nell’ipotesi di operare in una scuola credo si ponga il problema dei tempi che richiede una simile iniziativa e del come inserirla nei programmi di studio; la lettura degli articoli pone in questione temi di grande approfondimento come il concetto di cultura, il confronto fra le cultore, le differenze etniche e culturali che caratterizzano la società nella quale viviamo.

Non sarebbe possibile, allora, realizzare un programma di Storia – calibrato in profondità e non in estensione, come auspica H. Gadamer – che affronti il problema del rapporto fra l’occidente e le culture altre? Programma che potrebbe da un lato rispondere ad esigenze di comprensione realmente sentite dagli educandi vista la drammatica attualità di questi problemi e, dall’altro, favorire quel modo di comprensione ed analisi proprio delle scienze storiche  in nome di una educazione al comprendere.

L’età degli educandi dovrebbe essere considerata decisiva dall’educatore nello scegliere il modo di realizzazione del progetto. Credo che sia diverso relazionarsi su questi problemi con educandi delle scuole medie e con educandi delle scuole superiori. Forse, considerata l’ansia generata dagli avvenimenti dell’undici settembre, potrebbe rivelarsi opportuna una discussione su quanto accaduto, durante la quale, ciascun ragazzo esprima i propri pensieri e le proprie emozioni.

La lettura potrebbe essere realizzata singolarmente da ciascun soggetto che poi ne esprimerebbe le sue opinioni ed i suoi interrogativi nel momento del dibattito, oppure- specie se si tratta di più articoli- in gruppi che a partire dal confronto al loro interno svilupperebbero brevi relazioni dalle quali far prender il via al dibattito.

L’eventuale divisione in piccoli gruppi di lettura, potrebbe rivelarsi un’esigenza qualora il numero dei ragazzi fosse elevato; potrebbe anche essere importante decidere un tempo massimo per gli interventi iniziali. Il lavoro potrebbe concludersi con una relazione finale. Quest’ultima, credo, non dovrebbe fondarsi sulle opinioni più seguite, ma sullo svolgimento del confronto, sulle idee e le posizioni emerse che hanno dato vita ai momenti di maggiore problematizzazione.


* Verità e metodo, Bompiani, 1972, -Trad. e cura di G.Vattimo

**L’intervista a Hans Georg Gadamer, realizzata da Francesco Sforza, è apparsa su “La Stampa” del 28/09/2001.

BACK