LA VOCE DEGLI STUDENTI

“biblíon”                                                                                                                                                                giugno-dicembre  2001

 

SAGGEZZA E HUMOR

di

Marco Mazzeo

 

La graduale perdita del concetto di distanza e di confine geografico che caratterizza ormai le nostre esperienze quotidiane ci autorizza, secondo Poul Virilio, a parlare di una “fine della gografia”. Se il “vicino” è lo spazio in cui possiamo sentirci come a casa nostra, il “lontano” è invece lo spazio in cui dobbiamo confrontarci con l’imprevedibile. Lo spazio nel corso della storia, è stato concepito in funzione del corpo, ma nell’età della comunicazione globale, come dice ancora Virilio, “la distinzione fra qui e la non significa più nulla” Dove non ci sono confini si vive una condizione di nomadismo. Non si può restare fermi sulle sabbie mobili, ha scritto Zygmunt Bauman, distinguendo però in questo quadro complesso, un primo mondo cosmopolita, i cui confini statali  sono realmente aperti e un secondo mondo i cui confini sono segnati dai controlli sull’immigrazione. Se dunque nel primo mondo si viaggia da turisti, nel secondo si viaggia da clandestini. Tanto i turisti quanto i vagabondi sono tuttavia guidati, sostiene Bauman, dall’estetica del consumo e il vagabondo è solo un consumatore che non può permettersi determinate scelte. Il vagabondo diviene così “l’alter ego” del turista  e se il vagabondo ammira il turista, “vedere il vagabondo fa tremare il turista, non per ciò che il vagabondo è, ma per ciò che il turista potrebbe diventare”. Riflettendo allora sul pensiero di Gadamer quando sostiene che “Se nell’altro e nel diverso noi possiamo in qualche modo incontrare noi stessi, è anche vero che in noi stessi possiamo incontrare l’altro e il diverso quali elementi costitutivi della nostra identità individuale e storica” comprendo che forse l’arte può segnare il punto d’incontro di culture altre. Infatti, lo spaesamento, la decontestualizzazione, il nomadismo, che emergono da questo quadro non costituiscono un’esclusiva peculiarità tardo moderna o post-moderna, in quanto l’arte del primo ‘900 (si pensi a Duchamp) rifletteva già una situazione metamorfica, proprio per questo credo  che da sempre, l’arte sia un momento di aggregazione culturale. Dato che la cultura è necessità biologica e condivisione di codici, è cognizione ed emozione, è idea ed esercizio empirico, è formazione dell’identità personale e collettiva ed  è interazione col contesto di appartenenza, nulla ci impedisce di dare al linguaggio (musicale, poetico, figurativo ecc...) il primato di cultura che può accomunare individui. Il pensiero di Goethe sintetizza tutto ciò: “Non si può fuggire al mondo così bene che attraverso l’arte e non ci si può legare maggiormente come attraverso l’arte”. Ma attenzione! Il prevalere della rappresentazione sulla realtà vissuta, il progressivo affievolirsi della dimensione corporea a favore della virtualità e la particolare libertà e leggerezza che ne deriva, ha portato alcuni a proporre un’analogia tra il cyberspazio, nel quale ci muoviamo oggi, e la condizione paradisiaca o limbica. Purtroppo lo sfondo di questo panorama è grigio, vi si avverte infatti la rassegnata consapevolezza che dopo la stagione delle utopie, siamo giunti in una fase in cui non ci rimane che accogliere, scorgendovi persino la piena libertà, una situazione in cui non riusciamo a distinguere fra la scelta e l’accettazione della necessità. L’unica via di fuga , a mio parere, è da ricercarsi nell’interculturalità che ci fa vivere criticamente e umoristicamente la nostra grigia condizione. Se non vogliamo allontanarci molto dagli ambienti paradisiaci pocanzi evocati, possiamo richiamare alla memoria un proverbio ebraico che dice:” L’uomo pensa, Dio ride”. Riflettendo su questo proverbio, Milan Kundera immagina che un giorno Rabelais, dopo aver udito la risata di Dio, si sia dedicato al Gargantua e Pantagruel. Fra i neologismi introdotti da Rabelais, ricorda Kundera, vi è la parola aghelaste che viene dal greco e significa colui che non ride, che non ha il senso dello humor. Rabelais detestava gli aghelasti... Non avendo mai udito la risata di Dio, gli aghelasti sono convinti che la verità sia evidente, che tutti gli uomini debbano pensare le stesse cose e che loro stessi siano esattamente ciò che pensano di essere. Ma l’uomo diviene individuo proprio quando perde la certezza della verità e il consenso unanime degli altri. L’intercultura ci ricorda che, come scriveva Ortega y Gasset, “essere artista equivale a non prendere sul serio l’uomo così serio qual è ciascuno di noi quando non siamo artisti”. Quindi seguire il progetto interculturale potrebbe aiutarci a coltivare un umorismo sempre aperto al confronto. Un umorismo che consapevole della molteplicità dei punti di vista, sia in grado di cogliere gli echi lontani di quella risata che smaschera le presuntuose certezze etnocentriche e culturocentriche delle ideologie occidentali.

Marco Mazzeo

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