Masochisti tu dici «siamo masochisti
perché, vogliamo farlo questo discorso sul contrasto fra
le due culture?». E qui con foga impaziente sostieni che
non vuoi nemmeno sentire parlare di due culture, perché
le si metterebbero sullo stesso piano «come fossero due
realtà parallele». E parti come un ciclone a fare quello
che chiunque abbia una briciola di buon senso ti direbbe
non si può fare: una comparazione fra civiltà. Non c’è
bisogno di avere studiato antropologia (un’arte
squisitamente europea, figlia di una cultura
illuminista, attenta verso l’altro, il diverso), per
sapere che ogni confronto fra culture è insensato. In
quanto la civiltà è in movimento, non ha niente di
monolitico, sfugge al concetto di bene e di male. Ogni
cultura, anche la più apparentemente primitiva, vive di
valori, di regole, con una sua cosmogonia e una sua rete
di relazioni e di beni affettivi che non possono essere
disprezzate mai, per nessuna ragione. Non è inferiore un
congolese perché va scalzo a pescare i pesci con la
lancia e muore di Aids a trent’anni. Qualcuno potrebbe
raccontarci che una terra ricchissima, la sua, piena di
diamanti e di rame, è stata devastata, sequestrata e
rapinata da chi aveva soldi e fucili, lasciando
quell’uomo all’età della pietra. Ogni essere umano fa
parte di un sistema di conoscenze e di opinioni più o
meno sfortunato, più o meno vincente, ma sempre degno di
vivere dignitosamente nel rispetto altrui. C’è stato un
periodo in cui la civiltà africana contava più di Roma e
di Atene. Per non parlare dell’Islam, fra l’altro molto
vicino a noi. «Siamo figli dello stesso Dio» ha detto
umilmente papa Wojtyla. Per molti secoli l’Islam ha
insegnato all’Europa come contare le stelle, come
calcolare la distanza dei pianeti, come pensare e
scrivere le operazioni matematiche.
Le civiltà
salgono e scendono, hanno momenti di prosperità e
momenti di stasi e di povertà. Ma certamente è folle
attribuire ai poveri la colpa di essere tali. Anche
perché spesso, in nome della superiorità di razza e di
un Dio severo, proprio chi si sentiva dalla parte del
Bene e della Verità ha derubato, confiscato,
schiavizzato chi considerava «ignorante e selvaggio».
Lasciamo stare il discorso sulle civiltà. Dopo
millenni di odii e di guerre per lo meno dovremmo avere
imparato questo: che il dolore non ha bandiera. Che ciò
a cui aspira la maggioranza delle persone è una
convivenza pacifica fra individui di diversa cultura e
diversa fede.
Proprio le torri di Manhattan
visibilmente ci dicono una cosa sacrosanta: che la
civiltà oggi è fatta di un crogiolo di culture diverse.
In quelle torri ferite a morte convivevano civilmente
persone di quaranta nazionalità. L’America non sarebbe
quella che è se non avesse accolto nel suo seno i neri
d’Africa, i musulmani d’oriente, i cinesi, i giapponesi,
gli irlandesi, eccetera. L’America che tu ami non ha
avuto paura di perdere la sua identità (eppure qualcuno
che non voleva riconoscere dignità ai lavoratori
stranieri c’era anche allora, erano i Sudisti, e per
conquistare la libertà di pensiero e di tolleranza è
stata fatta una guerra civile sanguinosissima). È la
migliore America quella che ha vinto, l’America
dell’accoglienza e della solidarietà. Io stessa in
questi giorni lo sto provando sulla mia pelle cosa vuol
dire multietnicità. Mia nipote, figlia di mia sorella e
di un conosciuto pittore marocchino, ha sposato un
irlandese americano da cui ha avuto un bambino che in
questi giorni è stato battezzato nella chiesa di Santa
Maria del Popolo a Roma. Il bambino, Fosco Gabriele,
porta in sé il seme di civiltà diverse: da grande
parlerà l’inglese, l’arabo, l’italiano e il francese.
Non per questo la civiltà occidentale sarà messa in
pericolo.
Il fatto è che i Paesi ricchi e potenti
possono permettersi delle libertà a cui i Paesi poveri
spesso non hanno accesso: la libertà di parola, la
libertà di pensiero, la libertà di istruzione, la
libertà della democrazia e della ricerca scientifica e
artistica. Sapere accogliere il diverso è una conquista,
una forza, non una debolezza. Sono le nazioni che si
sentono ai margini della storia, che hanno difficoltà di
sopravvivenza, che affrontano il futuro con dolore e
frustrazione a trovarsi impelagate nell’odio. Così come
si odiano delle persone costrette a condividere una casa
di trenta metri quadrati, che dispongono di una sola
pagnotta per dieci bocche, che vedono morire i figli per
malattie che altrove vengono curate e guarite. Essere
ricchi e potenti non vuol dire automaticamente essere
migliori. Ma certamente vuol dire avere più
responsabilità. E mi sembra che in questo momento il
Presidente Bush e i suoi consiglieri stiano dimostrando
molta sensatezza nel distinguere, chiarire, prendere le
distanze dall’odio appunto e dalla vendetta. Mi è
sembrata anche ottima l’idea di andare a frugare nei
conti di questi terroristi miliardari. È lì che si
annidano le prove dell’orribile delitto pensato a freddo
e commesso in nome di un Dio pazzo e crudele.
Tu parli degli emigrati che approdano
sulle nostre coste con sommo disprezzo quasi fossero
loro i responsabili dell’eccidio: «Più che di una
emigrazione si è trattato di una invasione condotta
all’insegna della clandestinità. Io non dimenticherò mai
i comizi in cui l’anno scorso i clandestini riempirono
le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno.
Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati,
minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla
Teheran di Khomeini»... Strano, come ognuno veda quello
che vuole vedere. Non so se guardando meglio, senza
prevenzioni, avresti scorto quello che ho scorto io e
tanti altri con me: la disperazione di chi aveva
lasciato la casa e il paese per sfuggire ad una guerra
feroce o per cercare un lavoro, anche il più umile,
purché gli permettesse di sopravvivere. Certo in mezzo a
loro sono scesi anche dei delinquenti, tali e quali a
quelli di casa nostra. Ma guai a non distinguere i
giusti dagli ingiusti! Si fa una grave offesa alla
verità.
Non puoi non vedere che la maggioranza
degli emigrati sono povera gente che non sa dove
sbattere la testa. E scappano, come scappano gli afghani
in questi giorni, dalle loro case, per paura delle bombe
e della miseria. Non riesco proprio a capire come tu
possa dire, con tanta baldanza: «peggio per loro»! «Se
in alcuni Paesi le donne sono così stupide da accettare
il chador, peggio per loro. Se sono così scimunite da
accettar di non andare a scuola, non andare dal dottore,
non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se sono
così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro
mogli, peggio per loro»! Eppure tu sai benissimo che
quelle donne rischiano la vita solo nel mostrare una
mano nuda. Non è una scelta la loro ma una orribile
imposizione da dittatura militare... Io sono stata in
Afghanistan molto prima dei talebani e ho conosciuto
donne che facevano l’avvocato, l’insegnante e non erano
nascoste e infagottate come fantasmi. Ma tu non
distingui: «Usama Bin Laden afferma che l’intero pianeta
Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci
all’Islam, che con le buone o le cattive lui ci
convertirà che a tal scopo ci massacra e continuerà a
massacrarci». Perché non chiamarlo invece per quello che
è: un atto di terrorismo fondamentalista che come tale
va giudicato e combattuto? Se lo trasformi nella prima
mossa di una guerra santa, fai solo il loro gioco. È una
trappola, Oriana, in cui mi sembra che tu sia caduta con
tutti e due i piedi, spinta dall’impetuosità travolgente
e il coraggio - se mi permetti in questo caso un poco
donchisciottesco - che ti sono propri.
"Il Corriere della Sera"