16.03.2002
Bertinotti: noi e l'Ulivo insieme per
un'opposizione più forte
di Piero
Sansonetti
ROMA.
«Accantoniamo le diffrenze per dare tutti assieme una risposta forte al
berlusconismo». In un’intervista a “l’Unità”, Fausto Bertinotti
propone un’assemblea di tutti i parlamentari dell’opposizione.
A una settimana dalla
manifestazione unitaria del 23 marzo, che sarà la conclusione di un mese e
mezzo di mobilitazioni in tutt'Italia, e che preparerà lo sciopero generale,
Fausto Bertinotti rompe un po' gli schemi e si fa avanti con una proposta
unitaria. Rivolta all'Ulivo. Cosa che non aveva mai fatto negli ultimi quattro
anni. Propone una convergenza tra quelle che lui chiama, al plurale, «le
opposizioni». Per dare sponda politica e parlamentare al movimento di lotta e
alle battaglie sindacali. La proposta è abbastanza precisa: una assemblea dei
parlamentari di tutti i partiti del centro sinistra e della sinistra, da tenere
prestissimo, per vedere se si trovano dei punti comuni sui quali lavorare
insieme. Senza pretendere di annullare le differenze che dividono «le due
sinistre». Ma accantonandole, per dare insieme una risposta forte al «berlusconismo».
Del resto, anche sulle differenze tra le due sinistre, Bertinotti crede che
siano in corso molti cambiamenti, che i confini siano diventati più fluidi, più
frastagliati e un po' più labili rispetto a un anno fa.
Bertinotti, quali
possono essere i punti comuni sui quali convergere?
«Vedo la necessità di una
azione su tre piani. Il piano parlamentare, quello programmatico e quello
politico. Sul piano parlamentare la mia proposta è semplicissima: organizzare
l'ostruzionismo contro la legge per la modifica dell'articolo 18. Io credo che
le sinistre debbano dare sponda al movimento sindacale. Senza strumentalizzarlo,
senza forzarlo. Per carità, quello sarebbe un errore gravissimo. Per esempio se
noi cercassimo di presentare lo sciopero generale come uno sciopero politico,
uno sciopero per mandare via Berlusconi, faremmo una sciocchezza.. Però si
devono trovare delle sinergie tra lotta sindacale e lotta di opposizione in
Parlamento. L’ostruzionismo penso che sia l’idea giusta».
E sul piano del
programma?
«Dobbiamo trovare una
piattaforma comune. Che ci permetta di essere efficaci sui temi fondamentali. Io
credo che potremmo decidere una vera e propria stagione referendaria. Non solo
per difenderci dall'attacco della destra, ma per contrattaccare. Il primo
referendum secondo me dovrebbe essere per ottenere l'allargamento dell'articolo
18 dello Statuto dei lavoratori (cioè del divieto di licenziamento senza giusta
causa) anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Io faccio questo
ragionamento: il fatto che l'articolo 18 protegga solo una parte della classe
lavoratrice è il punto debole. Infatti la destra attacca qui. Cerca di
fomentare la divisione sociale. È qui che deve passare la controffensiva.
Partendo da una ovvietà: in questi anni è cambiata la struttura industriale e
produttiva. È cambiato il rapporto quantitativo tra grande impresa e impresa
medio-piccola. Nei primi anni '70, quando fu varato lo Statuto, le aziende sotto
i 15 dipendenti non erano la spina dorsale del sistema».
Tu dici una stagione di
referendum...
«Sì, credo che dovremmo
promuoverne tanti, usarli come strumento di lotta: sulle rogatorie, sul
conflitto di interessi (se loro insisteranno sulla legge-beffa) e poi anche su
temi più generali, magari non strettamente legati alle battaglie di politica
interna. Per esempio sulla Tobin Tax. E partire da qui per trovare convergenze
tra Ulivo e sinistra radicale anche sul piano politico. Nel senso che credo che
dobbiamo lavorare per costruire dialogo, convergenze e azioni comuni coi grandi
movimenti che sono in campo. Il movimento che viene chiamato no-global, il
movimento sindacale e anche tutto il movimento dei girotondi che ha smosso
nell'ultimo mese le acque del centro-sinistra».
Che giudizio dai su
questi movimenti e su come stanno "strattonando" la politica italiana?
«Il movimento no-global non
solo ha portato nella nostra politica nuove idee e nuova linfa. Ma ha avuto un
effetto "moltiplicatore" per molti altri protagonismi. E' come se
avesse fertilizzato il terreno, e su questo terreno chiunque butta un buon seme
lo vede germogliare in fretta, mentre fino a qualche tempo fa il seme moriva
bruciato. E così abbiamo visto la ripresa vigorosa del conflitto sociale,
abbiamo visto uno dopo l'altro nascere nuove organizzazioni e nuovi movimenti
democratici che vengono dalla società civile, abbiamo visto persino il centro
sinistra tornare in piazza».
Ma tu dici che le
sinistre restano due. Non ti pare una cosa innaturale? «Poteva essere logico
che fossero due quando una era al governo e l'altra aveva scelto l'opposizione.
Ora sono tutte e due all'opposizione, che senso a dividersi?
«Il fatto che una delle due
sinistre governasse e l'altra no era un l'effetto della divisione, non era la
causa. La ragione della divisione era il giudizio che si da su questa
globalizzazione. Il centro-sinistra (non solo quello italiano, il
centro-sinistra di tutto il mondo) ha pensato che questa globalizzazione potesse
essere utilizzata come fattore progressista. Cioè che avesse in se un nucleo
vitale, di modernizzazione, e che valorizzando questo nucleo si potessero
temperare le politiche liberali e governare da sinistra la modernizzazione.
L'altra sinistra, chiamiamola radicale - della quale noi facciamo parte - ha
pensato che questa globalizzazione fosse contro la modernità, e fosse qualcosa
che trasformava l'eccezionale potenziale innovativo di cui si dispone, anziché
in progresso in arretramento sociale. Fino alla demolizione del compromesso
sociale e democratico che era stato la base della vita politica in occidente
nella seconda metà del 900. Vedi, non parlo di due sinistre per un capriccio.
La divisione è molto netta e molto politica».
Da qualche mese però
mi pare che su tutti questi temi la discussione si sia riaperta a 360 gradi. Non
è così?
«Ci sono delle notevoli novità
per via dell'affermarsi del movimento
no-global. Questo movimento ha
fatto saltare tutti gli schemi. Ha messo in circolazione un'enorme quantità di
politica. Ha rotto i confini, le linee di contrasto tra le due sinistre. O
almeno le ha molto fluidificate. Anche perché è un movimento che raccoglie
culture politiche lontane tra loro, e certamente non tutte interne allo schema
della sinistra radicale. Il movimento ha fatto irruzione anche dentro quella che
io chiamo "sinistra liberale", ha riaperto la discussione, il dialogo.
Diciamo che le sinistre restano due, ma che sono molto aumentate le possibilità
di dialogo. Il movimento no-global ha posto due discriminanti. Il no alla guerra
e il no al neoliberismo. Sono la coordinata e l'ascissa: dentro c'è una
gigantesca tavola cartesiana dentro la quale la sinistra può ricostruirsi».
Che giudizio dai sulla
destra?
«Mi sembra che la linea scelta
sull'articolo 18 costituisca una novità. Cambia il panorama. O almeno ci
fornisce elementi di giudizio di cui prima non disponevamo. Non era, per me, così
prevedibile la decisone del governo - dopo le mezze aperture dei giorni scorsi -
di confermare la linea dura sull'articolo 18. Io mi aspettava quella che a
scacchi si chiama la "mossa del cavallo". E cioè un colpo di teatro
che scompaginasse gli oppositori e permettesse alla maggioranza di transitare
lungo una linea ambigua. E invece, quando aveva sul piatto anche la possibilità
di dividere i sindacati, di ottenere risultati politici di un certo rilievo,
Berlusconi ha scelto la via dello scontro frontale. Anche a costo di
ricompattare i sindacati e gli oppositori. E a costo di schierare le truppe su
un fronte che non ammette armistizi o pareggi: i vince il governo o vincono i
sindacati. Perché?, mi chiedo. Per tenere fede alle promesse verso la
Confindustria? Non credo: anche la Confindustria era divisa. E allora? Io vedo
una ragione di fondo: l'idea di importare il thatcherismo in Italia. Con tre
obiettivi, legati l'uno all'altro Sconfiggere i lavoratori è il primo. Il
secondo è sconfiggere i sindacati, demolirli. Perché il progetto di relazioni
industriali non prevede la presenza pesante dei sindacati. Il terzo obiettivo è
quello di rimettere in discussione tutto il sistema contrattuale italiano.
Romperlo. Passando per l'abolizione del contratto nazionale di categoria, cioè
dell'ultimo baluardo che aveva resistito tutti questi anni. È questa la sfida.
Altrimenti non si spiegherebbe tanto accanimento».
Vengono in mente i
primi anni della Thatcher e di Reagan. Anche la Thatcher e Reagan iniziarono con
una sfida. La Thatcher ai minatori, Reagan ai controllori di volo. E vinsero.
«È inutile negarlo, il rischio
c'è. Il rischio della sconfitta. Bisogna esserne consapevoli. Per questo credo
che sia necessario unire le forze e contrattaccare. Uscire dalla rassegnazione,
dalla subalternità. Dare sponda alla forza dei movimenti, e giocare anche noi
tutto, per vincere la battaglia».
(da "l'Unità", 16 Marzo 2002)