Intercultura e/è
Progettualità
di
Ignazio Licciardi
Mai
come oggi è stato così urgente soffermarsi sulla questione “interculturalità”;
il nostro inizio del XXI secolo è fortemente segnato dall’imperio del privato
e dall’inabissarsi sempre più certo del pubblico.
La
politica è -defintivamente?- dimenticata?
Un
certo solidarismo sembra volerla sostituire a tutti costi con l’effetto di
privilegiare (in un certo senso) le soddisfazioni interiori dei singoli
che, così comportandosi, hanno l’impressione di affrancarsi da sconfitte
personali e da situazioni di routine che hanno alimentato in maniera
decisiva una dimensione di stress ingovernabile e non più gestibile da
un uomo sempre più solo anche se “vestito” di una apparente vita
pubblica, sì, distorta
a tal punto, però, da rasentare il disumano che non dovrebbe mai
appartenergli.
E
il disumano è soprattutto la mancanza di progettualità, il rifiuto di una
possibilità di rinascita sociale e, conseguentemente, di rinacita del singolo
che vuole affrancarsi dagli incubi della propria costruita inesistenzialità,
dalla propria non certamente voluta disumanità.
Interculturalità
e progettualità, dunque: dove l’elemento grammaticale di congiunzione (e)
è un di più da quel che appare; è, soprattutto, infatti, condizione
che rende i due termini -apparentemente congiunti- : soggetto
e predicato
nominali al contempo.
Intercultura è, cioè, progettualità; e progettualità è intercultura.
Ed
affermiamo ciò, grati a John Dewey, il quale proponeva (se non esigeva) Democrazia
e Educazione
come elementi non giustapponibili ma fortemente interagenti.
Progettualità: quel dimensionarsi, cioè, che
porta l’uomo a desiderare incessantemente, mentre s’adopra con quel che
possiede, a ricercare un nuovo, un diverso, un oltre-sé che lo avvicini
con determinata convinzione al suo sé più profondo che tange
l’altro nell’avvertirlo e nel riconoscerlo a tal punto da intersecarlo,
per scoprire con esso un nuovo spazio vitale, ecologico-mentale, risanante, perché
capace di suggerire nuove modalità di pensare e di agire;[1]
di progettare cioè (naturalmente, una volta che è stato scoperto
l’altro che vivifica e rende impossibile l’impero della staticità, del
narcisismo, dell’essere patologicamente con se stesso, della specularità ossessiva
che conduce alla tragica omogeneizzazione ed omologazione[2]).
Intercultura è, anzitutto, pluralità dinamica e
flessibile; è l’affermarsi dell’eterogeneo che lotta, che
cerca, che annusa e che odora al contempo, che tocca, che guarda ed osserva e
riconosce il sé dall’altro da sé e con questi convive
nella ricerca spasmodica di altri sé ad esso estranei e a volte
intangibili.
Intercultura
è farsi, è superarsi, è –se mi concedete il termine- “oltr-arsi”,
andare oltre, cioè, quel se stesso che vorrebbe annientarlo nelle figure
onirico-individuali del suo stesso essere e nelle figure a lui esterne che sono
il segno dell’autorità-autoritaria e coercitiva di altri-da-sé
“padri-padroni” e “dittatori” della coscienza-privi e “falsi
educatori” garanti di un nulla rivestito di appariscenze inutili ed
insignificanti ed assurdamente vuote e cieche.
[1] Per riuscire a realizzare ciò, abbiamo bisogno di un nuovo pensiero, di un nuovo ordine mentale, come ci ricorda Edgar Morin, ma anche H. Gardner e Paul Ricoeur (il cui ethos della reciprocità si articola in stima di sé, cura dell’altro, aspirazione a vivere in istituzioni giuste; ciò esige una ridefinizione del concetto di comunità che non è somma, né aggregato. Il termine comunitas si fonda sul termine munus che significa obbligo, compito, dovere e al contempo dono), ed allora anche Michel Serres.
[2] Antonio Nanni in Pluriverso scrive: “Combattere con più efficacia l’omologazione, cioè l’uniformità prodotta dal Pensiero Unico, e l’atomizzazione, cioè la disgregazione e la frammentazione. Stanno crescendo –sostiene- gli etnicismi, i fondamentalismi, le ghettizzazioni. Dobbiamo ribellarci a questa situazione e costruire una comunità e una convivenza democratica.
Utilizzando due concetti della fisica, potremo dire che l’omologazione è assimilabile al processo di fusione nucleare mentre l’atomizzazione a quello della fissione”. I nostri avversari sono coloro che praticano e teorizzano:
il Pensiero Unico,
il Neoliberismo che porta all’idolatria del
mercato e al mito della competitività,
il Fondamentalismo,
l’Assimilazionismo inteso come processo di
deculturazione e di svuotamento dell’altro
il Differenzialismo culturale (noi-loro,
ossessione noi-centrica)
l’Etnicismo che rivendica la purezza della
stirpe, la sacralità delle origini
il Monismo metodologico che teorizza una sola
modalità di conoscenza scientifica della realtà
Utile, per comprendere, può risultare la lettura della poesia di NDJOK NGANA, Prigioni in “biblion. Notiziario della Sezione "Iqbal Masih” dell'Associazione Pedagogica Italiana (As.Pe.I.)", Giugno 2000.