Cuore, furore e piazza
di Furio Colombo

Sabato sera, durante una manifestazione dell’Ulivo, Nanni Moretti ha redarguito duramente i leader dell’opposizione. «Con voi non si vince», ha detto. Intendeva dar voce a coloro che si sentono sempre più fuori posto nell’Italia di questo governo. E’ stata una reazione eccessiva? E’ stata una frase sbagliata? Può essere utile ricapitolare.
Un certo Silvio Berlusconi che possiede tutto, che si compra tutto e che ha speso per la campagna elettorale italiana quasi quanto George Bush junior per quella nel suo Paese alquanto più vasto (ma in cui deve pagarsi le apparizioni in televisione) ha vinto qualche tempo fa le elezioni italiane formando una coalizione che gli osservatori benevoli considerano «colorita» e che altri giudicano con severità e sdegno.
Cedere l’Italia a Berlusconi e a Bossi non è una normale sconfitta elettorale come ci ricordano continuamente The Economist e Business Week, due grandi giornali finanziari del mondo. Berlusconi controlla troppi interessi e Bossi rappresenta una forma rozza e pericolosa di nazismo.
Eppure non è la cosidetta elaborazione del lutto e l’ostinazione a non volersi dare per vinti, quando si è vinti, il problema di quella parte della sinistra e dell’Ulivo che continuano a mostrarsi testardi e non rassegnati. Berlusconi ha vinto e ti dicono: chi ha vinto governi, chi ha perso vada a casa. Poi si correggono, ricordando che questa è ancora una democrazia, e piazzano la frase: chi ha perso faccia l’opposizione.
Inutile ricordare che cosa sono stati loro quando erano opposizione: un continuo proclama di illegittimità contro chi aveva vinto e governava.
Ammettiamolo, loro sono diversi e introducono nel cuore della vita democratica il principio della inviolabilità del capo (non può essere processato) e della sua infallibilità (se ha detto una cosa ha ragione). Più un culto che un partito.
Si può dire la parola regime? Propongo di sì, per queste ragioni. Per il troppo controllo su tutti i media. Indirettamente tale controllo esercita un vasto effetto di intimidazione. Per l’aperta negazione della separazione dei poteri e la guerra ai giudici sul fronte dei media, del Parlamento e del governo (ministro della Giustizia che lancia procedimenti disciplinari contro i giudici che dissentono, ministro dell’Interno che denuncia il procuratore generale). La terza ragione è l’arruolamento volontario di molti di coloro che la stampa americana chiama i «pandit», i punti di riferimento più elevati - tipicamente con funzione arbitrale - del sistema giornalistico. C’è stato un trasloco di liberali di vario tipo nella roccaforte del vincitore. Controprova: coloro che rifiutano l’ arruolamento vengono bollati come predicatori dell’Apocalisse, ovvero portatori di un disordine rovinoso.
Ammettiamolo, questo tipo di regime è nuovo, non è stato imposto da squadracce, piuttosto da un misto di danaro (una immensità), dall’aggancio di gruppi di interessi particolari, e dall’arruolamento volontario di tanti, un fenomeno che neppure Berlusconi poteva prevedere.
Per rendere meno clamoroso, meno notato nel mondo questo fatto, la parola chiave è «dialogo». Qui c’è un punto di onestà da parte del costituendo regime. Vogliono, sì, il riconoscimento attraverso il dialogo. Ma ti avvertono che comunque non cambia nulla. Se hai dei dubbi, provvedono subito a dissiparli (o negarli, o irriderli) le batterie dei commentatori volontari insediati in ogni giornale (quando è necessario si arruolano anche i direttori) per far sapere che non se ne parla neanche di mettere in discussione anche una sola idea del capo, meno che mai se ci si avvicina alla linea rossa della giustizia.
Se questa è la scena, la prova a cui è sottoposta l’opposizione è certamente dura, specialmente se si accredita autorevolmente l’idea che l’opposizione per essere «costruttiva» deve essere «soft».
Una tale opposizione viene lodata se si dimostra di buona indole e di buona volontà. E viene sgridata (si dice «caduta di stile») quando dichiara il suo no con fermezza. Più ancora quando rigetta il punto di vista, ritenuto infallibile perché maggioritario, del capo.
A chi guida l’opposizione, per quanto si impegni e lo faccia con tensione e vigore, non giova avere alle spalle un piccolo, vivacissimo coro che, dopo avere ripetuto la propria appartenenza all'opposizione, e dunque alla sinistra, assicura che non esiste alcuna anomalia, meno che mai un regime, come se ogni mattina trovassimo edicole colme di pareri diversi, e ogni sera tanti telegiornali che vanno ciascuno per strade autonome e non controllate.
A volte il vivacissimo coro si affaccia a sgridare i «giustizialisti», con la famosa parola che non sta né in cielo né in terra, ed evoca il peronismo, ma vorrebbe dire, credo, «persone di animo cattivo».
Ecco descritta l’immensa difficoltà di Fassino e Rutelli, a cui si chiede di combattere con una mano legata al cosiddetto «dialogo».
Questo non vuol dire che chi ha a cuore la loro missione non sappia quello che, nonostante tutto, sono riusciti a fare (si pensi all’eliminazione dal governo di uno come Taormina). E che non si provi imbarazzo ogni volta che li si vede giocati in quella roulette truccata che è “Porta a Porta” o si ascolta l’annuncio di un «dialogo» che - in queste condizioni - oltre che impossibile è un errore perché rende complici.
Manca, in questo quadro, l’opinione pubblica, quella voce alta e diffusa che si ascolta nelle scuole, nelle professioni, nel lavoro, nella conversazione comune, nell’impegno militante che esiste benché nessuno lo organizzi.
Ecco il partner del dialogo, che importa agganciare, la parte con cui tenere il filo per ricominciare ad esistere.
Le parole di Nanni Moretti l’altro ieri a Piazza Navona la evocano, ne fanno sentire all’improvviso la voce, l’umore, la forza. Ma una cosa mi ha meravigliato: che senso ha parlare in modo duro e frontale e poi voltare le spalle dicendo che «tanto non ce la faremo mai?». La strada va dall’altra parte. Va con chi non vuole stare al gioco, non intende essere complice, non abbandonerà coloro che tengono duro, giudici, studenti, chi difende il lavoro, chi difende la scuola, chi si ribella alla regola selvaggia di sparare sui rifugiati, chi non si rassegna al governo-impresa con un solo azionista, una corte di «yes men» e tanti sudditi.
Dice un proverbio americano: «Si possono ingannare alcuni per tutto il tempo o tutti per poco tempo. Ma non si possono ingannare tutti per tutto il tempo». Non dobbiamo essere noi a stufarci e a sbattere la porta. Si può essere duri, si può dire per passione la frase sbagliata. Ma si deve restare qui, adesso. In questa Italia.

(da "l'Unità" del 3 febbraio 2002)

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