L'articolo 18 e la sfida
al posto fisso



di MARIO PIRANI

LA QUESTIONE della modifica dell'art.18 dello Statuto dei lavoratori è stata sovraccaricata di significati ambivalenti, sia da parte del governo, sia da parte dei sindacati, sia, infine, nell'ambito della sinistra, da parte della Cgil, del suo leader e di quanti lo vorrebbero alla guida dei Ds. Gli esiti di tutto ciò potrebbero rivelarsi abbastanza nefasti, anche se nelle ultime ore si sta profilando un auspicabile compromesso. È, quindi, opportuno chiarirsi anzitutto le idee. Punto di partenza è se il recesso unilaterale dal rapporto di lavoro vada considerato assolutamente sciolto da vincoli, secondo il principio liberale della parità- puramente formale- tra le parti, nonché della loro autonomia contrattuale. Non è senza significato storico se l'assoluta libertà di recesso e, quindi, di licenziamento trovò il suo primo fondamento in un decreto legge del 13 novembre 1924, nel pieno della stagione susseguente al delitto Matteotti.

Allora Mussolini imboccò la strada del consolidamento dittatoriale del regime, formulata compiutamente solo qualche settimana dopo, nel famoso discorso del 3 gennaio '25 (sia chiaro che non sto suggerendo un paragone forzato ma solo individuando un'assonanza su atti che riflettono la preminenza confindustriale, anche ideologica, sulla politica governativa, in determinate fasi storiche). Né il compromesso corporativo, sancito dalla Carta del lavoro del '27 cambiò nel tempo la sostanza di questo orientamento, tanto che il Codice civile del '42, ribadì il principio di piena rescindibilità del rapporto di lavoro, sia da parte dell'imprenditore che... del dipendente.
Solo la sconfitta del fascismo e, soprattutto, l'entrata in vigore della nuova Costituzione con il ritorno al libero sindacalismo porteranno negli anni, attraverso leggi e contratti, alla elaborazione e applicazione di un diritto del lavoro che parte dal riconoscimento di un "soggetto svantaggiato" e, quindi, bisognoso di una tutela particolare, soprattutto "al fine ultimo d'assicurare a tutti la continuità del lavoro" (sentenza della Consulta del '66). L'acme di questo rovesciamento d'indirizzo fu lo Statuto dei lavoratori (legge 300, 20 maggio '70), che qualificò la natura riformatrice e il valore della presenza socialista nel primo centro-sinistra.

Esso, tra l'altro, stabiliva, all'art.18 ora contestato, il reintegro al lavoro del dipendente licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. Per le unità produttive al di sotto dei 15 addetti la tutela obbligatoria sussiste, però, solo in termini monetizzabili.

Il prevalere della difesa del posto di lavoro sulle ragioni dell'impresa, se ampliò la sfera dei diritti sociali e la forza del sindacato, generò col tempo anche conseguenze negative. Da un lato le grandi e medie aziende recuperarono la loro produttività investendo in tecnologie sostitutive della manodopera; dall'altro, un numero sterminato di piccole imprese preferirono non crescere oltre i 15 dipendenti; si ampliò, inoltre, in modo abnorme, l'area del lavoro nero. Si aprì, quindi, una evidente divaricazione tra salvaguardia piena dei lavoratori occupati e attesa delusa di quelli disoccupati. La competitività internazionale delle aziende italiane risultò affievolita dalla rigidità.

In concomitanza temporale con lo sforzo per entrare nell'euro, nel nostro paese sono state introdotte, sia per via di accordi che per legge, una serie di misure che hanno facilitato notevolmente il recupero di una significativa flessibilità, soprattutto all'entrata. Quasi tutta la nuova occupazione è dovuta a queste misure. Ciò detto la rigidità resta ancora eccessiva e all'uscita è praticamente nulla.

Qui si colloca l'iniziativa di Berlusconi e Maroni che, di primo acchito, sembra rispondere alla esigenza di ridare alle imprese la propensione ad assumere, con l'abolizione dell'obbligo di reintegro in almeno tre casi: a) lavoratori in nero che l'azienda provvede a far "emergere", b) dipendenti con contratto a tempo determinato (a termine, parziale o altro) che ottengono un contratto a tempo indeterminato, c) nuovi assunti, per i primi due anni, di aziende che decidono di superare la soglia dei 15 dipendenti. Apparentemente si tratta d'innovazioni ragionevoli e, in parte, ma solo in parte, lo sono. In particolare quella sull'incremento dei dipendenti delle micro imprese.

Quel che preoccupa grandemente è, però, l'altra faccia della medaglia, nascosta nella libertà di licenziamento di quei lavoratori che passassero da un contratto a tempo determinato a uno a tempo indeterminato.
Quando il passaggio avvenisse questi lavoratori fruirebbero di diritti dimezzati nei confronti di quelli assunti prima nella stessa fabbrica: gli uni potendo essere licenziati liberamente e gli altri no. L'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ne verrebbe lesa, il che getta un'ombra di incostituzionalità sull'atto che il governo vorrebbe introdurre per delega.

Sul piano del mercato del lavoro, poi, il varco aperto si rivelerebbe ben più ampio di come viene prospettato: gli imprenditori in breve non farebbero che assunzioni a termine, per trasformarle, subito dopo, negli agognati contratti a tempo indefinito, che, però, avrebbero incorporata per legge la clausola del libero licenziamento. Nel volgere di qualche anno i lavoratori italiani si ritroverebbero, da questo punto di vista, nelle condizioni del '24. Il che spiega l'ostilità dichiarata delle tre Confederazioni al provvedimento, anche se sono divise sulla strategia per contrastarlo.

Questa ostilità, peraltro, ha anche un'altra causa che trae origine dalla motivazione politica dell'iniziativa governativa. Essa è stata presentata, del tutto inaspettatamente, nel bel mezzo di una fase positiva di trattative fra governo e sindacati proprio sui punti del Libro bianco proposto da Maroni (collocamento, lavoro interinale, part-time, partecipazione, ecc). L'affondo del ministro, accompagnato dalla richiesta impositiva di delega al governo, è apparso inspiegabile. Le interpretazioni sono state svariate. Alcuni vi hanno visto la mano di un gruppo di consiglieri del dicastero ex socialisti che fanno capo al sottosegretario Sacconi, i quali avrebbero immaginato di poter "ripetere" San Valentino, la fortunata e coraggiosa iniziativa di Craxi sulla scala mobile, dividere i sindacati, modificare i rapporti di lavoro. Se così fosse non hanno tenuto conto che non basta dirsi craxiani per ereditare il peso e l'intelligenza politica del leader scomparso, che l'art.18 non è la scala mobile e non ha gli effetti devastanti della contingenza unica, che il governo di Forza Italia non è percepito dal mondo del lavoro come il centro-sinistra a guida socialista, tanto è vero che quello riuscì a farsi seguire da Cisl, Uil e mezza Cgil.

Comunque, se anche questa supposta strategia ha giocato un ruolo, non credo sia stata determinante nello spingere a una rottura che potrebbe rivelarsi politicamente e socialmente abbastanza onerosa per il governo. La sfida ha invece un senso se la si legge, da un lato, come una esigenza di consenso e visibilità di uno dei maggiori rappresentanti della Lega nel governo, nei confronti del core business del proprio elettorato, la piccolissima impresa della Padania; dall'altro - e questo riguarda Berlusconi, primo firmatario della legge delega - se la si colloca nel quadro del rapporto privilegiato tra l'attuale Confindustria e il governo, così come del do ut des che questo comporta. Per cogliere la valenza di questo aspetto è opportuno riflettere sulla accentuata politicizzazione che la presidenza D'Amato ha impresso all'organizzazione imprenditoriale, in quasi coincidenza con la vittoria della Destra alle elezioni. Di qui discende una preferenza per soluzioni dei problemi che passino attraverso la legge e, cioè, governo e maggioranza parlamentare, che attraverso il libero contratto fra le parti. Di qui, anche, il sostanziale declassamento della concertazione. Non vuol essere questa una critica (ognuno sceglie le strategie giudicate più convenienti) ma una constatazione che assume un profilo ancor più significativo se si avverte l'altro profondo mutamento che l'arrivo del dinamico industriale partenopeo ha rappresentato. Egli ha, infatti, trionfato nella battaglia per la presidenza alla testa di una coalizione che si identificava politicamente nell'universo lombardo e piccolo-imprenditoriale berlusconiano, sbaragliando il candidato di Agnelli, dato per vincente fino alla vigilia. Che la ferita non sia sanata lo provano gli aperti sarcasmi rivolti da D'Amato all'Avvocato per le rimostranze espresse al momento della defenestrazione di Ruggero e, se col Cavaliere c'èstato poi un riavvicinamento in nome delle reciproche convenienze, questo non ha ricompattato il fronte confindustriale. I grandi, con in testa la Fiat, si rivelano contrari a una crociata sull'art.18, che a loro non interessa, perseguendo la speranza di ottenere, se mai, incentivi economici allo sfoltimento della manodopera; i piccoli, invece, seguitano a considerare la libertà di licenziare una meta da perseguire, con un anelito di vendetta sociale che sogna la sconfitta campale del sindacato.

Le divisioni a sinistra e nelle Confederazioni non sono da meno e riflettono, anche, le spaccature in seno all'Ulivo e ai Ds. Vediamole. Da questa parte si era tentato di contrapporre una risposta autenticamente riformista all'iniziativa del governo ed era stato insediato un gruppo di lavoro con Amato, Treu e alcuni dirigenti sindacali, politicamente vicini alla Margherita (Cisl) e alla Quercia (Cgil e Uil) che si era messo ad elaborare un progetto di riforma dello Statuto dei lavoratori come piattaforma del centro-sinistra, in risposta al progetto Berlusconi-Maroni. In particolare, mentre si accettava l'esigenza di maggiore flessibilità, la si accompagnava con nuove soluzioni affidate all'istituto dell'arbitrato e, soprattutto, si studiavano quali coperture e ammortizzatori sociali introdurre per garantire i lavoratori nei periodi in cui restano disoccupati (è oggi questo l'anello più debole del nostro Stato sociale). Ma questa prospettiva, che presupponeva l'unità dei sindacati, dell'Ulivo e della Quercia è stata mandata a gambe all'aria dal Congresso della Cgil, tutto incentrato sulla forzatura dello sciopero generale a scapito della compattezza delle forze del lavoro. Cofferati ha privilegiato così, a scapito della unità sindacale, la coesione della sua organizzazione, ottenendo l'adesione anche delle correnti estreme, cosa che non avveniva dall'86. Lo sciopero generale è diventato fine a se stesso, un totem salvifico, non un mezzo tra gli altri per vincere la battaglia dell'art.18. È una strategia che si spiega con il desiderio di supplire all'incerta guida dello sparpagliato e rissoso schieramento di opposizione, che basta un Moretti a mandare in tilt, con una leadership sindacal-politica nettamente spostata a sinistra. Per questa strada si può solo soddisfare la legittima aspirazione identitaria di una minoranza degli italiani, vogliosi in cuor loro di opposizione permanente. Non certo vincere battaglie sindacali e politiche.

(" la Repubblica" del 18 febbraio 2002)

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