IX Un po' di nebbia
Del primo inverno, se rigido, piovoso, nebbioso, quasi non
m'ero accorto tra gli svaghi de' viaggi e nell'ebbrezza della
nuova libertà. Ora questo secondo mi sorprendeva già
un po' stanco, come ho detto, del vagabondaggio e deliberato a
impormi un freno. E mi accorgevo che... sì, c'era un po'
di nebbia, c'era; e faceva freddo; m'accorgevo che per quanto
il mio animo si opponesse a prender qualità dal colore
del tempo, pur ne soffriva.
« Ma sta' a vedere, » mi rampognavo, « che non
debba più far nuvolo perché tu possa ora godere
serenamente della tua libertà! »
M'ero spassato abbastanza, correndo di qua e di là: Adriano
Meis aveva avuto in quell'anno la sua giovinezza spensierata;
ora bisognava che diventasse uomo, si raccogliesse in sé,
si formasse un abito di vita quieto e modesto. Oh, gli sarebbe
stato facile, libero com'era e senz'obblighi di sorta!
Così mi pareva; e mi misi a pensare in quale città
mi sarebbe convenuto di fissar dimora, giacché come un
uccello senza nido non potevo più oltre rimanere, se proprio
dovevo compormi una regolare esistenza. Ma dove? in una grande
città o in una piccola? Non sapevo risolvermi.
Chiudevo gli occhi e col pensiero volavo a quelle città
che avevo già visitate; dall'una all'altra, indugiandomi
in ciascuna fino a rivedere con precisione quella tal via, quella
tal piazza, quel tal luogo, insomma, di cui serbavo più
viva memoria; e dicevo:
« Ecco, io vi sono stato! Ora, quanta vita mi sfugge, che
séguita ad agitarsi qua e là variamente. Eppure,
in quanti luoghi ho detto: - Qua vorrei aver casa! Come ci vivrei
volentieri! -. E ho invidiato gli abitanti che, quietamente, con
le loro abitudini e le loro consuete occupazioni, potevano dimorarvi,
senza conoscere quel senso penoso di precarietà che tien
sospeso l'animo di chi viaggia. »
Questo senso penoso di precarietà mi teneva ancora e non
mi faceva amare il letto su cui mi ponevo a dormire, i varii oggetti
che mi stavano intorno.
Ogni oggetto in noi suol trasformarsi secondo le immagini ch'esso
evoca e aggruppa, per cosi dire, attorno a sé. Certo un
oggetto può piacere anche per se stesso, per la diversità
delle sensazioni gradevoli che ci suscita in una percezione armoniosa;
ma ben più spesso il piacere che un oggetto ci procura
non si trova nell'oggetto per se medesimo. La fantasia lo abbellisce
cingendolo e quasi irraggiandolo d'immagini care. Né noi
lo percepiamo più qual esso è, ma così, quasi
animato dalle immagini che suscita in noi o che le nostre abitudini
vi associano. Nell'oggetto, insomma, noi amiamo quel che vi mettiamo
di noi, l'accordo, l'armonia che stabiliamo tra esso e noi, l'anima
che esso acquista per noi soltanto e che è formata dai
nostri ricordi.
Or come poteva avvenire per me tutto questo in una camera d'albergo
?
Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più
averla? I miei denari erano pochini... Ma una casettina modesta,
di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima,
tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto
così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là.
Fermo in un luogo, proprietario d'una casa, eh, allora : registri
e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto all'anagrafe? Ma sicuramente!
E come? con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete
intorno a me da parte della polizia... Insomma, impicci, imbrogli!...
No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia,
oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia,
in una camera mobiliata. Dovevo affliggermi per così poco?
L'inverno, L'inverno m'ispirava queste riflessioni malinconiche,
La prossima festa di Natale che fa desiderare il tepore d'un cantuccio
caro, il raccoglimento, l'intimità della casa.
Non avevo certo da rimpiangere quella di casa mia. L'altra, più
antica, della casa paterna, l'unica ch'io potessi ricordare con
rimpianto, era già distrutta da un pezzo, e non da quel
mio nuovo stato. Sicché dunque dovevo contentarmi, pensando
che davvero non sarei stato più lieto, se avessi passato
a Miragno, tra mia moglie e mia suocera - (rabbrividivo!) - quella
festa di Natale.
Per ridere, per distrarmi, m'immaginavo intanto, con un buon panettone
sotto il braccio, innanzi alla porta di casa mia.
« - Permesso? Stanno ancora qua le signore Romilda Pescatore,
vedova Pascal, e Marianna Dondi, vedova Pescatore? »
« - Sissignore. Ma chi è lei? »
« - Io sarei il defunto marito della signora Pascal, quel
povero galantuomo morto l'altr'anno, annegato. Ecco, vengo lesto
lesto dall'altro mondo per passare le feste in famiglia, con licenza
dei superiori. Me ne riparto subito! »
Rivedendomi cosi all'improvviso, sarebbe morta dallo spavento
la vedova Pescatore? Che! Lei? Figuriamoci! Avrebbe fatto rimorire
me, dopo due giorni.
La mia fortuna - dovevo convincermene - la mia fortuna consisteva
appunto in questo: nell'essermi liberato della moglie, della suocera,
dei debiti, delle afflizioni umilianti della mia prima vita. Ora,
ero libero del tutto. Non mi bastava? Eh via, avevo ancora tutta
una vita innanzi a me. Per il momento... chi sa quanti erano soli
com'ero io!
« Si, ma questi tali, » m'induceva a riflettere il
cattivo tempo, quella nebbia maledetta, « o son forestieri
e hanno altrove una casa, a cui un giorno o l'altro potranno far
ritorno, o se non hanno casa come te, potranno averla domani,
e intanto avran quella ospitale di qualche amico. Tu invece, a
volerla dire, sarai sempre e dovunque un forestiere: ecco la differenza.
Forestiere della vita, Adriano Meis. »
Mi scrollavo, seccato, esclamando:
- E va bene! Meno impicci. Non ho amici? Potrò averne...
Già nella trattoria che frequentavo in quei giorni, un
signore, mio vicino di tavola, s'era mostrato inchinevole a far
amicizia con me. Poteva avere da quarant'anni : calvo sì
e no, bruno, con occhiali d'oro, che non gli si reggevano bene
sul naso, forse per il peso de la catenella pur d'oro. Ah, per
questo un ometto tanto carino! Figurarsi che, quando si levava
da sedere e si poneva il cappello in capo, pareva subito un altro:
un ragazzino pareva. Il difetto era nelle gambe, così piccole,
che non gli arrivavano neanche a terra, se stava seduto: egli
non si alzava propriamente da sedere, ma scendeva piuttosto dalla
sedia. Cercava di rimediare a questo difetto, portando i tacchi
alti. Che c'è di male? Sì, facevan troppo rumore
quei tacchi; ma gli rendevano intanto così graziosamente
imperiosi i passettini da pernice.
Era molto bravo poi, ingegnoso - forse un pochino bisbetico e
volubile - ma con vedute sue, originali; ed era anche cavaliere.
Mi aveva dato il suo biglietto da visita: - Cavalier Tito Lenzi.
A proposito di questo biglietto da visita, per poco non mi feci
anche un motivo d'infelicità della cattiva figura che mi
pareva d'aver fatta, non potendo ricambiarglielo. Non avevo ancora
biglietti da visita: provavo un certo ritegno a farmeli stampare
col mio nuovo nome. Miserie! Non si può forse fare a meno
de' biglietti da visita? Si dà a voce il proprio nome,
e via.
Così feci; ma, perdir la verità, il mio vero nome...
basta!
Che bei discorsi sapeva fare il cavalier Tito Lenzi! Anche il
latino sapeva; citava come niente Cicerone.
- La coscienza? Ma la coscienza non serve, caro signore! La coscienza,
come guida, non può bastare. Basterebbe forse, ma se essa
fosse castello e non piazza, per così dire; se noi cioè
potessimo riuscire a concepirci isolatamente, ed essa non fosse
per sua natura aperta agli altri. Nella coscienza, secondo me,
insomma, esiste una relazione essenziale... sicuro, essenziale,
tra me che penso e gli altri esseri che io penso. E dunque non
è un assoluto che basti a se stesso, mi spiego? Quando
i sentimenti, le inclinazioni, i gusti di questi altri che io
penso o che lei pensa non si riflettono in me o in lei, noi non
possiamo essere né paghi, né tranquilli, né
lieti; tanto vero che tutti lottiamo perché i nostri sentimenti,
i nostri pensieri, le nostre inclinazioni, i nostri gusti si riflettano
nella coscienza degli altri. E se questo non avviene, perché...
diciamo cosi, l'aria del momento non si presta a trasportare e
a far fiorire, caro signore, i germi... i germi della sua idea
nella mente altrui, lei non può dire che la sua coscienza
le basta. A che le basta? Le basta per viver solo? per isterilire
nell'ombra? Eh via! Eh via! Senta; io odio la retorica, vecchia
bugiarda fanfarona, civetta con gli occhiali. La retorica, sicuro,
ha foggiato questa bella frase con tanto di petto in fuori: «
Ho la mia coscienza e mi basta ». Già! Cicerone prima
aveva detto: Mea mihi conscientia pluris est quam hominum sermo.
Cicerone però, diciamo la verità, eloquenza, eloquenza,
ma... Dio ne scampi e liberi, caro signore! Nojoso più
d'un principiante di violino!
Me lo sarei baciato. Se non che, questo mio caro ometto non volle
perseverare negli arguti e concettosi discorsi, di cui ho voluto
dare un saggio; cominciò a entrare in confidenza; e allora
io, che già credevo facile e bene avviata la nostra amicizia,
provai subito un certo impaccio, sentii dentro me quasi una forza
che mi obbligava a scostarmi, a ritrarmi. Finché parlò
lui e la conversazione s'aggirò su argomenti vaghi, tutto
andò bene; ma ora il cavalier Tito Lenzi voleva che parlassi
io.
- Lei non è di Milano, è vero?
- No...
- Di passaggio?
- Sì...
- Bella città Milano, eh?
- Bella, già...
Parevo un pappagallo ammaestrato. E più le sue domande
mi stringevano, e io con le mie risposte m'allontanavo. E ben
presto fui in America. Ma come l'ometto mio seppe ch'ero nato
in Argentina, balzò dalla sedia e venne a stringermi calorosamente
la mano:
- Ah, mi felicito con lei, caro signore! La invidio! Ah, l'America...
Ci sono stato.
C'era stato? Scappa!
- In questo caso, - m'affrettai a dirgli, - debbo io piuttosto
felicitarmi con lei che c'è stato, perché io posso
quasi quasi dire di non esserci stato, tuttoché nativo
di là; ma ne venni via di pochi mesi; sicché dunque
i miei piedi non han proprio toccato il suolo americano, ecco!
- Che peccato! - esclamò dolente il cavalier Tito Lenzi.
- Ma lei ci avrà parenti, laggiù, m'immagino!
- No, nessuno...
- Ah, dunque, è venuto in Italia con tutta la famiglia,
e vi si è stabilito? Dove ha preso stanza?
Mi strinsi ne le spalle:
- Mah! - sospirai, tra le spine, - un po' qua, un po' là...
Non ho famiglia e... e giro.
- Che piacere! Beato lei! Gira... Non ha proprio nessuno?
- Nessuno...
- Che piacere! beato lei! la invidio!
- Lei dunque ha famiglia? - volli domandargli, a mia volta, per
deviare da me il discorso.
- E no, purtroppo! - sospirò egli allora, accigliandosi.
- Son solo e sono stato sempre solo!
- E dunque, come me!...
- Ma io mi annojo, caro signore! m'annojo! - scattò l'ometto.
- Per me, la solitudine... eh si, infine, mi sono stancato. Ho
tanti amici; ma, creda pure, non è una bella cosa, a una
certa età, andare a casa e non trovar nessuno. Mah! C'è
chi comprende e chi non comprende, caro signore. Sta molto peggio
chi comprende, perché alla fine si ritrova senza energia
e senza volontà. Chi comprende, infatti, dice: «
Io non devo far questo, non devo far quest'altro, per non commettere
questa o quella bestialità ». Benissimo! Ma a un
certo punto s'accorge che la vita è tutta una bestialità,
e allora dica un po' lei che cosa significa il non averne commessa
nessuna: significa per lo meno non aver vissuto, caro signore.
- Ma lei, - mi provai a confortarlo, - lei è ancora in
tempo, fortunatamente...
- Di commettere bestialità? Ma ne ho già commesse
tante, creda pure! - rispose con un gesto e un sorriso fatuo.
- Ho viaggiato, ho girato come lei e... avventure, avventure...
anche molto curiose e piccanti... si, via, me ne son capitate.
Guardi, per esempio, a Vienna, una sera...
Cascai dalle nuvole. Come! Avventure amorose, lui? Tre, quattro,
cinque, in Austria, in Francia, in Italia... anche in Russia?
E che avventure! Una più ardita dell'altra... Ecco qua,
per dare un altro saggio, un brano di dialogo tra lui e una donna
maritata:
LUI: - Eh, a pensarci, lo so, cara signora... Tradire il marito,
Dio mio! La fedeltà, l'onestà, la dignità...
tre grosse, sante parole, con tanto d'accento su l'a. E poi: l'onore!
altra parola enorme... Ma, in pratica, credete, è un'altra
cosa, cara signora: cosa di pochissimo momento! Domandate alle
vostre amiche che ci si sono avventurate.
LA DONNA MARITATA: - Sì; e tutte quante han provato poi
un grande disinganno!
LUI: - Ma sfido ma si capisce! Perché impedite, trattenute
da quelle parolacce, hanno messo un anno, sei mesi, troppo tempo
a risolversi. E il disinganno diviene appunto dalla sproporzione
tra l'entità del fatto e il troppo pensiero che se ne son
date. Bisogna risolversi subito, cara signora! Lo penso, lo faccio.
E' cosi semplice!
Bastava guardarlo, bastava considerare un poco quella sua minuscola
ridicola personcina, per accorgersi ch'egli mentiva, senza bisogno
d'altre prove.
Allo stupore seguì in me un profondo avvilimento di vergogna
per lui, che non si rendeva conto del miserabile effetto che dovevano
naturalmente produrre quelle sue panzane, e anche per me che vedevo
mentire con tanta disinvoltura e tanto gusto lui, lui che non
ne avrebbe avuto alcun bisogno; mentre io, che non potevo farne
a meno, io ci stentavo e ci soffrivo fino a sentirmi, ogni volta,
torcer l'anima dentro.
Avvilimento e stizza. Mi veniva d'afferrargli un braccio e di
gridargli:
« Ma scusi, cavaliere, perché? perché? »
Se però erano ragionevoli e naturali in me l'avvilimento
e la stizza, mi accorsi, riflettendoci bene, che sarebbe stata
per lo meno sciocca quella domanda. Infatti, se il caro ometto
imbizzarriva cosi a farmi credere a quelle sue avventure, la ragione
era appunto nel non aver egli alcun bisogno di mentire; mentre
io... io vi ero obbligato dalla necessità. Ciò che
per lui, insomma, poteva essere uno spasso e quasi l'esercizio
d'un diritto, era per me, all'incontro, obbligo increscioso, condanna.
E che seguiva da questa riflessione? Ahimè, che io, condannato
inevitabilmente a mentire dalla mia condizione, non avrei potuto
avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né
casa, né amici... Amicizia vuol dire confidenza; e come
avrei potuto io confidare a qualcuno il segreto di quella mia
vita senza nome e senza passato, sorta come un fungo dal suicidio
di Mattia Pascal? Io potevo aver solamente relazioni superficiali,
permettermi solo co' miei simili un breve scambio di parole aliene.
Ebbene, erano gl'inconvenienti della mia fortuna. Pazienza! Mi
sarei scoraggiato per questo?
« Vivrò con me e di me, come ho vissuto finora! »
Sì; ma ecco: per dir la verità, temevo che della
mia compagnia non mi sarei tenuto né contento né
pago. E poi, toccandomi la faccia e scoprendomela sbarbata, passandomi
una mano su quei capelli lunghi o rassettandomi gli occhiali sul
naso, provavo una strana impressione: mi pareva quasi di non esser
più io, di non toccare me stesso.
Siamo giusti, io mi ero conciato a quel modo per gli altri, non
per me. Dovevo ora star con me, così mascherato? E se tutto
ciò che avevo finto e immaginato di Adriano Meis non doveva
servire per gli altri, per chi doveva servire? per me? Ma io,
se mai, potevo crederci solo a patto che ci credessero gli altri.
Ora, se questo Adriano Meis non aveva il coraggio di dir bugie,
di cacciarsi in mezzo alla vita, e si appartava e rientrava in
albergo, stanco di vedersi solo, in quelle tristi giornate d'inverno,
per le vie di Milano, e si chiudeva nella compagnia del morto
Mattia Pascal, prevedevo che i fatti miei, eh, avrebbero cominciato
a camminar male; che insomma non mi s'apparecchiava un divertimento,
e che la mia bella fortuna, allora...
Ma la verità forse era questa: che nella mia libertà
sconfinata, mi riusciva difficile cominciare a vivere in qualche
modo. Sul punto di prendere una risoluzione, mi sentivo come trattenuto,
mi pareva di vedere tanti impedimenti e ombre e ostacoli.
Ed ecco, mi cacciavo, di nuovo, fuori, per le strade, osservavo
tutto, mi fermavo a ogni nonnulla, riflettevo a lungo su le minime
cose; stanco, entravo in un caffè, leggevo qualche giornale,
guardavo la gente che entrava e usciva; alla fine, uscivo anch'io.
Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo,
mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto
tra quel rimescolìo di gente. E intanto il frastuono, il
fermento continuo della città m'intronavano.
« Oh perché gli uomini, » domandavo a me stesso,
smaniosamente, « si affannano così a rendere man
mano più complicato il congegno della loro vita? Perché
tutto questo stordimento di macchine? E che farà l'uomo
quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che
il così detto progresso non ha nulla a che fare con la
felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede
onestamente d'arricchire l'umanità (e la impoverisce, perché
costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?
»
In un tram elettrico, il giorno avanti, m'ero imbattuto in un
pover'uomo, di quelli che non possono fare a meno di comunicare
a gli altri tutto ciò che passa loro per la mente.
- Che bella invenzione! - mi aveva detto. - Con due soldini, in
pochi minuti, mi giro mezza Milano.
Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover'uomo, e
non pensava che il suo stipendiuccio se n'andava tutto quanto
e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa,
col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc., ecc.
Eppure la scienza, pensavo, ha l'illusione di render più
facile e più comoda l'esistenza! Ma, anche ammettendo che
la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine
così difficili e complicate, domando io: « E qual
peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela
facile e quasi meccanica? ».
Rientravo in albergo.
Là, in un corridojo, sospesa nel vano d'una finestra, c'era
una gabbia con un canarino. Non potendo con gli altri e non sapendo
che fare, mi mettevo a conversar con lui, col canarino: gli rifacevo
il verso con le labbra, ed esso veramente credeva che qualcuno
gli parlasse e ascoltava e forse coglieva in quel mio pispissìo
care notizie di nidi, di foglie, di libertà... Si agitava
nella gabbia, si voltava, saltava, guardava di traverso, scotendo
la testina, poi mi rispondeva, chiedeva, ascoltava ancora. Povero
uccellino! lui sì m'inteneriva, mentre io non sapevo che
cosa gli avessi detto...
Ebbene, a pensarci non avviene anche a noi uomini qualcosa di
simile? Non crediamo anche noi che la natura ci parli? e non ci
sembra di cogliere un senso nelle sue voci misteriose, una risposta,
secondo i nostri desiderii, alle affannose domande che le rivolgiamo?
E intanto la natura, nella sua infinita grandezza, non ha forse
il più lontano sentore di noi e della nostra vana illusione.
Ma vedete un po' a quali conclusioni uno scherzo suggerito dall'ozio
può condurre un uomo condannato a star solo con se stesso!
Mi veniva quasi di prendermi a schiaffi. Ero io dunque sul punto
di diventare sul serio un filosofo?
No, no, via, non era logica la mia condotta. Così, non
avrei potuto più oltre durarla. Bisognava ch'io vincessi
ogni ritegno, prendessi a ogni costo una risoluzione.
Io, insomma, dovevo vivere, vivere, vivere.