VII Cambio treno
Pensavo:
« Riscatterò la Stìa, e mi ritirerò
là, in campagna, a fare il mugnajo. Si sta meglio vicini
alla terra; e - sotto - fors'anche meglio.
« Ogni mestiere, in fondo, ha qualche sua consolazione.
Ne ha finanche quello del becchino. Il mugnajo può consolarsi
col frastuono delle macine e con lo spolvero che vola per aria
e lo veste di farina.
« Son sicuro che, per ora, non si rompe nemmeno un sacco,
là, nel molino. Ma appena lo riavrò io:
« - Signor Mattia, la nottola del palo! Signor Mattia, s'è
rotta la bronzina! Signor Mattia, i denti del lubecchio!
« Come quando c'era la buon'anima della mamma, e Malagna
amministrava.
« E mentr'io attenderò al molino, il fattore mi ruberà
i frutti della campagna; e se mi porrò invece a badare
a questa, il mugnajo mi ruberà la molenda. E di qua il
mugnajo e di là il fattore faranno l'altalena, e io nel
mezzo a godere.
« Sarebbe forse meglio che cavassi dalla veneranda cassapanca
di mia suocera uno dei vecchi abiti di Francesco Antonio Pescatore,
che la vedova custodisce con la canfora e col pepe come sante
reliquie, e ne vestissi Marianna Dondi e mandassi lei a fare il
mugnajo e a star sopra al fattore.
« L'aria di campagna farebbe certamente bene a mia moglie.
Forse a qualche albero cadranno le foglie, vedendola; gli uccelletti
ammutoliranno; speriamo che non secchi la sorgiva. E io rimarrò
bibliotecario, solo soletto, a Santa Maria Liberale. »
Così pensavo, e il treno intanto correva. Non potevo chiudere
gli occhi, ché subito m'appariva con terribile precisione
il cadavere di quel giovinetto, là, nel viale, piccolo
e composto sotto i grandi alberi immobili nella fresca mattina.
Dovevo perciò consolarmi così, con un altro incubo,
non tanto sanguinoso, almeno materialmente: quello di mia suocera
e di mia moglie. E godevo nel rappresentarmi la scena dell'arrivo,
dopo quei tredici giorni di scomparsa misteriosa.
Ero certo (mi pareva di vederle!), che avrebbero affettato entrambe,
al mio entrare, la più sdegnosa indifferenza. Appena un'occhiata,
come per dire:
« To', qua di nuovo? Non t'eri rotto l'osso del collo? »
Zitte loro, zitto io.
Ma poco dopo, senza dubbio, la vedova Pescatore avrebbe cominciato
a sputar bile, rifacendosi dall'impiego che forse avevo perduto.
M'ero infatti portata via la chiave della biblioteca: alla notizia
del mia sparizione, avevano dovuto certo scassinare la porta,
per ordine della questura: e, non trovandomi là entro,
morto, né avendosi d'altra parte tracce o notizie di me,
quelli del Municipio avevano forse aspettato, tre, quattro, cinque
giorni, una settimana, il mio ritorno; poi avevano dato a qualche
altro sfaccendato il mio posto.
Dunque, che stavo a far lì, seduto? M'ero buttato di nuovo,
da me, in mezzo a una strada? Ci stéssi! Due povere donne
non potevano aver l'obbligo di mantenere un fannullone, un pezzaccio
da galera, che scappava via così, chi sa per quali altre
prodezze, ecc., ecc.
Io, zitto.
Man mano, la bile di Marianna Dondi cresceva, per quel mio silenzio
dispettoso, cresceva, ribolliva, scoppiava: - e io, ancora lì,
zitto!
A un certo punto, avrei cavato dalla tasca in petto il portafogli
e mi sarei messo a contare sul tavolino i miei biglietti da mille:
là, là, là e là...
Spalancamento d'occhi e di bocca di Marianna Dondi e anche di
mia moglie.
Poi:
« - Dove li hai rubati?
« - ...settantasette, settantotto, settantanove, ottanta,
ottantuno; cinquecento, seicento, settecento; dieci, venti, venticinque;
ottantunmila settecento venticinque lire, e quaranta centesimi
in tasca. »
Quietamente avrei raccolti i biglietti, li avrei rimessi nel portafogli,
e mi sarei alzato.
« - Non mi volete più in casa? Ebbene, tante grazie!
Me ne vado, e salute a voi. »
Ridevo, così pensando.
I miei compagni di viaggio mi osservavano e sorridevano anch'essi,
sotto sotto.
Allora, per assumere un contegno più serio, mi mettevo
a pensare a' miei creditori, fra cui avrei dovuto dividere quei
biglietti di banca. Nasconderli, non potevo. E poi, a che m'avrebbero
servito, nascosti?
Godermeli, certo quei cani non me li avrebbero lasciati godere.
Per rifarsi lì, col molino della Stìa e coi frutti
del podere, dovendo pagare anche l'amministrazione, che si mangiava
poi tutto a due palmenti (a due palmenti era anche il molino),
chi sa quant'anni ancora avrebbero dovuto aspettare. Ora, forse,
con un'offerta in contanti, me li sarei levati d'addosso a buon
patto. E facevo il conto:
« Tanto a quella mosca canina del Recchioni; tanto, a Filippo
Brìsigo, e mi piacerebbe che gli servissero per pagarsi
il funerale: non caverebbe più sangue ai poverelli!; tanto
a Cichin Lunaro, il torinese; tanto, alla vedova Lippani... Chi
altro c'è ? Ih! hai voglia! Il Della Piana, Bossi e Margottini...
Ecco tutta la mia vincita! »
Avevo vinto per loro a Montecarlo, in fin dei conti! Che rabbia
per que' due giorni di perdita ! Sarei stato ricco di nuovo...
ricco!
Mettevo ora certi sospironi, che facevano voltare più dei
sorrisi di prima i miei compagni di viaggio. Ma io non trovavo
requie. Era imminente la sera: l'aria pareva di cenere; e l'uggia
del viaggio era insopportabile.
Alla prima stazione italiana comprai un giornale con la speranza
che mi facesse addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino
elettrico, mi misi a leggere. Ebbi così la consolazione
di sapere che il castello di Valençay, messo all'incanto
per la seconda volta, era stato aggiudicato al signor conte De
Castellane per la somma di due milioni e trecentomila franchi.
La tenuta attorno al castello era di duemila ottocento ettari:
la più vasta di Francia.
« Press'a poco, come la Stìa... »
Lessi che l'imperatore di Germania aveva ricevuto a Potsdam, a
mezzodì, l'ambasciata marocchina, e che al ricevimento
aveva assistito il segretario di Stato, barone de Richtofen. La
missione, presentata poi all'imperatrice, era stata trattenuta
a colazione, e chi sa come aveva divorato!
Anche lo Zar e la Zarina di Russia avevano ricevuto a Peterhof
una speciale missione tibetana, che aveva presentato alle LL.
MM. i doni del Lama.
« I doni del Lama? » domandai a me stesso, chiudendo
gli occhi, cogitabondo. « Che saranno? »
Papaveri: perché mi addormentai. Ma papaveri di scarsa
virtù: mi ridestai, infatti, presto, a un urto del treno
che si fermava a un'altra stazione.
Guardai l'orologio: eran le otto e un quarto. Fra un'oretta, dunque,
sarei arrivato.
Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda
pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi
andarono su un <B>suicidio</B> così, in grassetto.
Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m'affrettai
a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di
minutissimo carattere: « Ci telegrafano da Miragno ».
« Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese? »
Lessi: « Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella
gora d'un mulino un cadavere in istato d'avanzata putrefazione...
».
A un tratto, la vista mi s'annebbiò, sembrandomi di scorgere
nel rigo seguente il nome del mio podere; e, siccome stentavo
a leggere, con un occhio solo, quella stampa minuscola, m'alzai
in piedi, per essere più vicino al lume.
« ... putrefazione. Il molino è sito in un podere
detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città.
Accorsa sopra luogo l'autorità giudiziaria con altra gente,
il cadavere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge
e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello
del nostro... »
Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei
compagni di viaggio che dormivano tutti.
« Accorsa sopra luogo... estratto dalla gora... e piantonato...
fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario... »
« Io? »
« Accorsa sopra luogo... più tardi... per quello
del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi
giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii. »
« Io?... Scomparso... riconosciuto... Mattia Pascal... »
Rilessi con piglio feroce e col cuore in tumulto non so più
quante volte quelle poche righe. Nel primo impeto, tutte le mie
energie vitali insorsero violentemente per protestare: come se
quella notizia, così irritante nella sua impassibile laconicità,
potesse anche per me esser vera. Ma, se non per me, era pur vera
per gli altri; e la certezza che questi altri avevano fin da jeri
della mia morte era su me come una insopportabile sopraffazione,
permanente, schiacciante... Guardai di nuovo i miei compagni di
viaggio e, quasi anch'essi, lì, sotto gli occhi miei, riposassero
in quella certezza, ebbi la tentazione di scuoterli da quei loro
scomodi e penosi atteggiamenti, scuoterli, svegliarli, per gridar
loro che non era vero.
« Possibile? »
E rilessi ancora una volta la notizia sbalorditoja.
Non potevo più stare alle mosse. Avrei voluto che il treno
s'arrestasse, avrei voluto che corresse a precipizio: quel suo
andar monotono, da automa duro, sordo e greve, mi faceva crescere
di punto in punto l'orgasmo. Aprivo e chiudevo le mani continuamente,
affondandomi le unghie nelle palme; spiegazzavo il giornale; lo
rimettevo in sesto per rilegger la notizia che già sapevo
a memoria, parola per parola.
« Riconosciuto! Ma è possibile che m'abbiano riconosciuto?...
In istato d'avanzata putrefazione... puàh! »
Mi vidi per un momento, lì nell'acqua verdastra della gora,
fradicio, gonfio, orribile, galleggiante... Nel raccapriccio istintivo,
incrociai le braccia sul petto e con le mani mi palpai, mi strinsi:
« Io, no; io, no... Chi sarà stato?... mi somigliava,
certo... Avrà forse avuto la barba anche lui, come la mia...
la mia stessa corporatura... E m'han riconosciuto!... Scomparso
da parecchi giorni... Eh già! Ma io vorrei sapere, vorrei
sapere chi si è affrettato così a riconoscermi.
Possibile che quel disgraziato là fosse tanto simile a
me? vestito come me? tal quale? Ma sarà stata lei, forse,
lei, Marianna Dondi, la vedova Pescatore: oh! m'ha pescato subito,
m'ha riconosciuto subito! Non le sarà parso vero, figuriamoci!
- E' lui, è lui! mio genero! ah, povero Mattia! ah, povero
figliuolo mio! - E si sarà messa a piangere fors'anche;
si sarà pure inginocchiata accanto al cadavere di quel
poveretto, che non ha potuto tirarle un calcio e gridarle: - Ma
lèvati di qua: non ti conosco -. »
Fremevo. Finalmente il treno s'arrestò a un'altra stazione.
Aprii lo sportello e mi precipitai giù, con l'idea confusa
di fare qualche cosa, subito: un telegramma d'urgenza per smentire
quella notizia.
Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse
scosso dal cervello quella stupida fissazione, intravidi in un
baleno... ma sì! la mia liberazione la libertà una
vita nuova!
Avevo con me ottantaduemila lire, e non avrei più dovuto
darle a nessuno! Ero morto, ero morto: non avevo più debiti,
non avevo più moglie, non avevo più suocera: nessuno!
libero! libero! libero! Che cercavo di più?
Pensando così, dovevo esser rimasto in un atteggiamento
stranissimo, là su la banchina di quella stazione. Avevo
lasciato aperto lo sportello del vagone. Mi vidi attorno parecchia
gente, che mi gridava non so che cosa; uno, infine, mi scosse
e mi spinse, gridandomi più forte:
- Il treno riparte!
- Ma lo lasci, lo lasci ripartire, caro signore! - gli gridai
io, a mia volta. - Cambio treno!
Mi aveva ora assalito un dubbio: il dubbio se quella notizia fosse
già stata smentita; se già si fosse riconosciuto
l'errore, a Miragno; se fossero saltati fuori i parenti del vero
morto a correggere la falsa identificazione.
Prima di rallegrarmi così, dovevo bene accertarmi, aver
notizie precise e particolareggiate. Ma come procurarmele?
Mi cercai nelle tasche il giornale. Lo avevo lasciato in treno.
Mi voltai a guardare il binario deserto, che si snodava lucido
per un tratto nella notte silenziosa, e mi sentii come smarrito,
nel vuoto, in quella misera stazionuccia di passaggio. Un dubbio
più forte mi assalì, allora: che io avessi sognato?
Ma no:
« Ci telegrafano da Miragno. Jeri, sabato 28... »
Ecco: potevo ripetere a memoria, parola per parola, il telegramma.
Non c'era dubbio! Tuttavia, sì, era troppo poco; non poteva
bastarmi.
Guardai la stazione; lessi il nome: ALENGA.
Avrei trovato in quel paese altri giornali? Mi sovvenne che era
domenica. A Miragno, dunque, quella mattina, era uscito Il Foglietto,
l'unico giornale che vi si stampasse. A tutti i costi dovevo procurarmene
una copia. Lì avrei trovato tutte le notizie particolareggiate
che m'abbisognavano. Ma come sperare di trovare ad Alenga Il Foglietto?
Ebbene: avrei telegrafato sotto un falso nome alla redazione del
giornale. Conoscevo il direttore, Miro Colzi, Lodoletta come tutti
lo chiamavano a Miragno, da quando, giovinetto, aveva pubblicato
con questo titolo gentile il suo primo e ultimo volume di versi.
Per Lodoletta però non sarebbe stato un avvenimento quella
richiesta di copie del suo giornale da Alenga? Certo la notizia
più « interessante » di quella settimana, e
perciò il pezzo più forte di quel numero, doveva
essere il mio suicidio. E non mi sarei dunque esposto al rischio
che la richiesta insolita facesse nascere in lui qualche sospetto?
« Ma che! » pensai poi. « A Lodoletta non può
venire in mente ch'io non mi sia affogato davvero. Cercherà
la ragione della richiesta in qualche altro pezzo forte del suo
numero d'oggi. Da tempo combatte strenuamente contro il Municipio
per la conduttura dell'acqua e per l'impianto del gas. Crederà
piuttosto che sia per questa sua "campagna". »
Entrai nella stazione.
Per fortuna, il vetturino dell'unico legnetto, quello de la posta,
stava ancora lì a chiacchierare con gl'impiegati ferroviarii:
il paesello era a circa tre quarti d'ora di carrozza dalla stazione,
e la via era tutta in salita.
Montai su quel decrepito calessino sgangherato, senza fanali;
e via nel buio.
Avevo da pensare a tante cose; pure, di tratto in tratto, la violenta
impressione ricevuta alla lettura di quella notizia che mi riguardava
così da vicino mi si ridestava in quella nera, ignota solitudine,
e mi sentivo, allora, per un attimo, nel vuoto, come poc'anzi
alla vista del binario deserto; mi sentivo paurosamente sciolto
dalla vita, superstite di me stesso, sperduto, in attesa di vivere
oltre la morte, senza intravedere ancora in qual modo.
Domandai, per distrarmi, al vetturino, se ci fosse ad Alenga un'agenzia
giornalistica:
- Come dice? Nossignore!
- Non si vendono giornali ad Alenga?
- Ah! sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli.
- C'è un albergo?
- C'è la locanda del Palmentino.
Era smontato da cassetta per alleggerire un po' la vecchia rozza
che soffiava con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un
certo punto accese la pipa e lo vidi, allora, come a sbalzi, e
pensai: « Se egli sapesse chi porta... ».
Ma ritorsi subito a me stesso la domanda:
« Chi porta? Non lo so più nemmeno io. Chi sono io
ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che
me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi
poi imbarazzato se, alla locanda, me lo domandano. Basterà
che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po'! Come mi
chiamo? »
Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi
tanta smania la scelta di un nome e di un cognome. Il cognome
specialmente! Accozzavo sillabe, cosi, senza pensare: venivano
fuori certi cognomi, come: Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi,
che m'irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo alcuna proprietà,
alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne...
Eh, via! uno qualunque... Martoni, per esempio, perché
no? Carlo Martoni... Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata:
« Sì! Carlo Martello... ». E la smania ricominciava.
Giunsi al paese, senza averne fissato alcuno. Fortunatamente,
là, dal farmacista, ch'era anche ufficiale telegrafico
e postale, droghiere, cartolajo, giornalajo, bestia e non so che
altro, non ce ne fu bisogno. Comprai una copia dei pochi giornali
che gli arrivavano: giornali di Genova: Il Caffaro e Il Secolo
XIX; gli domandai poi se potevo avere Il Foglietto di Miragno.
Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli con un pajo d'occhi
tondi tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto,
quasi con pena certe pàlpebre cartilaginose.
- Il Foglietto? Non lo conosco.
- E' un giornaluccio di provincia, settimanale, - gli spiegai.
- Vorrei averlo. Il numero d'oggi, s'intende.
- Il Foglietto? Non lo dieci - badava a ripetere.
- E va bene! Non importa che lei non lo conosca io le pago le
spese per un vaglia telegrafico alla redazione. Ne vorrei avere
dieci venti copie, domani o al più presto. Si può?
Non rispondeva: con gli occhi fissi, senza sguardo, ripeteva ancora:
- Il Foglietto?... Non lo conosco -. Finalmente si risolse a fare
il vaglia telegrafico sotto la mia dettatura, indicando per il
recapito la sua farmacia.
E il giorno appresso, dopo una notte insonne, sconvolta da un
tempestoso mareggiamento di pensieri, là nella Locanda
del Palmentino, ricevetti quindici copie del Foglietto.
Nei due giornali di Genova che, appena rimasto solo, m'ero affrettato
a leggere, non avevo trovato alcun cenno. Mi tremavano le mani
nello spiegare Il Foglietto. In prima pagina, nulla. Cercai nelle
due interne, e subito mi saltò a gli occhi un segno di
lutto in capo alla terza pagina e, sotto, a grosse lettere, il
mio nome. Così:
____________________
MATTIA PASCAL
Non si avevano notizie di lui da alquanti giorni: giorni di tremenda
costernazione e d'inenarrabile angoscia per la desolata famiglia;
costernazione e angoscia condivise dalla miglior parte della nostra
cittadinanza, che lo amava e lo stimava per la bontà dell'animo,
per la giovialità del carattere e per quella natural modestia,
che gli aveva permesso, insieme con le altre doti, di sopportare
senza avvilimento e con rassegnazione gli avversi fati, onde dalla
spensierata agiatezza si era in questi ultimi tempi ridotto in
umile stato.
Quando, dopo il primo giorno dell'inesplicabile assenza, la famiglia
impressionata si recò alla Biblioteca Boccamazza, dove
egli, zelantissimo del suo ufficio, si tratteneva quasi tutto
il giorno ad arricchire con dotte letture la sua vivace intelligenza,
trovò chiusa la porta; subito, innanti a questa porta chiusa,
sorse nero e trepidante il sospetto, sospetto tosto fugato dalla
lusinga che durò parecchi dì, man mano però
raffievolendosi, ch'egli si fosse allontanato dal paese per qualche
sua segreta ragione.
Ma ahimè! La verità doveva purtroppo esser quella!
La perdita recente della madre adoratissima e, a un tempo, dell'unica
figlioletta, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profondamente
sconvolto l'animo del povero amico nostro. Tanto che, circa tre
mesi addietro, già una prima volta, di notte tempo, egli
aveva tentato di pôr fine a' suoi miseri giorni, là,
nella gora appunto di quel molino, che gli ricordava i passati
splendori della sua casa ed il suo tempo felice.
...Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Nella
miseria...
Con le lacrime agli occhi e singhiozzando cel narrava, innanzi
al grondante e disfatto cadavere, un vecchio mugnajo, fedele e
devoto alla famiglia degli antichi padroni. Era calata la notte,
lugubre; una lucerna rossa era stata deposta lì per terra,
presso al cadavere vigilato da due Reali Carabinieri e il vecchio
Filippo Brina (lo segnaliamo all'ammirazione dei buoni) parlava
e lagrimava con noi. Egli era riuscito in quella triste notte
a impedire che l'infelice riducesse ad effetto il violento proposito;
ma non si trovò più là Filippo Brina pronto
ad impedirlo, questa seconda volta. E Mattia Pascal giacque, forse
tutta una notte e metà del giorno appresso, nella gora
di quel molino.
Non tentiamo nemmeno di descrivere la straziante scena che seguì
sul luogo, quando l'altro ieri, in sul far della sera, la vedova
sconsolata si trovò innanzi alla miseranda spoglia irriconoscibile
del diletto compagno, che era andato a raggiungere la figlioletta
sua.
Tutto il paese ha preso parte al cordoglio di lei e ha voluto
dimostrarlo accompagnando all'estrema dimora il cadavere, a cui
rivolse brevi e commosse parole d'addio il nostro assessore comunale
cav. Pomino.
Noi inviamo alla povera famiglia immersa in tanto lutto, al fratello
Roberto lontano da Miragno, le nostre più sentite condoglianze,
e col cuore lacerato diciamo per l'ultima volta al nostro buon
Mattia: - Vale, diletto amico, vale!
M. C.
____________________
Anche senza queste due iniziali avrei riconosciuto Lodoletta come
autore della necrologia.
Ma debbo innanzi tutto confessare che la vista del mio nome stampato
lì, sotto quella striscia nera, per quanto me l'aspettassi,
non solo non mi rallegrò affatto, ma mi accelerò
talmente i battiti del cuore, che, dopo alcune righe, dovetti
interrompere la lettura. La « tremenda costernazione e l'inenarrabile
angoscia » della mia famiglia non mi fecero ridere, né
l'amore e la stima dei miei concittadini per le mie belle virtù,
né il mio zelo per l'ufficio. Il ricordo di quella mia
tristissima notte alla Stìa, dopo la morte della mamma
e della mia piccina, ch'era stato come una prova, e forse la più
forte, del mio suicidio, mi sorprese dapprima, quale una impreveduta
e sinistra partecipazione del caso; poi mi cagionò rimorso
e avvilimento.
Eh, no! non mi ero ucciso, io, per la morte della mamma e della
figlietta mia, per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto
l'idea! Me n'ero fuggito, è vero, disperatamente; ma, ecco,
ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la Fortuna nel modo
più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi, e
un altro, invece, s'era ucciso per me, un altro, un forestiere
certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli
amici, e condannavo - oh suprema irrisione! - a subir quello che
non gli apparteneva falso compianto, e finanche l'elogio funebre
dell'incipriato cavalier Pomino!
Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia
sul Foglietto.
Ma poi pensai che quel pover'uomo era morto non certo per causa
mia, e che io, facendomi vivo non avrei potuto far rivivere anche
lui; pensai che approfittandomi della sua morte, io non solo non
frodavo affatto i suoi parenti, ma anzi venivo a render loro un
bene: per essi, infatti, il morto ero io non lui, ed essi potevano
crederlo scomparso e sperare ancora, sperare di vederlo un giorno
o l'altro ricomparire.
Restavano mia moglie e mia suocera. Dovevo proprio credere alla
loro pena per la mia morte, a tutta quella « inenarrabile
angoscia », a quel « cordoglio straziante »
del funebre pezzo forte di Lodoletta? Bastava, perbacco, aprir
pian piano un occhio a quel povero morto, per accorgersi che non
ero io; e anche ammesso che gli occhi fossero rimasti in fondo
alla gora, via! una moglie, che veramente non voglia, non può
scambiare così facilmente un altro uomo per il proprio
marito.
Si erano affrettate a riconoscermi in quel morto? La vedova Pescatore
sperava ora che Malagna, commosso e forse non esente di rimorso
per quel mio barbaro suicidio, venisse in ajuto della povera vedova?
Ebbene: contente loro, contentissimo io!
« Morto? affogato? Una croce, e non se ne parli più!
»
Mi levai, stirai le braccia e trassi un lunghissimo respiro di
sollievo.