L'ULTIMO VIAGGIO |
IV LE
GRU GUERRIERE Dicean,
Dormi, al nocchiero, Ara, al villano, di
su le nubi, le raminghe gru. Ara:
la stanga dell'aratro al giogo lega
dei bovi; ché tu n'hai, ben d'erbe sazi,
in capanna, o figlio di Laerte. Fatti
col cuoio d'un di loro, ucciso, un
paio d'uose, che difenda il freddo, ma
prima il dentro addenserai di feltro; e
cucirai coi tendini del bove pelli
de' primi nati dalle capre, che
a te dall'acqua parino le spalle; e
su la testa ti porrai la testa d'un
vecchio lupo, che ti scaldi, e i denti bianchi
digrigni tra il nevischio e i venti. Arare
il campo, non il mare, è tempo, da
che nel cielo non si fa vedere più
quel branchetto delle sette stelle. Sessanta
giorni dopo volto il sole, quando
ritorni il conduttor del Carro, allor
dolce è la brezza, il mare è calmo; brilla
Boote a sera, e sul mattino tornata
già la rondine cinguetta, che
il mare è calmo e che dolce è la brezza. La
brezza chiama a sé la vela, il mare chiama
a sé il remo; e resta qua canoro il
cuculo a parlare al vignaiolo. Questo
era canto che mordeva il cuore a
chi non bovi e sol avea l'aratro; ch'egli
ha bel dire, Prestami il tuo paro! Son
le faccende, ed ora ogni bifolco semina,
e poi, sicuro della fame, ode
venti fischiare, acque scrosciare, ilare.
E intanto esse, le gru, moveano verso
l'Oceano, a guerra, in righe lunghe, empiendo
il cielo d'un clangor di trombe.
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